L’Iran è “too big to fall”, e Trump lo sa

Iran
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Gli eventi riguardanti le due petroliere nello stretto di Hormuz delle ultime settimane hanno probabilmente ricordato a tutti l’invasione dell’Iraq del 2003. I siluri che avrebbero colpito la petroliera, che parrebbero non esistere, e le mine, staccate nei momenti successivi da unità delle Guardie Rivoluzionarie, sembrano ricordare le armi di distruzione di massa sventolate da Colin Powell all’ONU. 

Nei momenti successivi, tutti hanno temuto il peggio. Un presidente così istintivo e imprevedibile cosa avrebbe potuto fare in un momento del genere? Fonti di stampa parlavano di una bozza di discorso di guerra pronta sul tavolo dello Studio Ovale, mentre altri già vedevano nelle esercitazioni mattutine dei Marines un preludio a possibili azioni belliche. Gli screzi sono andati avanti e vanno avanti ancora, ma i più orribili scenari di guerra si avvereranno?

Questo non si sa per certo. Quello che sappiamo è che l’Iran può essere definito “too big to fall”, rimodulando un termine molto usato nella crisi del 2008 nell’attuale situazione. Il gioco della tensione è una cosa, e tutti sono disposti a giocarci. Abbattere un drone, accusare l’altra parte di aver attaccato una petroliera e persino sparare qualche colpo di mortaio verso la nave dell’avversario fanno parte di uno schema, ma scatenare un’escalation con l’Iran vorrebbe dire creare uno scenario di gran lunga peggiore del Vietnam.

Se il containment non ha funzionato, si provi l’aggressività

I primi due anni della presidenza Trump sono stati caratterizzati da un atteggiamento aggressivo, soprattutto dal punto di vista economico. L’idea sostenuta fortemente da Kushner e da Pompeo era chiara: chiudiamo l’Iran dentro il proprio disastro e vediamo cosa succede.

Con questa filosofia, gli USA sono usciti dal JCPOA, è stato ricostruito il muro di dazi intorno al Paese e sono stati minacciati tutti gli alleati che avevano ristretto rapporti con Teheran. A tre anni dall’inizio della presidenza la situazione è difficile ma, allo stesso tempo, l’Iran non è imploso.

L’amministrazione Trump aveva sperato in un possibile regime change a seguito delle proteste di un anno. La realtà però era ben diversa: le rivolte erano state di natura economica e, alla fine, avevano preso di mira i politici più moderati. Le sanzioni hanno di fatto rafforzato i “falchi” del regime iraniano, obbligando quella parte di economia che era emersa dal mercato nero a tornare nel sommerso rimettendosi nella mani dei Pasdaran. L’economia va male ma la gente vi è abituata, dato che sono quasi vent’anni che vive in un embargo e il mercato nero è diventato ormai la normalità.

La frustrazione dell’amministrazione davanti a un Iran che è sempre ferito ma mai morto ha portato sulla cresta dell’onda le idee di un consigliere che da molto tempo si aggira nelle stanze della Casa Bianca: John Bolton.

Il falco tra i falchi

Il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, John Bolton, sa come fare una guerra, e, infatti, molti sostengono che sia stato lui, insieme a Dick Cheney, il grande ideatore dell’invasione irachena. La grande bugia delle armi di distruzione di massa pare che sia partita dal suo ufficio, quando egli era il sottosegretario di nell’amministrazione Bush. È passato del tempo, ma Bolton continua ad avere una predisposizione naturale allo scontro.

Come si potrà vedere nel video qui sotto, il Consigliere per la sicurezza nazionale, nei suoi studi presso il think tank conservatore American Enterprise Institute, ha lanciato proposte che possono aiutarci a capire la sua posizione in Medio Oriente. Questi, infatti, chiede una soluzione “a tre Stati” nel conflitto palestinese, con Gaza e la Cisgiordania date de impero all’Egitto e alla Giordania. Se questo non bastasse, è interessante la sua teoria sul regime change: egli, infatti, vede dei successi clamorosi sia in Iraq sia in Siria, sostenendo che oggi ambedue i Paesi stanno meglio di prima. 

La guerra non è solo una delle possibilità per il consigliere alla sicurezza nazionale, ma è di gran lunga la sua preferita. Se questo può tranquillizzare i lettori, risulta evidente come al Congresso e al Pentagono non siano della stessa idea.

Too big to fall

L’accademia di West Point, i generali di Stato maggiore e varie altre voci all’interno del mondo politico americano hanno chiaro in mente quanto l’invasione dell’Iran sarebbe un gesto sconsiderato. I teorici della ciclicità della storia e della caduta degli imperi politici da qualche anno vedono nella possibile invasione iraniana l’ultimo gesto della superpotenza americana – come l’invasione russa di Napoleone o la guerra ai Parti per gli antichi Romani.

Tolte di mezzo le teorie, ci sono motivi reali per dire che il Paese è veramente una “fortezza”. Le forze armate iraniane non sono le migliori al mondo né sono così ben equipaggiate, anche se va detto che le Guardie Rivoluzionarie sono ben rifornite dal mercato nero degli armamenti. La cosa che però va ricordata è che negli ultimi trent’anni le forze armate hanno passato dieci anni in guerra con l’Iraq, costruendosi un bagaglio di conoscenze delle proprie capacità, delle tecniche e del territorio. 

Il livello geografico morfologico è forse quello che più di tutti rende l’Iran uno degli scenari peggiori al mondo da dominare.
Partiamo dal possibile luogo di arrivo. Ritornando al 2003, i soldati statunitensi sono partiti sia dalle basi americane del Mediterraneo sia dalle portaerei arrivate nel Golfo. Baghdad non era in grado di mettere a rischio queste unità e, spazzata via l’iniziale resistenza aerea, nessuno ha potuto minacciare la marina. Lo scenario iraniano sarebbe totalmente diverso: Teheran ha una forza navale consistente, un arsenale di missili, ed è in grado di mettere in piedi, come abbiamo visto dalle esercitazioni, una guerriglia marittima che potrebbe essere un’arma formidabile contro navi delle dimensioni di quelle americane negli spazi angusti dello stretto di Hormuz.

Per quanto sia dura la conquista del Golfo Persico, questa potrebbe alla fine essere raggiunta con uno sforzo bellico massiccio. Sbarcati sulle coste bisognerebbe poi arrivare a Teheran, che è molto distante dalle sponde del Golfo e che per di più è circondata da una parte da montagne, cosa che rende molto difficile il dispiegamento di truppe aviotrasportate. Va infatti ricordato che, nel 1980, un’operazione militare in Iran era già stata tentata per liberare gli ostaggi dell’ambasciata: otto elicotteri americani avevano provato ad assaltare una zona della capitale ma solo uno riuscì ad avvicinarsi alla città in quanto gli altri vennero tutti fortemente danneggiati nel viaggio. 

A questa anteprima di scenario bellico andrebbero aggiunti tre dati di un’importanza cruciale per la fattibilità dello scontro. Il primo è sicuramente legato alla resistenza: l’Iraq del 2003 era un Paese diviso, con due terzi della popolazione pronti ad abbracciare anche il loro peggiore nemico per liberarsi di Saddam; ma l’Iran non è così. Il Paese ha una storia millenaria che risale al tempo di Ciro il Grande e di cui la popolazione va molto fiera; per cui, non permetterà a nessun esercito straniero di violare la propria identità. Gli iraniani hanno già mostrato durante la guerra con l’Iraq quali violenze e sofferenze sono pronti ad accettare per evitare un’invasione.

Il secondo fattore è legato al commercio del petrolio. Dallo stretto di Hormuz passano circa due terzi del commercio di greggio mondiale; un conflitto bloccherebbe questo passaggio lasciando il pianeta a secco. Proprio il petrolio influisce sull’ultimo fattore: gli alleati o proxy states che i due attori potrebbero avere. Sappiamo già che gli Houthi, Hezbollah, la Siria e (forse) l’Iraq si schiererebbero immediatamente per Teheran sullo scacchiere. Ma gli alleati degli Stati Uniti? Chi verrà in aiuto di Trump?

Gli europei si guarderebbero bene dal fare un passo tale, mentre i Paesi del Golfo potrebbero non accettare di fare una guerra – di cui non possono vedere la fine – distruggendo in questo modo la propria principale fonte di guadagno.

Conclusioni

Di certezze con Trump non ce ne sono, e, di conseguenza, nessuno può essere sicuro del fatto che Washington non attaccherà mai l’Iran. Quello di cui tutti gli esperti sono certi è che questa guerra sarebbe distruttiva, con un costo umano e finanziario enorme, contato in trilioni di dollari, e con la possibilità di creare un tsunami di profughi e rifugiati nei Paesi vicini.

La domanda che ci resta, e che alcuni uomini nelle stanze del potere americano si fanno, è: Trump sarà così pazzo da tentare un’invasione all’Iran per aumentare le sue chance di essere rieletto?

Fonti e approfondimenti

Kathy Gilsinan, “Iran Has Options and It’s Starting to Use Them“, Defense One, 17 giugno 2019

Ilan Goldenberg, “What a War With Iran Would Look Like“, Foreign Affairs, 4 giugno 2019

Small Wars Journal at West Point, Comment on West Point Defense & Strategic Studies “War Council” Series, 4 maggio 2019

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