Ricorda 1979: il trattato di pace tra Egitto e Israele

Lo Spiegone

Il 1979 è stato uno spartiacque in Medio Oriente e la normalizzazione dei rapporti tra Egitto e Israele ne è testimonianza. Per la prima volta dalla nascita di Israele, e dopo trent’anni di aperta ostilità, il leader del più grande Paese arabo, Anwar Sadat, è immortalato dalla stampa mondiale mentre stringe la mano al primo ministro israeliano, Menachem Begin, sotto lo sguardo compiaciuto del presidente americano, Jimmy Carter. Un evento senza precedenti che ha ricevuto letture e giudizi contrastanti e che rimane attuale per i cambiamenti che ha impresso agli equilibri mediorientali.

Dalla guerra dello Yom Kippur alla prospettiva di pace

Per capire quali circostanze favorirono l’arrivo al tavolo negoziale, bisogna considerare innanzitutto il contesto domestico, regionale e internazionale che ha fatto da sfondo alle trattative. La guerra dei Sei Giorni (giugno 1967) aveva inflitto ai Paesi arabi e all’Egitto in particolare una pesante sconfitta in termini tanto di vite umane, quanto di apparato militare e sovranità territoriale, con la West Bank, Gaza, il Sinai e le Alture del Golan passate sotto il controllo di Tel Aviv. Il clima in cui Sadat assunse la guida del Paese nel 1970 è quindi di profondo pessimismo, aggravato dall’impennata del debito estero, da un budget per la difesa stellare e dalla crescente inflazione.

Nel 1973, Egitto e Siria attaccarono a sorpresa le posizioni israeliane nel Sinai e sul Golan riuscendo a sfondare la linea di Bar Lev sulla costa orientale del Canale di Suez. Forte del sostegno USA, Israele riuscì a riguadagnare terreno e in ottobre entrambe le potenze accettarono il cessate il fuoco imposto dall’ONU. Il valore della guerra dello Yom Kippur fu quadruplice:

  1. Emerse come l’esercito israeliano non fosse invulnerabile e quanto il fronte arabo costituisse ancora una minaccia tangibile. La guerra stessa era stata pensata come un’operazione limitata volta a sbloccare lo stallo diplomatico a favore degli arabi, più che a distruggere Israele.
  2. In piena Guerra Fredda, Mosca e Washington giunsero vicine a un confronto diretto nel tentativo di non perdere le rispettive zone di influenza, con migliaia di tonnellate di rifornimenti militari consegnati rispettivamente a Egitto e Siria, e Israele.
  3. L’embargo sul petrolio, sostenuto dai Paesi del Golfo, evidenziò la dipendenza dell’Occidente dalle risorse petrolifere del Medio Oriente.
  4. Gli Stati Uniti divennero sponsor del processo di pace che fino a quel momento si era sviluppato soprattutto a livello multilaterale sotto l’egida dell’ONU. Tra 1974 e 1975, Kissinger, in quella che diventò nota come “shuttle diplomacy”, si dedicò alla negoziazione di tre accordi di disimpegno con i quali Egitto e Siria recuperarono una parte dei territori persi nel ’67.

Nonostante questo successo, la situazione economica in Egitto degenerò al punto da innestare nelle rivolte del pane del 1977. Il tentativo di Sadat di allontanarsi dal socialismo nasserista e inaugurare un periodo di liberalizzazione economica era sfociato infatti in una serie di misure di austerità prescritte dal FMI e nel conseguente taglio ai sussidi sugli alimentari. È a questo punto che Sadat decise di recarsi a Gerusalemme e inviare un segnale forte a Israele, ma soprattutto a Washington: l’Egitto era pronto a negoziare con Israele e rompere con l’Unione Sovietica. L’intento iniziale, espresso nel discorso alla Knesset, il parlamento di Israele, non era quello di stipulare una pace separata con Israele. Sadat sottolineò l’imprescindibilità di una soluzione alla questione palestinese per raggiungere una pace regionale in cambio del riconoscimento dell’esistenza di Israele.

L’apertura egiziana si scontrò tuttavia con l’intransigenza della sua controparte israeliana. Nel maggio del ’77, Israele aveva scelto alle urne il Likud di Begin dopo più di vent’anni di governo del Labor Party. Questi ultimi, pur con un’ampia gamma di sfumature, si erano contraddistinti per essere favorevoli a un compromesso sulla base della formula “territorio in cambio di pace” contenuta nella Risoluzione 242 dell’ONU. Begin e il Likud, invece, fecero dell’espansione israeliana nella West Bank e Gaza un elemento irrinunciabile del loro mandato, sia per ragioni di natura strategica che storico-religiosa.

I 13 giorni di Camp David: verso il trattato di pace

Dopo mesi di scambi inconcludenti tra Egitto e Israele, il neoeletto presidente USA, Jimmy Carter, intervenne invitando i due leader a un summit a Camp David in Maryland nel settembre del 1978. Carter era arrivato alla Casa Bianca con relativamente poca esperienza in fatto di affari esteri, ma fece del conflitto arabo-israeliano una priorità. L’ex-governatore della Georgia credeva infatti che la sicurezza di Israele dipendesse più dalla pace con i suoi vicini che dall’espansione territoriale, e che, a sua volta, il presupposto per una pace globale risiedesse nell’autodeterminazione del popolo palestinese. Carter, in questo senso, fu il primo presidente USA a parlare di una “madrepatria” palestinese, riprendendo la dicitura della dichiarazione di Balfour che aveva di fatto sancito la nascita di Israele a discapito dei palestinesi.

Furono tredici giorni di trattative febbrili. L’idea dietro Camp David era che un confronto faccia a faccia, a porte chiuse, potesse aiutare le trattative isolandole dall’influenza dell’opinione pubblica e dei media. A ciò bisogna aggiungere il personale ottimismo dal retrogusto cristiano di Carter verso la possibilità che due esseri umani, messi nelle giuste condizioni, potessero trovare un punto d’incontro. Ottimismo che si rivelò presto naïve di fronte all’animosità tra Sadat e Begin che spinse il presidente USA a negoziare separatamente con le due delegazioni. Nonostante in molteplici occasioni il summit minacciò di infrangersi, la promessa dell’aiuto economico e dell’alleanza statunitensi e il personale coinvolgimento di Carter riuscirono a condurre alla firma di due accordi: il “Quadro per la conclusione di un trattato di pace tra Egitto e Israele” e il “ Quadro per la pace in Medio Oriente”.

Il primo si concretizzò il 26 marzo 1979 nel trattato di pace tra i due Paesi. Oltre a sancire la ritirata completa di Israele dal Sinai, alle navi israeliane veniva accordato il diritto di percorrere il Canale di Suez, le acque del Golfo di Aqaba e dello stretto di Tiran vennero dichiarate acque internazionali e un quadro di accordo condiviso fu stabilito affinché la presenza di forze militari egiziane nel Sinai non turbasse la sicurezza di Israele.

La normalizzazione delle relazioni bilaterali raggiunse l’apice nel 1980 con l’apertura delle rispettive ambasciate. Il secondo invece, un programma di transizione di cinque anni per determinare lo status finale di West Bank e Gaza, rimase lettera morta. Si trattava d’altronde di un documento vago e generico, dal contenuto ambiguo, in cui Israele accettava di negoziare il futuro dei territori occupati senza però prendere nessun impegno vincolante.

1979: successo o fallimento?

Il bilancio dell’intero processo di Camp David varia a seconda della prospettiva da cui lo si osserva. Sicuramente l’esito finale, una pace separata tra Egitto e Israele, fu diverso da quanto auspicato da Carter e Sadat all’inizio. Tuttavia, c’è chi suggerisce che, visto il contesto, si trattò del miglior accordo possibile, e comunque di una svolta decisiva, al punto che Begin e Sadat furono premiati con il Nobel per la pace. In ambito economico, Israele ed Egitto si confermarono come i principali recipienti dell’aiuto statunitense, i flussi turistici aumentarono e gli scambi commerciali, dopo un inizio deludente, sono stati revitalizzati tra 2004 e 2005 con la creazione di “Qualified Industrial Zones” in Egitto. Qui, beni egiziani contenenti una percentuale stabilita di prodotti israeliani possono entrare nel mercato americano senza restrizioni.

D’altro canto, soprattutto nel mondo arabo, la pace venne interpretata come un tradimento dell’Egitto, che venne espulso dalla Lega Araba fino al 1989. Negli anni successivi Israele fu in grado di consolidare la propria presenza nei territori occupati con un aumento esponenziale degli insediamenti: dai 24 con 3.200 coloni del primo anno di carica di Begin, ai 106 con 28.400 abitanti di sei anni dopo. L’eliminazione del deterrente militare egiziano verosimilmente spianò anche la strada all’offensiva di Israele contro l’OLP in Libano nel 1982 e aprì un vuoto di potere nello scacchiere regionale che Saddam Hussein cercò invano di colmare negli anni ’90, e che dopo il 2003, diventerà oggetto della competizione tra Arabia Saudita e Iran.

A livello domestico, nonostante la distensione tra i governi e i numerosi giudizi positivi, la pace rimase “fredda” non traducendosi in un radicale riavvicinamento tra le due società. Basti pensare che, nel 2004, la Corte Suprema Amministrativa egiziana ha accolto una sentenza che intimava al ministro dell’interno di revocare la cittadinanza agli egiziani sposati con donne israeliane. A parte il risentimento per l’isolamento, la maggior parte della popolazione egiziana non visse nessuno dei benefici economici promessi, che furono utilizzati in maniera inefficiente e si concentrarono nelle mani di una ristretta élite vicina al presidente. L’ostentazione di quest’ultimo e di sua moglie, visibilmente immersi nel lusso, non fece altro che aumentare l’alienazione popolare, e nel 1981 Sadat venne assassinato da un fondamentalista islamico. Ancora oggi, nonostante la profusione di fondi inviati da Washington da cui l’Egitto dipende per molti versi, l’apporto di questi alla crescita economica del Paese è discutibile.

L’operato di Carter fu adombrato da eventi paralleli quali, tra gli altri, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e l’umiliazione sofferta in Iran, ma l’eredità di Camp David sopravvive ancora oggi nello stato di pace tra Egitto e Israele. Nonostante i chiari limiti degli accordi e dell’unilateralismo statunitense nel gettare le basi per una soluzione al conflitto arabo-israeliano, quella del 1978 è una lezione di diplomazia che stride tanto con i colpi di testa e le invettive che Trump ha collezionato dal 2016 quanto con l’apparente incapacità europea di prendere posizione. Ora più che mai, è il momento di ricordare e fare tesoro degli errori del passato per costruire un’alternativa basata sul dialogo e sul compromesso che freni la minaccia di una pericolosa escalation.

Fonti e Approfondimenti:

Berenji, Shahin, “Jimmy Carter’s Role in Securing Middle East Peace“, E-International Relations, 21/04/2016

Daigle, Craig, “The loser of the Camp David Accords“, The Washington Post,  19/09/2018

Egypt-Israel Relations: Address by Egyptian President Anwar Sadat to the Knesset“, Jewish Virtual Library, 20/11/1977

Huber, Daniela, “Forty Years of Camp David, Forty Years Without Peace”, IAI, 09/2018

Marsot, Afaf, 2009. A History of Egypt From the Arab Conquest to the Present. Cambridge University Press, Cambridge.

Pinfari, Marco, “Towards a Post-Camp David Paradigm? US Foreign Policy in a Reshuffled Middle East” in Clementi, Marco e al. 2018. US Foreign Policy in a Challenging World. Building Order on Shifting Foundations, Springer

Quandt, William, 2016. Camp David. Peacemaking and Politics, Brookings Institution Press,Washington D.C.

Salamah, Mohammad, 2012. “The Camp David Accords:Lessons and Facts”, The Arab Journal For Arts, 10(1)

Telhami, Shibley, 1992-93. “Evaluating Bargaining Performance: The Case of Camp David”, Political Science Quarterly, 107(4).

Tessler, Mark, 2009. History of the Israeli-Palestinian Conflict. Indiana University Press, Bloomington.

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