Il Sudan tra militari, civili e colpi di stato: intervista al professore Giorgio Musso

Intervista
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Giorgio Musso è professore di African History and Politics all’Università di Genova e autore del libro “La caserma e la moschea. Militari e islamisti al potere in Sudan”.

Per comprendere i fatti del 25 ottobre – data del colpo di stato in Sudan – e dei giorni successivi, serve comprendere i rapporti tra il potere politico e l’esercito e, di conseguenza, tra l’esercito e la società civile nel Paese. Come si sono sviluppate, nel corso del tempo, le loro relazioni?

In Sudan non c’è il governo da una parte e i militari dall’altra. I militari dal 1956 sono stati praticamente sempre il governo. Per quanto riguarda il rapporto tra politica civile e militare, il Sudan è un caso particolare sia nel panorama africano sia nel panorama arabo. Tra i due, il Sudan ha fatto da ponte fino alla secessione del sud quando il Sudan nero è diventato Sud Sudan, ed è fallita la coabitazione tra la componente arabo musulmana della popolazione e quella africana nera. Questa convivenza a tratti difficile è una caratteristica di tutta l’area del Sahel. 

Il Sudan diventa indipendente nel 1956 – primo Paese africano escludendo l’area del nord Africa – e si ritrova dopo due anni con un governo militare. Questa non un’eccezione né nel panorama africano, né in quello arabo. La particolarità del Sudan è che fu il primo Paese a vedere il rovesciamento di un regime militare da una rivoluzione popolare, nel 1964, che è ricordata come rivoluzione di ottobre ed ebbe luogo negli stessi giorni in cui si è svolto il colpo di stato di quest’anno. È uno sfregio alla memoria civile del Sudan, perché l’attuale capo di stato, il generale al-Burhan, non penso abbia scelto casualmente la data in cui i sudanesi ricordavano il rovesciamento del regime di Ibrahim Abboud nel 1964. 

Dall’indipendenza il Sudan ha vissuto l’alternanza tra periodi più o meno lunghi di regime militare e parentesi democratiche: dal 1956 al 1958, un primo governo democratico, dal 1958 al 1964 un primo governo militare; una seconda parentesi democratica dal 1964 al 1969, un nuovo colpo di stato, questa volta con l’instaurazione di un regime nazionalista e socialista arabo che guardava all’esperienza di Nasser, alla cui guida si pose Jaafar Nimeiry fino al 1985. Anche il suo regime venne rovesciato con una rivoluzione popolare, l’intifada dell’aprile del 1985, e, dopo un anno di regime militare transitorio con l’idea di portare il Paese alle elezioni e un terzo interludio democratico (1986-89), prese il potere al-Bashir che istituì il regime più longevo della storia del Sudan indipendente (1989-2019). 

Questa sequenza è un caso unico nel panorama del mondo africano e arabo, e ci dice alcune cose fondamentali: l’estrema particolarità di una società civile che ha rovesciato più regimi militari, due volte, e se ci mettiamo anche il 2019 tre volte – in altri Paesi del mondo arabo per vedere un regime militare rovesciato da una sollevazione civile dobbiamo aspettare le primavere arabe del 2011. Questo dimostra la grande vitalità della società civile sudanese, soprattutto quella urbana. Ci sono alcune realtà associative, come la Sudan professional association, che sono molto attive. Inoltre, in Sudan è nato uno dei movimenti comunisti più attivi di tutto il mondo arabo, con grande impatto sul dibattito pubblico fino alla repressione del 1971. 

L’altro fattore evidenziato dalla storia sudanese è la fragilità dei regimi democratici – incentrati sui grandi partiti tradizionali, fondati su realtà religiose – le cui inefficienze sono state la causa dei colpi di stato; non sono mai riusciti a garantire la governabilità del Paese e, soprattutto, ad affrontare in maniera efficace i problemi che il Sudan aveva. Il primo era la questione del Sud: come governare la pluralità di un Paese che prima della secessione era il più esteso dell’Africa, grande come l’Europa occidentale, ma con una popolazione di 40 milioni di abitanti. La secessione del 2011 ha posto termine al problema in modo traumatico, dopo cinquant’anni di guerra civile. Il secondo è quello dello sviluppo economico. Il terzo, interconnesso a quello del Sud, è la questione costituzionale: il Sudan arriva all’indipendenza con una Costituzione scritta dai britannici, ma non riesce mai, malgrado vengano create numerose assemblee costituenti, a trovare un accordo sulla legge fondamentale del Paese.

A partire dal 1989 il Sudan diventa sede di un esperimento originale, un regime che coniuga due componenti, militare e islamista. Anche Nimeiry, nel 1969, era andato al potere con un regime militare non “puro”, appoggiandosi inizialmente al partito comunista, per poi rompere e avvicinarsi agli islamisti. Spesso i militari hanno bisogno di un sostegno ideologico per la legittimazione popolare perché non sono formati per fare politica. 

Nel caso del 1989, l’originalità fu data dal fatto che in tutto il mondo arabo-islamico, gli eserciti e i partiti islamisti erano rimasti sino ad allora due entità in competizione e in fortissima contrapposizione. In uno scontro perpetuo tra caserma e moschea, in cui i partiti religiosi hanno quasi sempre la peggio (si pensi alla Turchia fino all’inizio degli anni Duemila, al decennio nero in Algeria e all’Egitto, dagli anni Cinquanta fino al colpo di stato del 2013) il Sudan è l’unica eccezione in questo panorama.

In Sudan si realizza quindi questa convergenza tra islamisti e militari, anzi, il colpo di stato del 1989 è di fatto un’iniziativa degli islamisti che attivano una cellula di militari loro simpatizzanti all’interno dell’esercito. L’Egitto e gli USA sarebbero stati contrari all’instaurazione di un regime islamista e lo avrebbero fatto fallire, quindi viene messa in atto, il 30 giugno dell’89, un’operazione di camuffamento al punto che Hasan al-Turabi, ideatore e ideologo del movimento islamista, viene messo in prigione assieme a tutti i leader dei partiti politici. Al-Turabi dieci anni dopo dirà “ci siamo messi d’accordo con Omar [al-Bashir, ndr] che lui sarebbe andato al palazzo e io a Kober”, la prigione di Khartoum. Il colpo di stato ha successo, tra i primi Paesi che riconoscono il nuovo regime ci sono gli USA e l’Egitto, pronti a collaborare.  

La natura islamista emerge lentamente, man mano che il regime si consolida e nelle posizioni chiave vengono collocate delle figure di alto rango del movimento islamista. Questo regime ha tenuto il potere per trent’anni, quindi non solo è stata un’alleanza insolita, ma anche estremamente durevole.

Il governo di al-Bashir viene deposto da un colpo di stato nel 2019, a seguito di mesi di proteste popolari. I militari intervengono quindi contro un governo di cui di fatto facevano parte. Quali sono le ragioni dell’intervento?

Anche le due sollevazioni del 1964 e del 1985 sono contro governi militari e i colpi di stato sono stati avallati dalla popolazione e a volte anche da alcuni partiti, però non in presenza di manifestazioni di massa che chiedessero la caduta del governo e l’arrivo dei militari. In Sudan, nel 2019, la dinamica è molto simile ad alcuni Paesi arabi come l’Egitto nel 2011 o l’Algeria, contemporaneamente al Sudan. I militari hanno agito per evitare il crollo del regime e per garantirsi una sorta di successione interna. Manifestazioni di piazza molto imponenti si erano già verificate, forse la vera novità del 2019 è stato il coinvolgimento non solo di un numero di persone più ampio, ma anche di diverse città al di fuori di Khartoum. 

Abdel Fattah al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, le due figure forti di questo governo, colgono l’opportunità per un rimpasto interno di potere. Avrebbero dato la testa di al-Bashir in pasto al popolo – rappresentato dalle Forces for Freedom and Change (FFC) – non acconsentendo, però, alla sua vera richiesta: un governo civile.

Tutto questo condito da una retorica molto simile a quella egiziana: durante i giorni della rivoluzione di piazza Tahrir del 2011 lo slogan delle forze armate era “l’esercito e il popolo sono una mano sola”. L’esercito si smarcò così dal regime di Mubarak che aveva utilizzato la polizia per reprimere i manifestanti e si rifiutò poi di intervenire sulle folle. Questo è quello che è successo anche in Sudan. Le forze di polizia e alcuni corpi riconducibili all’apparato di sicurezza sono intervenute contro i manifestanti. L’esercito, inizialmente, si è rifiutato di intervenire e ha deposto al-Bashir assieme a una parte della sua vecchia guardia, per poi intervenuto molto violentemente a giugno del 2019, quando i manifestanti continuavano a tenere i loro i sit-in davanti al quartier generale delle forze armate, consapevoli che l’esercito era riuscito a tagliare la testa al regime, ma teneva ancora il timone della transizione. L’intervento violento dello Stato serviva a segnalare ai manifestanti che i militari non erano più disposti ad accettare l’intransigenza della piazza, da cui proveniva una richiesta chiara e persistente: l’instaurazione di un governo di soli civili. 

Questa violenza, insieme all’appoggio esterno che hanno avuto i militari, ha fatto sì che i civili abbiano accettato un compromesso, quello dell’agosto 2019, che ha portato a una governance ibrida, questa condivisione del potere tra militari e civili, che avrebbe dovuto portare a un governo del tutto civile nell’arco di tre anni e mezzo. Ma arrivati al passaggio di consegne tra militari e civili alla guida del Consiglio sovrano (che, secondo l’accordo dell’agosto 2019, avrebbe dovuto svolgersi in queste settimane), l’organismo esecutivo collegiale guidato finora da al-Burhan, i militari non sono stati disposti a cedere il potere ai civili. 

Collegata alla volontà dei militari di mantenere il potere c’è anche la loro posizione a livello economico finanziario, che, progressivamente, sarebbe stata loro tolta con la transizione a un governo civile – prevista per il 19 novembre.

Un’altra ragione per cui i militari sono intervenuti è che Hamdock, in molte occasioni, aveva esplicitamente detto che serviva più controllo civile sull’esercito, anche dal punto di vista economico. Infatti, era stato istituito un Comitato per lo smantellamento del regime che andava a guardare i casi di corruzione. Un po’ inconsciamente un membro del comitato ha rilasciato un’intervista alla BBC in cui ha tirato fuori tutti i faldoni dicendo che avevano le prove della corruzione del vecchio regime. In quei faldoni c’erano sicuramente tonnellate di documenti che incriminavano militari ancora parte della struttura di potere. I civili al governo avevano superato linee rosse invalicabili.

Vista l’attuale situazione, quali sono, le condizioni necessarie per intraprendere un nuovo processo di democratizzazione?

Il futuro è particolarmente incerto, facciamo delle ipotesi su quali possono essere gli scenari futuri. Il primo è che i militari vadano avanti con la repressione: le poche informazioni che escono dal Sudan parlano di un approccio violento e coercitivo, che però non raggiunge il livello di repressione del giugno 2019. I morti sono nell’ordine delle decine, ma abbiamo una mobilitazione sostenuta e continua da parte di ampie sezioni della società civile, anche da parte di settori dell’economia che non avevano mai protestato, ad esempio i banchieri, tanto che al-Burhan ha dovuto sostituire con un decreto cinque manager di alcune tra le principali banche sudanesi perchè stavano scioperando. I militari hanno iniziato un’operazione sistematica di spoil system [sostituzione di dirigenti e amministrazione con persone vicino al governo che permettano di raggiungerne gli obiettivi politici, ndr] andando a sostituire con uomini propri i capi dei dipartimenti e le persone in posizioni chiave dell’amministrazione centrale e periferica che appartenevano alle FFC. Pare che stiano andando a riesumare i vecchi burocrati dell’era di al-Bashir, il che potrebbe porgli dei problemi. 

Continuare con la repressione sarebbe una via molto pericolosa per due ragioni. Primo, perché dal punto di vista interno può portare alla guerra civile, come abbiamo visto in Siria per esempio. Considerando la storia del Sudan e il fatto che ci siano già dei movimenti di guerriglia che non hanno ancora firmato un accordo di pace con il governo, le premesse ci sono. Secondo perché il Sudan oggi è sotto la lente di ingrandimento internazionale: è sospeso dall’Unione africana, la Lega araba ha condannato il colpo di stato e ha inviato una delegazione di alto livello per fare dei colloqui; gli USA si sono molto risentiti perché il loro inviato speciale aveva ricevuto il 24 ottobre rassicurazioni da al-Burhan sulla prosecuzione della transizione e il giorno dopo c’è stato il colpo di stato. E, anche con un certo stupore, c’è stato un comunicato guidato dagli USA per il ripristino del governo civile a cui si sono accodati la Gran Bretagna – e questo era scontato – ma anche gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita che probabilmente lo hanno fatto per dovere di alleanza nei confronti degli USA, ma di fatto sono i veri sostenitori esterni di Burhan. L’unico Paese che non ha condannato il colpo di stato è l’Egitto, probabilmente favorevole a vedere che in Sudan si instauri un regime per molti versi speculare a quello di al-Sisi. Sicuramente l’Egitto incoraggerà il Sudan a proseguire in questo senso, perché, proprio come è successo a lui nel 2013, il colpo di stato è stato inizialmente condannato, ma poi di fronte al fatto compiuto tutti si sono adeguati.

Oppure militari e civili ritornano al tavolo dei negoziati, ma è molto difficile che la soluzione sia un semplice ritorno alla formula dell’agosto 2019, perché non ha garantito stabilità (la popolazione già era in piazza per problematiche soprattutto di natura economica). D’altro canto questo colpo di stato ha polarizzato molto la popolazione, quindi le componenti militanti della società civile sono meno disposte a un compromesso di quanto lo erano nel 2019. Un eventuale negoziato dovrà essere più ampio di due anni fa. Nel frattempo sono entrati nel governo dei movimenti militari del Darfur, firmando un accordo di pace col governo, che si sono mostrati più vicini ai militari, contro cui hanno combattuto per quasi vent’anni, che ai civili, non disposti ad accettare troppi loro componenti nel governo e nella burocrazia. Già nel 2019 lo slogan della piazza era chiaro: “stato civile”. Venne accettato il compromesso in cambio di una transizione che prometteva come punto di arrivo ciò che loro chiedevano subito. 

Io credo, personalmente, che si vada verso una qualche forma di accordo che ripristinerà un sistema di power sharing tra militari e civili. Hamdok, la cui popolarità era in calo, è divenuto un simbolo per le piazze sudanesi e dovrà, in qualche modo, tornare a far parte della transizione, a meno che non scelga egli stesso di fare un passo indietro, ma immagino che ciò possa accadere solo qualora si facessero da parte anche al-Burhan e Dagalo, il che appare implausibile. Al momento, il Paese sembra bloccato tra l’inevitabilità di un accordo che rimetta in moto la transizione, e una polarizzazione estrema tra le parti, che rende difficili le comunicazioni e i compromessi. E temo che in questa situazione di stallo tutto possa accadere.

 

 

Editing a cura di Elena Noventa

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