Secondo le ambizioni del Primo ministro etiope Abiy Ahmed, l’accordo di pace tra Etiopia ed Eritrea, siglato nel luglio 2018, doveva costituire l’architrave di un nuovo ordine regionale, a guida etiope, fondato sulla cooperazione in materia di sicurezza e sviluppo. All’accordo aveva dunque fatto seguito una serie di iniziative diplomatiche orientate alla pacificazione del Corno d’Africa, culminate il 5 settembre 2018 con la formalizzazione di un accordo tripartito tra Etiopia, Eritrea e Somalia. I tre capi di Stato dei rispettivi Paesi, Abiy Ahmed, Isaias Afewerki e Mohamed Abdullahi “Farmajo”, si impegnavano tra i vari punti a «operare in coordinamento per promuovere la pace e la sicurezza nella regione».
La guerra scoppiata alla fine del 2020 tra il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF) e il governo federale etiope rischia ora di minare le fragili fondamenta di questo ordine regionale, ancora in fase di costruzione. Tra oppositori e sostenitori della leadership etiope, diversi Stati seguono ora con attenzione lo sviluppo degli eventi nel Tigray.
Asmara e Addis Abeba unite da un nemico comune
Per il presidente eritreo Afewerki e il suo partito, il Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (PFDJ), il TPLF rappresenta il nemico per antonomasia. Molto è cambiato dagli anni Ottanta, quando il TPLF e il PFDJ (all’epoca Fronte di liberazione del popolo eritreo) erano ancora due movimenti politici paramilitari, uniti nella lotta per rovesciare il regime militare del Derg ad Addis Abeba. Fu dopo la capitolazione della giunta militare e l’indipendenza dell’Eritrea, nel 1993, che i rapporti tra i due ex-alleati cominciarono a incrinarsi. A causa della crisi delle relazioni economiche e delle dispute territoriali al confine tra Eritrea e Tigray, nel 1998 la tensione è sfociata in un conflitto armato. Col fallimento dell’accordo di pace di Algeri nel 2000, la sola persistenza del TPLF al potere in Etiopia costituiva una minaccia sufficiente a giustificare il mantenimento di uno Stato di polizia in Eritrea.
Nel 2018, l’elezione del Primo ministro Abiy Ahmed alla guida della coalizione di governo etiope ha cambiato le carte in tavola. Per Abiy, l’esclusione del TPLF dalle tradizionali posizioni di potere tenute nell’amministrazione e nell’economia costituiva il primo, inevitabile, passo per il superamento dell’etnofederalismo e l’accentramento dei poteri, sotto il segno di una nuova identità panetiope. La comune avversione al TPLF aveva definito un terreno di intesa reciproca tra Afewerki e il nuovo governo di Addis Abeba.
Sin dallo scoppio delle ostilità nel Tigray, si sono rincorse le voci sulla partecipazione agli scontri di forze armate eritree. Sebbene Abiy abbia sempre negato, fino al marzo 2021, la presenza di soldati stranieri in territorio etiope, l’intervento militare dell’Eritrea è stato presto confermato da diverse fonti diplomatiche e ONG.
Il coinvolgimento dell’Eritrea nel conflitto testimonia la decisione di coordinarsi con l’alleato etiope per colpire il nemico storico e al contempo prevenire la formazione di un Tigray indipendente e ostile alle frontiere eritree.
Ma al di là delle motivazioni di fondo, l’intervento ha permesso al governo eritreo di affrontare alcune questioni interne. Nella regione del Tigray erano infatti presenti quattro campi profughi che, secondo le stime, accoglievano quasi 100 mila rifugiati, in fuga dal regime di Afewerki e dall’obbligo di leva, ancora vigente in Eritrea.
Human Rights Watch denuncia da tempo gravi violazioni dei diritti umani e crimini di guerra commessi dall’esercito di Asmara contro i rifugiati eritrei e la popolazione civile tigrina, vittime di umiliazioni, torture, omicidi e stupri di massa. Tra il novembre 2020 e il marzo 2021, l’esercito eritreo si è conteso col TPLF il controllo dei campi di Hitsats e Shimelba, che ospitavano oltre 25 mila persone. Ai primi di gennaio 2021, i due campi sono stati dati alle fiamme dalle forze eritree. Migliaia di rifugiati sono stati fatti evacuare verso il confine, con ogni probabilità ricondotti con la forza in Eritrea.
La guerra nel Tigray preoccupa Mogadiscio
La stabilità dell’Etiopia riguarda da vicino anche la Somalia, se non altro perché i due Paesi condividono un confine lungo 1.600 chilometri. Nell’ambito dell’operazione di peacekeeping AMISOM (“Missione dell’Unione Africana in Somalia”), l’Etiopia mantiene dislocato in Somalia il contingente più importante per numeri, capacità militare ed esperienza di tutta la missione internazionale. Ad oggi, operano nel Paese circa 4.000 unità della Forza di Difesa Nazionale Etiope.
Il contingente è presente in Somalia dal 2014: da quando, con il beneplacito dell’ONU e degli Stati Uniti, Addis Abeba è intervenuta a sostegno del governo federale somalo per respingere le offensive del gruppo terroristico Al-Shabaab, ex-costola dell’Unione delle Corti Islamiche. Da allora, l’Etiopia si è accreditata come una delle prime garanzie della sovranità federale di Mogadiscio.
È quindi nell’interesse del presidente Farmajo che Abiy superi presto la crisi. In primo luogo, perché l’attuale governo fornisce a Mogadiscio supporto politico, economico e militare per contrastare le istanze di autonomia regionale e la riorganizzazione di Al-Shabaab. In secondo luogo, perché l’ideologia stessa alla base del Partito della prosperità di Abiy Ahmed si rivela coerente con l’aspirazione accentratrice di Farmajo e la sua opposizione a forme di autonomia regionalista. Per Mogadiscio, la ripresa del controllo da parte del governo federale etiope servirà quindi da modello per gestire le proprie spinte centrifughe.
Venti di guerra al confine col Sudan
Dall’inizio del conflitto, si stima siano oltre 63 mila i tigrini che hanno attraversato il confine con il Sudan per sfuggire alle devastazioni della guerra. I campi profughi improvvisati, che si sono formati nello Stato sudanese del Gedaref, si trovano al limite, sovrappopolati e privi di servizi igienici e alimentari di base. La presenza di decine di migliaia di rifugiati comporta un onere che Khartoum non pare in grado di sostenere, vista la delicata fase di transizione politica che il Paese sta attraversando. Intanto, la situazione al confine tra Etiopia e Sudan si fa sempre più tesa, a causa della concentrazione di forze militari e milizie e della reviviscenza di dispute territoriali.
L’oggetto del contenzioso è un’area fertile di circa 250 chilometri quadrati al confine tra i due Stati, soprannominata “Triangolo di al-Fashqa”. Secondo Khartoum, la sovranità su queste terre le è garantita dal diritto internazionale, sulla base dell’accordo di demarcazione territoriale siglato nel 1902 tra l’impero etiope di Menelik II e il Sudan (all’epoca sotto protettorato anglo-egizio). Da parte sua, l’Etiopia vanta un indiscusso legame storico-culturale con questa terra fertile, coltivata e abitata da popolazioni amhara per decenni. Dal 2007 era in vigore un accordo che assicurava a entrambe le parti il diritto all’uso e alla coltivazione di queste terre, senza però proporre alcuna formalizzazione del confine. Questo equilibrio si è infranto dopo la guerra nel Tigray.
Nel dicembre 2020, approfittando della lontananza dal confine dell’esercito etiope, distratto a nord dai combattimenti nel Tigray, l’esercito sudanese ha lanciato una vasta operazione militare per prendere il controllo di al-Fashqa. Grazie alla rapida costruzione di avamposti, ponti e strade, il Sudan pare aver consolidato la conquista. Nei primi mesi del 2021, l’Etiopia ha reagito mobilitando l’esercito regionale amhara e ammassando grandi forze sul confine. Questo ha provocato un aumento della tensione, che è già sfociata in alcuni scontri e blitz. La concentrazione di diversi schieramenti entro poche decine di chilometri aumenta il rischio che un minimo errore tattico o di calcolo produca una escalation di violenza generalizzata.
Al Cairo si fa il tifo per i tigrini
Non è la prima volta che l’Etiopia accusa l’Egitto di fornire supporto finanziario e addestramento a milizie anti-governative, seguendo una precisa agenda di destabilizzazione del Paese. Da almeno vent’anni, infatti, l’Egitto mantiene aperti i canali diplomatici con le principali forze di opposizione al governo di Addis Abeba, in particolare coi gruppi oromo. Prima ancora, nei giorni della lotta per l’indipendenza, il Cairo ospitava e sosteneva i movimenti di liberazione eritrei.
Finora l’Egitto ha accuratamente evitato ogni coinvolgimento diretto nel conflitto nel Tigray, limitandosi a fornire supporto logistico ai movimenti di opposizione al regime etiope. Ma quale beneficio può trarre il governo egizio dalla prosecuzione del conflitto nel Tigray?
Non che il Cairo abbia mai avuto buoni rapporti con il TPLF, ma oggi tra i due si è delineata una convergenza di intenti. La visione etnofederalista del TPLF, incentrata sulla devoluzione di potere e autorità dal centro federale ai diversi Stati membri regionali, è infatti perfettamente coerente con gli interessi dell’Egitto, indirizzati a prevenire la formazione di un governo forte e centralizzato in Etiopia.
La prospettiva di un’Etiopia solida e unita sotto il segno di una nuova identità nazionale mette in discussione l’ambiziosa politica regionale dell’Egitto. Non solo rischia di vanificare i tentativi del Cairo di contare di più nel Corno d’Africa, ma sta già minando lo status quo sulle acque del Nilo.
L’entrata in funzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), che ha ultimato la seconda fase di riempimento nel luglio 2021, porterà secondo le autorità egiziane a una riduzione inaccettabile della portata annuale del fiume in Egitto. Si tratta di una minaccia esistenziale per un Paese che trae dal Nilo il 97% del proprio fabbisogno idrico. Il governo egiziano sta quindi cercando di capitalizzare il più possibile dal conflitto nel Tigray, con la speranza che ciò indebolisca la posizione di Abiy Ahmed ai negoziati sulla GERD, attualmente in fase di stallo.
La posta in gioco
Il conflitto nel Tigray ha generato echi di instabilità ed effetti collaterali che hanno travalicato i confini della Federazione etiope. È una storia che si ripete, specialmente nel Corno d’Africa, dove la dimensione del conflitto ha assunto un ruolo chiave nel plasmare le relazioni tra Stati e dove nessun Paese può permettersi di rimanere indifferente a quello che succede al suo vicino.
L’esito della guerra nel Tigray avrà necessariamente una profonda influenza sulle altre questioni geopolitiche del Corno d’Africa, a cominciare dalla disputa sul confine tra Etiopia e Sudan e dai negoziati appena citati sulla diga del Rinascimento Etiope. In che modo Addis Abeba riuscirà a governare questa crisi sarà determinante per saggiare la sua capacità di porsi come leader regionale, garante della stabilità e dello sviluppo della regione del Corno.
Fonti e approfondimenti
Sorour, Abir, “Ethiopia – Tigray What does Egypt stand to gain or lose from the one-year war”, The Africa Report, 25/11/2021.
Casola, Camillo, “Eritrea in Tigray: Settling old scores?”, ISPI, 31/01/2021.
Hudson, Cameron, “The unintended consequence of Ethiopia’s civil war might be a border war with Sudan”, Atlantic Council, 03/03/2021.
Garowe Online. Djibouti’s economy nose-dives amid Tigray conflict. 18/11/2021.
Sheikh, Nor Mohamed, “What Somalia stands to gain from Ethiopia’s ongoing Tigray war”, The Africa Report, 11/10/2021.
Getachew, Samuel, “Ethiopia – Turkey Ankara’s ongoing economic and military support”, The Africa Report, 02/11/2021.
Corda, Tiziana, & Giuseppe Dentice, “Power Rivalry in the Horn: Egypt’s View of Ethiopia’s Tigrayan Woes”, ISPI, 15/12/2020.
Editing a cura di Niki Figus