L’evoluzione della politica di colonizzazione israeliana nei Territori palestinesi occupati 

Una veduta dell'insediamento israeliano di Ma'ale, a est di Gerusalemme, in Cisgiordania
@Davidmosberg - Wiki Commons - License CC BY-SA 3.0

Con insediamenti israeliani si indicano le comunità abitate da israeliani nei Territori palestinesi occupati (TPO) nel corso della Guerra dei sei giorni del 1967. Si tratta di veri e propri villaggi, spesso città, talmente assimilate all’economia e alle infrastrutture israeliane da non poterle distinguere da Israele.

Gli insediamenti sono presenti in Cisgiordania, inquadrati nell’area amministrativa Giudea e Samaria, che è in parte sotto amministrazione di Israele e in parte sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), e sulle Alture del Golan, che sono sotto l’amministrazione civile israeliana.

Gli insediamenti costituiscono il risultato di due importanti processi, a opera del partito Likud, che hanno plasmato il corso della società israeliana negli ultimi quattro decenni: la privatizzazione neoliberista e la perpetuazione dell’occupazione nei territori occupati. La graduale liquidazione dello stato sociale israeliano e la commercializzazione dei suoi servizi ampliarono la forbice della disuguaglianza economica in Israele, colpendo in modo sproporzionato le classi israeliane meno abbienti.

Per controbilanciare gli effetti dannosi della privatizzazione e proteggere i propri cittadini, il Likud sviluppò, a partire dagli anni Settanta, una serie di meccanismi compensativi, fra cui figura il progetto di costruzione degli insediamenti. 

Il meccanismo di compensazione degli insediamenti

Fin dalla sua ascesa al potere, nel 1977, Likud ha utilizzato politiche come la privatizzazione e la commercializzazione dei servizi sociali per risparmiare sullo stato sociale. Naturalmente, questa politica, che di fatto ha trasformato i servizi sociali da diritti civili in beni di mercato, ha colpito principalmente le classi israeliane meno abbienti. 

In quel periodo, Israele si avviava verso significativi cambiamenti sociali e culturali. La liberalizzazione e la privatizzazione, iniziate un decennio prima, subirono un’accelerazione nel 1977, con l’elezione del primo governo di destra di orientamento liberale, e raggiunsero un punto di non ritorno negli anni Ottanta. 

In questo processo, diverse imprese e servizi nazionali chiave vennero privatizzati, tra cui anche la missione relativa alla colonizzazione. Conseguentemente, l’ambiente locale iniziò a essere influenzato non solo da ideologia, identità, sicurezza e sovranità, ma anche da imperativi economici e dal tentativo per molti di migliorare le proprie condizioni di vita individuali.

Mentre durante i primi decenni di vita di Israele lo sviluppo urbano era guidato dallo Stato, e quindi incentrato su una ridistribuzione nazionale della popolazione del Paese, alla fine degli anni Ottanta si trasformò in uno sforzo di decentramento locale.

Nel primo caso, i tentativi di insediamento si concentravano nell’attrarre famiglie con la promessa di migliori standard di vita; nel secondo caso, invece, includevano una crescente dipendenza da società private su larga scala, che trasformarono il meccanismo di insediamento in un progetto immobiliare. 

In ogni fase, lo Stato ha utilizzato un meccanismo diverso per far valere i propri interessi sull’individuo, sia costringendolo a trasferirsi in periferia, seducendolo con lo stile di vita suburbano, sia incorporando il progetto territoriale nella struttura sociale esistente, come parte integrante dell’economia di mercato. 

L’ideologia sionista dietro la progressiva colonializzazione

In seno ad alcuni circoli religiosi di destra, la vittoria di Israele nella guerra del 1967 fu interpretata in termini teologici, come se offrisse l’opportunità di realizzare il sogno di “Eretz Israel”, la Terra d’Israele.   

Con il termine controverso “Eretz Israel” si intende la regione che, secondo il Tanakh e la Bibbia, fu promessa da Dio ai discendenti di Abramo attraverso suo figlio Isacco e agli Israeliti, discendenti di Giacobbe, nipote di Abramo.

Nel 1974, inoltre, sotto la guida spirituale del rabbino Zvi Yehuda Kook, era nato il movimento Gush Emunim (in ebraico “Blocco dei Fedeli”), i cui aderenti si ritenevano partecipi di un processo storico divino. Il movimento aveva iniziato a creare insediamenti nelle aree palestinesi più densamente popolate, per affermare il diritto israeliano su tutta l’Israele biblica e impedire qualsiasi piano di ritorno per i palestinesi ai confini ante ’67. 

Questo approccio ideologico alla questione degli insediamenti israeliani nei TPO divenne maggioritario con i governi Likud: così, mentre nel periodo 1967-1977 gli insediamenti in Cisgiordania furono poco meno di quaranta, in maggioranza nella valle del Giordano e attorno a Gerusalemme, nel periodo 1977-1987 gli insediamenti di coloni israeliani crebbero di altre centosettanta unità (circa duecentodieci in totale) e si espansero in tutta la Cisgiordania, mentre il numero dei coloni passava da cinquemila a cinquantacinquemila.

Il metodo principale adottato dai coloni fu quello di stabilirsi in un dato luogo, spesso anche senza il permesso del governo, nell’intento di costringere più tardi l’esecutivo a riconoscere l’insediamento come un fatto compiuto.

Riforme amministrative e investimenti pubblici contribuirono a facilitare la colonizzazione: se negli anni Sessanta i coloni erano i pionieri laburisti dei kibbutzimm (forma associativa volontaria di lavoratori, basata su regole rigidamente egualitarie e sul concetto di proprietà collettiva), e nei primi anni Settanta i fondamentalisti ebraici del Gush Emunim, negli anni Ottanta la maggioranza di coloro che si insediava nei TPO lo faceva per convenienza economica.

Gli enormi budget e benefici che il progetto di insediamento offre in alloggi, istruzione, servizi comunali, fiscalità, infrastrutture e occupazione sono diventati un meccanismo che ha risarcito le classi meno abbienti per i danni da loro subiti dallo smantellamento dello stato sociale e dalla privatizzazione dei servizi sociali. Questi benefici sono stati la causa di parte della migrazione verso gli insediamenti.

Questi ultimi offrirono alle classi più povere anche un “capitale sociale”: l’inclusione nella nuova élite israeliana dei coloni. Il sostegno politico delle classi inferiori alla destra e la loro identificazione ideologica con la visione del “Eretz Israel” offuscarono in parte i motivi economici e sociali della loro migrazione all’interno delle colonie. 

I primi sforzi nazionali e statali si concentrarono sulla costruzione di villaggi rurali e città di sviluppo. Con la liberalizzazione dell’economia e delle società locali, lo Stato privatizzò l’atto di insediamento e iniziò a fare più affidamento sul settore privato. Durante gli anni Settanta, questa transizione includeva una crescente enfasi sulla qualità della vita e sosteneva il sogno individualistico e suburbano delle famiglie della classe media.

Il motto ebraico «Kibush HaShmama» («conquista la terra») ha rappresentato una narrativa di primo piano negli approcci sionisti che hanno portato alla creazione dello Stato di Israele. L’idea di «una terra senza popolo per un popolo senza terra» ritraeva la Palestina come una terra vuota, sottosviluppata e instabile, in attesa di redenzione. Simile all’espansione americana verso Ovest, gli insediamenti non costituirono solo un mezzo per appropriarsi delle terre, ma anche uno strumento per formare una nuova identità nazionale, esclusivamente israeliana.

Questa identità condivisa rappresentò un aspetto cruciale nella formazione del moderno Stato-nazione israeliano, che si basava in modo significativo su un’unione tra le entità politiche e nazionali. La formazione degli insediamenti divenne dunque una missione nazionale di primo piano. Il metodo con cui sono stati sviluppati, tuttavia, si è trasformato notevolmente nel corso degli anni. 

Sebbene l’approccio settle and rule sia stato mantenuto, le modalità della sua attuazione si sono adattate ai cambiamenti dell’economia e della cultura locali. Alla fine, quello che era iniziato come un atto pionieristico di conquista della frontiera, si è trasformato in un’impresa architetturale elaborata e complessa. Durante gli anni Novanta, il nuovo approccio dello Stato chiedeva, per la prima volta, di fermare la costruzione di nuove città e, piuttosto, di “disperdere” la popolazione ampliando gli insediamenti esistenti.

La questione degli insediamenti oggi 

A oggi, la maggior parte dei coloni ebrei della Cisgiordania vive in quei territori per ragioni economiche, poiché gli incentivi e gli investimenti del governo rendono il costo della vita nettamente inferiore rispetto a quello che si registra all’interno di Israele. Attualmente, secondo B’Tselem, il Centro israeliano d’informazione sui diritti umani nei TPO, dal 1967 sono stati realizzati duecentottanta insediamenti nella Cisgiordania, che hanno frammentato la popolazione palestinese in centosessantacinque isole territoriali non contigue.

I maggiori organismi internazionali, inclusi la Corte internazionale di giustizia dell’Aia, l’Unione Europea o Amnesty International hanno classificato gli insediamenti come una violazione del diritto internazionale. In diverse risoluzioni, le Nazioni unite hanno ribadito più volte che le colonie sono una violazione della Convenzione di Ginevra e che «la creazione di insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati dal 1967, compresa Gerusalemme Est, non ha validità legale».

 

 

Fonti e approfondimenti

Amnesty International, Everything you need to know about human rights in Israel and Occupied Palestinian Territories, 2020.

B’Tselem, Land Grab: Israel’s Settlement Policy in the West Bank, 2002.

Eric Schewe, “Settlements and the Israel-Palestine Conflict: Background Reading, Jstor Daily, 19 Maggio 2021.  

Schwake, Gabriel, Settle and Rule: The Evolution of the Israeli National Project“, Taylor & Francis.8(2): 350-371, 2020.

United Nation News, “Israel: ‘Halt and reverse’ new settlement construction – UN chief, 21 Gennaio 2021. 

 

 

Editing a cura di Niki Figus

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