Al festival di Internazionale, tenutosi a Ferrara dal 30 settembre al 2 ottobre, abbiamo incontrato Mohammed El Kurd, scrittore, poeta e attivista palestinese, ospite del festival.
In uno dei dibattiti a cui ha partecipato, Mohammed El Kurd ha presentato il suo libro, una raccolta di poesie dal titolo “RIFQA”, edito in italiano dalla casa editrice Fandango.
Il primo novembre gli israeliani si sono recati alle urne per votare nuovamente. Una delle promesse del precedente governo Bennett-Lapid era di tagliare con le politiche aggressive di Netanyahu del passato e provare a creare un clima più disteso con le fazioni palestinesi, anche a Gaza, e gli arabi in generale. Come valuta l’esperienza di un anno del governo della coalizione anti-Likud? Si può dire ci siano stati degli effettivi tentativi di distensione?
L’esperienza di un anno del governo della coalizione anti-Likud è stata molto negativa, mi sento di dire solo questo.
La repressione israeliana assume molteplici forme: oltre agli attacchi militari, negli scorsi mesi il governo di Tel-Aviv ha chiuso in maniera coatta diverse ONG palestinesi con la scusa di presunti legami con organizzazioni terroristiche. Qual è l’attuale situazione della società civile palestinese? Quali sono le effettive possibilità di operare nei Territori occupati? E per quanto riguarda le organizzazioni estere/internazionali?
La società civile palestinese è attualmente impegnata in una lotta contro la frammentazione. Il lavoro di alcune organizzazioni per i diritti umani è fortemente a rischio, non sono in grado di lavorare in condizioni normali, come erano abituate. Questa è una situazione molto pericolosa, non solo perché significa che coloro che hanno speso anni e anni nella difesa e quindi nel lavoro di tutela dei diritti umani possono andare in prigione, ma significa anche che l’intera rete di persone che collaborano con queste organizzazioni potrebbero non avere più un punto di riferimento. Questo tipo di leggi che Israele sta portando avanti per la repressione dei diritti umani in Palestina, dimostra che il regime (Mohammed lo chiama “regime”, ndr) israeliano teme gli attivisti palestinesi per i diritti umani, è spaventato dalla capacità dei palestinesi di dire la verità in contesti internazionali e quindi di far conoscere al mondo la verità sull’occupazione dei coloni israeliani delle terre palestinesi.
Negli ultimi dodici mesi, le autorità israeliane sono state accusate di aver usato lo Spyware Pegasus per spiare intellettuali, attivisti e politici palestinesi, mentre di recente un articolo ha portato all’attenzione del pubblico italiano ed europeo il coinvolgimento di Google nella creazione di cloud e sistemi di sorveglianza che verranno usati indiscriminatamente sui civili palestinesi. Può dirci qualcosa in più sul connubio tecnologia-repressione adottata da Israele e fino a dove si è spinta?
Certo, posso fornire alcuni esempi che dimostrano i molti strumenti di guerra cyber che Israele sta portando avanti nei confronti dei palestinesi. Israele usa questa tecnologia per spiare la vita dei palestinesi, per ricattarli, per depredare la loro privacy. Altri strumenti utilizzati sono i droni controllati da remoto oppure armi controllate da remoto per uccidere i palestinesi sulle strade. Il regime israeliano sta continuando a utilizzare questi strumenti per continuare a sopprimere i palestinesi, per continuare a far loro del male. Un’altra cosa, che è importante da notare in questa situazione, è che l’utilizzo di questa tecnologia di spionaggio non ha impatto solo in Palestina, viene testata su tutti noi, perché il fine del regime israeliano è quello di esportarla verso altri regimi oppressivi nel mondo, come l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, anche alcuni Paesi europei stanno utilizzando questi strumenti per monitorare le battaglie delle minoranze che stanno lottando per difendere i propri diritti.
A più di un anno di distanza dagli sfratti di Sheikh Jarrah, a cui lei ha assistito in prima persona, qual è la situazione a Gerusalemme est? Lei ha più volte accusato Israele di mettere in pratica politiche riconducibili alla pulizia etnica. Potrebbe aggiornare i lettori italiani sull’ultimo anno di apartheid nella Città Santa?
È davvero molto importante ricordare a tutti che ogni palestinese è ancora in una situazione di rischio giornaliera di sfratto e di espropriazione dei propri beni. Alcune delle case nella nostra comunità di Sheikh Jarrah sono state salvate dagli espropri, questo perché i nostri vicini continuano a lottare per mantenere la proprietà della loro casa e della loro terra. C’è ancora una situazione di continuo pericolo in Palestina riguardo a questo. Non dovremmo aspettare che le bombe lanciate dal regime israeliano piovano sulle nostre teste per parlare di pulizia etnica a Gerusalemme o in tutta la Palestina perché questa è una situazione urgente e reale. Si verifica ovunque in Palestina e non si tratta solo del lancio di bombe, delle esplosioni, anche le demolizioni delle case dei palestinesi, le espropriazioni dei terreni costituiscono metodi di pulizia etnica.
Sono passati ormai due anni dalla stesura formale degli accordi poi diventati noti come Accordi di Abramo. Come sono stati percepiti tali accordi dai palestinesi? E come è cambiata, dal punto di vista pratico, la percezione dei palestinesi degli Stati arabi una volta alleati e ormai disinteressati alla causa?
Credo che i palestinesi siano storicamente consapevoli che il governo arabo ha legami con il governo israeliano e ha lavorato con quest’ultimo per decenni sotto il tavolo, prima di Camp David, prima degli Accordi di Abramo. Il marketing e le campagne di promozione di questi nuovi accordi, quelli di Abramo appunto, possono sembrare nuovi, soprattutto perché fanno leva su una riconciliazione tra poteri religiosi anziché politici. Nella sostanza però gli Accordi di Abramo non sono nulla di nuovo, se non nella veste espositiva, ma questi sforzi di collaborazione andranno avanti sempre e sono necessari affinché questo tipo di governi si sostenga. Penso all’Egitto, agli Emirati Arabi Uniti e a come questo tipo di alleanze siano strutturate non solo per fare del male ai palestinesi, ma anche per colpire gli stessi cittadini di questi Stati. Anche se ci sono Paesi i cui presidenti vanno in giro per il mondo ad affermare quanto amano i palestinesi, quanto si impegnano a combattere per i loro diritti, ma poi continuano a mantenere affari e legami diplomatici con Israele dobbiamo tutti diffidare da questi Pesi. Per essere onesto, noi palestinesi non abbiamo mai avuto alcun tipo di speranza di un aiuto dai governi di questi Paesi.
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