L’Egitto e la questione del Sinai: è tempo di un nuovo approccio?

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Il 2 febbraio un primo attacco terroristico ha visto il tentativo di danneggiamento di una pipeline per il trasporto del gas naturale a Bir al-Abd, nel Nord del Sinai. Il 9 febbraio un secondo attacco terroristico ha causato la morte di sette soldati egiziani a Sheik Zuweid, sempre nel Nord del Sinai.  Questi sono gli ultimi attentati, di una lunga serie, compiuti dal Wilayat Sinai (WS), la branca dello Stato Islamico (IS) che opera nel Sinai Settentrionale e che ha impegnato lo Stato egiziano in una guerra che è rimasta lontana dai riflettori.

Ci si domanda come “la questione del Sinai” non sia ancora stata risolta. L’area del Sinai del Nord, infatti, non è una zona geograficamente favorevole alle attività di guerriglia. La popolazione è relativamente piccola e la lealtà delle diverse tribù alle parti in conflitto è divisa. Secondo alcuni analisti, la superiorità numerica dell’esercito egiziano rispetto a quella dei gruppi terroristici è di 500:1. Certamente l’esperienza tattica e operativa maturata negli anni sul campo dai terroristi non è un fattore da trascurare, ma bisogna analizzare anche le cause strutturali alla base dei recenti sviluppi.

Governo centrale e tribù beduine: un rapporto difficile

La penisola del Sinai si trova nel mezzo del Canale di Suez e della Penisola Arabica. Essa collega Egitto, Palestina, Israele, Giordania e Arabia Saudita. La penisola è stata il campo di battaglia del conflitto arabo-palestinese dal 1948 ed è stata conquistata da Israele durante la Guerra dei sei giorni del 1967. Il trattato di pace israelo-egiziano del 1979, risultato degli Accordi di Camp David dell’anno precedente, ha infine sancito il ritorno della penisola all’Egitto.

La popolazione del Sinai conta circa 550.000 abitanti, di cui 400.000 circa vivono nel Sud della regione e 150.00 circa nel Nord.  Si stima che le tribù beduine del Sinai, legate da un complesso sistema di relazioni, siano tra le quindici e le venti. L’Egitto ha trattato sin dagli anni Ottanta la penisola del Sinai come una minaccia, piuttosto che un’opportunità. Per ragioni culturali, la popolazione beduina è stata costantemente vittima di pregiudizio. Da sempre più vicini alle tribù beduine della Palestina, oltre ad avere naturalmente una pelle più scura rispetto agli egiziani del continente, i beduini hanno condotto tradizionalmente una vita nomade, mentre gli abitanti della Valle del Nilo si sono dedicati perlopiù all’agricoltura. Oggi una minoranza beduina continua a vivere di pastorizia, mentre la maggior parte, negli anni, ha iniziato a dedicarsi all’agricoltura, alla pesca, al commercio e ad attività legate al turismo.

Tutti i governi centrali che si sono susseguiti negli ultimi decenni hanno portato avanti discriminazioni politiche, sociali ed economiche verso gli abitanti del Sinai. La popolazione locale è stata marginalizzata attraverso norme che hanno limitato gli investimenti per lo sviluppo e che hanno impedito il possesso della terra, l’arruolamento nelle forze di sicurezza, il voto (fino al 2007), l’esercizio di cariche politiche elettive e la formazione di nuovi partiti politici. Il governo ha fallito anche nel garantire i bisogni di base della popolazione, come la fornitura di acqua potabile, livelli adeguati di istruzione, sanità e infrastrutture.

Nel 2013, il Sinai si è qualificato come la provincia più povera dell’Egitto e quella con il tasso di disoccupazione più alto. Il governo di Hosni Mubarak, con le sue politiche di sviluppo, inoltre, ha aggravato la disuguaglianza tra il Nord e il Sud della regione. Gli ingenti investimenti per il turismo nel Sud del Sinai sono riusciti a far fiorire il settore; tuttavia, le tribù locali non hanno beneficiato del nuovo reddito e dei nuovi posti di lavoro. La vendita di terra ai gruppi di investimento, inoltre, ha escluso la comunità locale; hotel e resort, tant’è, hanno rimpiazzato diversi villaggi. Nel Nord del Sinai il crescente senso di esclusione, e un’economia deteriorata, hanno fatto fiorire attività illecite, come il traffico di droga, armi ed esseri umani, per un valore annuo, secondo uno studio condotto nel 2011 dal The Washington Institute, di circa 300 milioni di dollari.

Il crescente risentimento e la radicalizzazione della popolazione locale ha creato terreno fertile per la nascita di organizzazioni fondamentaliste. I primi attacchi terroristici nell’area si sono verificati nel biennio 2004-2006 e hanno avuto come obiettivo le principali città turistiche del Sinai del Sud, tra cui la nota Sharm al-Shaik. Le indagini delle autorità hanno individuato quale gruppo responsabile il Tawhid wa al-Jihad (TwL). Nato nel 1997, il TwL ha operato perlopiù nel Sinai, con l’obiettivo di colpire i simboli del governo centrale di Mubarak. Si è trattato di un gruppo egiziano-palestinese di ispirazione qaedista, composto principalmente da elementi della popolazione beduina e uomini di origini palestinesi, provenienti dal Sinai del Nord. Il governo di Mubarak ha risposto, da subito, con una forte repressione, caratterizzata da arresti di massa e l’uso della tortura.

 

Origini e sviluppo di Wilayat Sinai 

Una seconda ondata di attacchi si è verificata dopo la deposizione di Mubarak, nel 2011. Un nuovo gruppo è emerso nel Sinai: Ansar Bayt al-Maqdis (ABM). Esso è nato proprio nel 2011, sfruttando il vuoto di potere venutosi a creare nella regione durante la rivoluzione egiziana. Presto l’ABM si è affermato come il principale gruppo terroristico, trovando legittimazione soprattutto in seguito al colpo di Stato del 2013, che ha portato alla destituzione del presidente Mohamed Morsi, esponente della Fratellanza Musulmana.

Si è trattato di un gruppo eterogeneo, che è stato abile nel reclutare membri tra gruppi operativi sia in Egitto (come la Jihad Islamica Musulmana, che trova origini nella Fratellanza Musulmana), sia nella Striscia di Gaza (come al-Gama’a al Islamiyya), che nel Sinai (come il TwK). Inoltre, esso ha accolto tra le sue fila anche foreign fighters provenienti dalla Libia, dall’Africa e dalla Penisola Arabica, ma anche militanti con esperienze in Afghanistan, Iraq, Siria e Balcani. Tuttavia, il cuore dell’organizzazione ha continuato ad essere dominato da elementi provenienti dal Sinai del Nord. Gli attacchi hanno avuto luogo nelle città del Sinai del Nord, in prossimità del confine con Israele, come Rafah, Sheik Zuweid ed al-Arish, dove sono stati colpiti l’Arab Gas Pipeline e vari checkpoint militari egiziani. Le autorità del Cairo, per contrastare i terroristi, hanno risposto lanciando due operazioni: la “Eagle I”, condotta nel 2011 dal Consiglio Supremo delle Forze Armate, e la “Eagle II”, condotta nel 2013 dal governo Morsi.

Nel 2014, l’ABM ha deciso di stringere alleanza con lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, diventando la ramificazione dell’IS in Egitto e prendendo il nome di Wilayat Sinai (WS). Da una dimensione principalmente locale, legata al Sinai, il WS ha fatto sua una visione globale e transnazionale della Jihad. Gli attacchi sono aumentati notevolmente, in termini di frequenza, intensità, complessità e impatto. Varie operazioni terroristiche hanno colpito la Multinational Force and Observers (MFO), una forza multinazionale di peacekeeping, di stanza nel Sinai, che monitora il rispetto degli accordi del trattato di pace israelo-egiziano. Altri attacchi hanno comportato l’uccisione di civili stranieri, anche attraverso decapitazioni e l’abbattimento di aerei di linea, come avvenuto nel 2015.

Questi esempi denotano un cambio netto sia a livello ideologico che strategico, nonché  una maggiore eterogeneità nelle modalità degli attacchi e nella scelta dei target da parte dei terroristi. Alcuni studi ritengono che il WS sia riuscito a contare fino a 1500 membri nel 2016. Il governo del nuovo presidente Abdel Fattah al-Sisi ha risposto con due operazioni antiterrorismo: la “Diritto del martire” nel 2015 e la “Sinai” nel 2018. L’Operazione Sinai, in particolare, è stata la prima dove sono stati impiegati contemporaneamente l’esercito, la marina e le forze aeree. Questa risposta, nel breve periodo, ha senza dubbio portato a dei risultati. Il WS, infatti, è stato indebolito. Tuttavia, la violenta repressione, basata su arresti di massa, detenzioni arbitrarie e torture, su restrizioni alle libertà di movimento, alla distribuzione di generi alimentari e alla fornitura dell’energia, ma anche su demolizioni illegali di abitazioni civili, ha aggravato le già precarie condizioni di vita della popolazione locale. Il fortissimo impatto sociale di questa operazione ha aumentato il risentimento della popolazione locale verso le autorità governative.

 

La repressione continua… 

Numerosi attacchi contro le forze di sicurezza egiziane, perlopiù concentrati nel Sinai del Nord, sono stati rivendicati dal WS anche nel 2019. Proprio il 10 febbraio scorso il Parlamento egiziano ha deciso di rispondere con un inasprimento della legislazione anti-terrorismo del 2015. La legge già prevedeva misure per la protezione delle forze di sicurezza egiziane, il carcere duro per reati relativi al terrorismo, pesanti pene pecuniarie per chi pubblica fake news e un circuito giudiziario eccezionale per i casi di terrorismo; i nuovi emendamenti allargano la definizione di “finanziamento di atti terroristici” e introducono la pena capitale per questo tipo di reato.

La guerra in corso nel Sinai è motivo di forte preoccupazione per il governo di al-Sisi. A rischiare non sono solo la stessa tenuta del governo e la sicurezza regionale e internazionale, ma anche l’economia egiziana. Nel 2019, l’ultima tranche del prestito triennale da 12 miliardi di dollari stipulato dal Fondo Monetario Internazionale è arrivata nelle casse del Cairo. Investimenti importanti sono stati fatti anche nel settore dell’energia. L’economia si trova in una fase espansiva, tuttavia, il terrorismo mina la stabilità del Paese e gli investimenti sia interni che esterni.

Dal momento che nel medio e lungo periodo la strategia di lotta antiterrorismo adoperata sino ad ora dal governo egiziano potrebbe risultare inefficace, o addirittura controproducente, le autorità del Cairo dovrebbero valutare l’opzione di vagliare un nuovo approccio per la questione del Sinai. Innanzitutto, si dovrebbe considerare il rischio di reclutamento delle comunità tribali del Sinai, che finora non si sono schierate in favore di nessuna delle due parti in conflitto. In secondo luogo, andrebbero individuate nuove politiche di sviluppo economico e sociale che implichino l’inclusione e la partecipazione delle comunità locali nei processi di decision making. Infine, il governo dovrebbe pensare a politiche di redistribuzione della ricchezza, senza le quali le nuove entrate derivanti dalla crescita economica non possono tradursi in un beneficio esteso a tutta la popolazione egiziana, anche quella del Sinai.

 

 

Fonti e approfondimenti

Dentice. G, “Insurgency or Terrorism? A new Front in Sinai”, Jihadist Hotbeds.Understanding Local Radicalization Processes, ISPI report, 2016

The War Report – Non International Armed Conflict to continue in Sinai?, Geneva Academy, 2019

Idris, I. “Sinai Conflict Analysis, K4D Helpdesk Report“, Institute of Development Studies, 2 marzo 2017

Ashour, O. “ISIS and Wilayat Sinai: Complex Networks of Insurgency under Authoritarian Rule”, DGAB, German Council on Foreign Relations, 2016.

Tuitel, R. “The Future of the Sinai Peninsula“, Connections, Partnership for Peace Consortium of Defense  Academies  and Security Studies Institutes, 2014

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