Lo scorso maggio, a seguito dell’escalation di violenza nei Territori Occupati e a Gaza, sui social network sono stati pubblicati post che denunciavano la brutalità delle forze di sicurezza israeliane ed esprimevano solidarietà verso i palestinesi. A questi, sono seguiti commenti e messaggi filo-sionisti, nei quali si sosteneva l’attacco contro la Striscia e si legittimavano le politiche repressive di Israele. Alcuni dei contenuti appartenenti al primo gruppo, però, sono stati cancellati dalle principali piattaforme social. Ciò dimostra, ancora una volta, l’esistenza di un doppio standard narrativo che caratterizza le dinamiche tra oppresso e oppressore e indirizza l’opinione pubblica.
La censura degli ultimi mesi è solo un esempio di questo doppio standard applicato dai social network, che già in passato aveva colpito i palestinesi e non solo, violando i diritti digitali e la stessa libertà di espressione.
I casi riportati
Dagli sgomberi forzati agli attacchi contro la moschea di al-Aqsa, i palestinesi hanno cercato di denunciare le violenze subite e la brutalità della polizia attraverso i principali social network, caricando video, immagini o commenti. Questi post sono diventati virali e hanno riscontrato un ampio sostegno anche all’estero, scomparendo però nel giro di poco tempo.
A denunciare per prima queste censure è stata l’ONG palestinese 7amleh, che il 21 maggio scorso ha pubblicato il report The Attacks on Palestinian Digital Rights sulla violazione dei diritti digitali dei palestinesi nel periodo compreso tra i giorni 6 e 19 dello stesso mese. Il rapporto analizza 500 casi di censura applicata principalmente su Instagram (50%), Facebook (35%) e, in misura minore, Twitter e Tik Tok.
I contenuti volti a denunciare le violenze perpetrate dai militari e dagli estremisti israeliani contro gli arabi sono stati rimossi con la scusa dell’incitamento all’odio, o della violazione degli standard della piattaforma social. Inoltre, un numero consistente degli account analizzati da 7amleh (60% su Facebook, 26% su Instagram) ha subito restrizioni o è stato disattivato.
Associated Press ha invece denunciato, poche ore dopo il “cessate il fuoco” di giovedì 20 maggio, il blocco degli account WhatsApp di almeno 17 giornalisti operanti nella Striscia di Gaza, apparentemente senza alcun motivo. La maggior parte di questi faceva parte di una chat in cui venivano scambiate a scopi lavorativi informazioni e breaking news sulle attività di Hamas, considerato un gruppo terroristico sia in Israele che negli Stati membri dell’UE e negli Stati Uniti, dove ha sede la Facebook Inc. (proprietaria anche di WhatsApp e Instagram). Nonostante la condivisione di informazioni sull’organizzazione islamista abbia scopi puramente giornalistici, l’app di messaggistica istantanea ha probabilmente ritenuto che la chat fosse legata alle operazioni militari e terroristiche.
Il lunedì successivo, solo gli account di quattro impiegati di Al Jazeera sono stati ripristinati, dopo che l’emittente qatariota aveva contattato la direzione dell’applicazione di messaggistica istantanea. Tuttavia, i contenuti precedentemente condivisi attraverso le chat, compresi contatti, informazioni e materiale multimediale, sono stati cancellati, distruggendo il lavoro accumulato dai giornalisti coinvolti. Associated Press riporta che un caso simile era già avvenuto nel 2019.
Anche Reporters Sans Frontières ha espresso la propria preoccupazione per le censure online, oltre che per l’arresto di giornalisti palestinesi e la distruzione degli uffici di Al Jazeera e Associated Press a Gaza.
Il ruolo di Tel Aviv
Il governo di Tel Aviv è parzialmente coinvolto nella censura online dei palestinesi. Secondo il report #Hashtag Palestine 2020 di 7amleh, nella prima metà del 2020 la Cyber Unit israeliana, un ufficio specializzato nel monitoraggio di attività criminali o legate al terrorismo online, ha inviato a Facebook 913 segnalazioni per bloccare o eliminare pagine e profili sulla piattaforma social; l’81% di queste richieste è stato accettato. Anche Twitter, secondo la ONG palestinese, avrebbe sospeso alcuni account basandosi su informazioni ricevute dal ministero degli Affari strategici di Israele.
La collaborazione tra Tel Aviv e la compagnia di Facebook è iniziata nel 2016, con lo scopo di mantenere sotto controllo la diffusione di idee estremiste online e l’incitamento all’odio. Nella prassi, questo contenimento è stato applicato in maniera unilaterale e faziosa. Gli eventi di maggio ne sono stati un esempio: mentre i post, video e messaggi in sostegno dei palestinesi sono stati cancellati con l’accusa di incitamento all’odio o per una loro presunta pericolosità, quelli che celebravano i bombardamenti su Gaza e incitavano all’omicidio degli arabi sono ancora online.
Di fatto, New York Times e Associated Press riportano che in Israele sono attivi circa un centinaio di gruppi WhatsApp e Telegram usati dai membri dell’estrema destra per incitare alla violenza contro i palestinesi: nelle chat vengono condivisi video o foto di assalti ai danni di arabi e si invita i partecipanti delle chat a fare altrettanto.
Anche sulle altre piattaforme social è facile individuare contenuti inneggianti all’odio. Nel Racism and Incitement Index 2020 di 7amleh, in Israele una pubblicazione su dieci incentrata su arabi e palestinesi aveva contenuti razzisti, violenti o discriminatori, specialmente su Twitter, con un incremento rispetto all’anno precedente.
Non è un caso isolato
A seguito delle proteste da parte di varie associazioni e attivisti, inclusa la Congresswoman statunitense Rashida Tlaib, il vice-presidente per gli Affari globali di Facebook Nick Clegg si è scusato per l’eliminazione dei contenuti legati alla Palestina tra il 6 e il 19 maggio, adducendo come giustificazione alcuni errori di funzionamento dei sistemi informatici. Il rappresentante del social network ha affermato che la sua compagnia non ha alcuna intenzione di mettere a tacere le voci di una particolare comunità. Tuttavia, l’oscuramento di contenuti filo-palestinesi nel corso del mese di maggio non è stato un caso isolato.
Già nel settembre 2016, il Palestinian center for development and media freedoms aveva denunciato la censura delle attività di giornalisti e attivisti palestinesi su Facebook.
Lo scorso aprile, invece, Facebook, Youtube e Zoom hanno bloccato l’evento accademico “Whose Narratives? What Free Speech for Palestine?”, sponsorizzato dal corso di studio Arab and Muslim ethnicities and diasporas (AMED) della San Francisco State University, il Council of UC faculty associations (CUFCA) e l’University of California humanities research institute (UCHRI). Il motivo è stato addotto alla partecipazione di Leila Khaled, icona della resistenza palestinese e parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP, considerato da Washington un’organizzazione terroristica).
Oltre a impedire lo svolgersi dell’evento, Facebook ha eliminato la pagina relativa all’AMED, che conteneva documenti e dibattiti sui movimenti di liberazione palestinesi; il materiale, accessibile gratuitamente a tutti, è andato perso. Come nel caso dei giornalisti di Gaza, la percezione che gli Stati Uniti (sede delle principali piattaforme social) hanno di una determinata organizzazione influenza la libertà di espressione su internet su scala mondiale, nonostante non siano state riportate pressioni da parte di Washington.
I palestinesi non sono gli unici a essere perseguitati in patria e censurati sui social network. Nel 2017, un altro gruppo colpito da una censura ingiusta è stato quello dei Rohingya. Mentre i membri della minoranza del Myanmar subivano una pulizia etnica da parte delle autorità birmane, Facebook ha dichiarato l’Arakan Rohingya salvation army (i cui membri si autodefiniscono freedom fighters per i diritti del proprio popolo) un’organizzazione pericolosa, ordinando di eliminare i contenuti pubblicati dal gruppo sulla piattaforma social.
Senza libertà d’espressione non c’è informazione
Attualmente, i social network sono un importante veicolo di informazione e in alcuni ambienti rappresentano l’unico mezzo a disposizione della società civile per denunciare violenze, ingiustizie e brutalità subite da persone e comunità specifiche, portandole davanti agli occhi del mondo intero. Soprattutto quando i media internazionali non hanno accesso a determinati luoghi, i contenuti postati dagli utenti sono una fonte di prima mano molto importante per avere un quadro completo della situazione, ed eventualmente andare oltre la narrazione ufficiale dei governi coinvolti.
In Palestina come nel resto del mondo, una censura selettiva (che sia adottata da social network o governi), basata su criteri discutibili e ambigui, non solo viola la libertà di espressione e di informazione degli individui, ma rende la trasmissione di determinati eventi unilaterale e incompleta inquinando il servizio di informazione e direzionando la narrativa generale.
Fonti e approfondimenti
7amleh, #Hashtag Palestine 2020, maggio 2020.
7amleh, The Attacks on Palestinian Digital Rights. Press report, May 9-19, 2021, 21/05/2021.
Fares Akram e Aya Batrawy, Gaza-based journalists in Hamas chat blocked from WhatsApp, Associated Press, 24/05/2021.
Al Jazeera, Gaza-based journalists say their accounts blocked by WhatsApp, 25/05/2021.
Middle East Monitor, Facebook removes Gaza-based Shehab News Agency from platform, 14/07/2021.
Associated Press in Jerusalem, Facebook and Israel to work to monitor posts that incite violence, The Guardian, 12/09/2016.
Kari Paul, Facebook under fire as human rights groups claim ‘censorship’ of pro-Palestine posts, The Guardian, 26/05/2021.
Usaid Siddiqui e Radmilla Suleymanova, Israel, social media groups cooperating against Palestinians: NGO, Al Jazeera, 21/05/2021.
Julia Carrie Wong, Michael Safi e Shaikh Azizur Rahman, Facebook bans Rohingya group’s posts as minority faces ‘ethnic cleansing’, The Guardian, 20/09/2017.
Omar Zahzah, Digital apartheid: Palestinians being silenced on social media, Al Jazeera, 13/05/2021.
Editing a cura di Carolina Venco
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