Matteo Garavoglia fa parte del Centro di giornalismo permanente (CGP). Storico di formazione e giornalista freelance, si occupa principalmente di Tunisia con reportage sul campo, inchieste e analisi. Ha scritto per “Il Manifesto”, “Domani”, Limes – Rivista italiana di geopolitica, Elsaltodiario.com, RSI – Radiotelevisione svizzera e “FQ MilleniuM”. È autore di “Un gioco di società”, la prima inchiesta italiana completamente fruibile su Instagram e vincitrice del premio Roberto Morrione 2018 – sezione inchiesta sperimentale. Nella prima parte dell’intervista sono stati affrontati i temi legati alla società civile e alla libertà di stampa nel Paese nordafricano.
Le tensioni tra il governo tunisino e l’Union générale des travailleurs tunisiens (UGTT), il principale sindacato del Paese, si sono esacerbate dopo che la Prima ministra, Najla Bouden Romdhane, ha emesso la circolare n. 20, in cui si afferma l’obbligo, per gli ufficiali politici, di richiedere l’autorizzazione preventiva del Primo ministro prima di negoziare con i sindacati. A riguardo, il vice Segretario generale e portavoce dell’UGTT, Sami Tahiri, ha promesso che verranno indetti una serie di scioperi nazionali se Bouden continuerà a rifiutarsi di ritirare la circolare. Ad oggi, e soprattutto dopo il 25 luglio, che rapporti intercorrono tra l’UGTT e l’esecutivo?
Dal 25 luglio, l’UGTT ha sempre affermato come linea di politica di voler creare un dialogo nazionale volto a risolvere la crisi istituzionale, coinvolgendo contemporaneamente le numerose realtà sociali del Paese. Su quest’ultimo decreto voluto da Bouden, il sindacato è stato molto netto poiché il governo andava a toccare direttamente gli interessi della sigla. Ad oggi, l’UGTT, rappresenta il sindacato più importante del Paese e rimane un attore politico centrale. Tuttavia, è un’istituzione che al momento non gode di troppa fiducia da parte della popolazione. Di fatto, non riesce più a mobilitare le persone come in passato. Riguardo all’emissione della circolare, il governo e l’UGTT sono andati allo scontro su questo tema, perché c’è stata un’ingerenza palese da parte dell’esecutivo sul funzionamento interno del sindacato. Pochi giorni fa, il Segretario generale dell’UGTT, Noureddine Taboubi, ha incontrato Saied per la prima volta dal 25 luglio. Un incontro che sembra essere andato bene ed è stato anche riconosciuto ufficialmente da entrambe le parti. È difficile tuttavia immaginare cosa succederà nei prossimi mesi. La circolare n. 20 non è ancora stata ritirata. Potrebbe esserlo come potrebbe non accadere. Siamo in una fase di attesa. Poco prima dell’incontro ufficiale fra i due a Cartagine, l’UGTT aveva espresso una forte inquietudine riguardo il taglio al personale pubblico. Tuttavia, il sindacato non sta giocando il ruolo del vero oppositore di Saied, tutt’altro. Non sembra essere d’accordo con le azioni intraprese dal presidente, tuttavia sta cercando di legittimarsi ai suoi occhi per riuscire a ottenere almeno un dialogo, ponendosi come un interlocutore privilegiato. Non siamo ancora arrivati a uno scontro vis-a-vis.
Vorrei soffermarmi sulla figura della Prima ministra Najla Bouden Romdhane, nominata da Saied lo scorso 29 settembre. In Italia, ma anche leggendo la stampa estera, in merito alla sua nomina si è parlato molto di “tokenismo”. Sei d’accordo?
È appurato che Bouden Romdhane sia la prima premier donna del mondo arabo. Ha subìto delle critiche interne e gratuite perché secondo la maggioranza aveva poche competenze. Il punto del suo ruolo e del “tokenismo” è vero, perché il governo in questo momento non ha assolutamente alcun potere decisionale. La Tunisia è governata attraverso il decreto presidenziale 117 promulgato da Saied a settembre. Il governo resta sotto la supervisione di Saied, per cui a ogni Consiglio dei ministri partecipa anche il capo dello Stato. Anche per questa ragione, l’esecutivo ha pochissimo margine di manovra. Possiamo dire che la nomina di una donna in una posizione di potere è servita a Saied per dare al mondo un’immagine “libera e aperta” del Paese, una sorta di propaganda di Stato. L’importanza di questo dato storico rimane, nel senso che è il primo Paese del mondo arabo ad aver nominato una donna in qualità di premier. Tuttavia, rimane il fatto che Bouden non ha alcun ruolo decisionale.
La Tunisia è chiamata a esprimersi su un nuovo referendum costituzionale il prossimo 25 luglio e recarsi alle urne il 17 dicembre per votare, data ovviamente non casuale. Ad oggi, si sa qualcosa a riguardo?
Non si sa ancora nulla perché lo scorso 15 gennaio è stata aperta una consultazione popolare che finirà il 20 marzo online, in cui i tunisini voteranno attraverso un forum esprimendosi su come vorranno la Tunisia. Una sorta di operazione di democrazia diretta. Queste consultazioni andranno avanti fino al 20 marzo, poi verrà fissato una sorta di “consiglio di esperti” formato da giuristi e costituzionalisti che valuteranno le impressioni emerse da questi sondaggi. In seguito, verranno proposti degli emendamenti alla nuova Costituzione che verranno votati il prossimo 25 luglio. Anche in questo caso la data non è casuale perché sarà l’anniversario del 25 luglio 2021, nonché il giorno della festa della Repubblica. Da quel giorno, si capirà verso che regime stiamo andando. Se vogliamo basarci su quello che pensa Saied, dobbiamo rifarci a ciò che affermava durante la campagna presidenziale del 2019. Non è tuttavia detto che ciò che Saied ritiene opportuno finirà negli emendamenti della Costituzione. Tuttavia, sappiamo che non ha fiducia nel Parlamento come dimostrano gli eventi di luglio scorso. Saied ha spesso affermato che la fonte di potere reale deve uscire dalle collettività locali, spostandosi da una realtà locale verso Tunisi. Basandoci su questa affermazione potremmo dire che la tendenza sia verso l’instaurazione di un regime presidenziale.
Quindi è corretto affermare che la direzione presa dal governo di Saied è verso un regime presidenziale?
La tendenza è questa. Benché lui non si sia ancora espressamente dichiarato a riguardo. È un dibattito aperto ancora oggi. La sua idea di collettività locali è una cosa che non esisteva sotto il regime di Ben Ali. Non si può dire che ci sia un ritorno al passato in senso stretto. La direzione presa è quella di un regime presidenziale, con un Parlamento assolutamente diverso rispetto a quello a cui siamo stati abituati dal 2011 ad oggi. Le collettività locali sono state votate per la prima volta nel 2018 però ancora nei fatti non esistono. Non si capisce ancora bene come siano state strutturate, benché siano già presenti nella Costituzione promulgata nel 2014. Il grande problema che sottolineano anche diversi esperti della Tunisia è che non ci si poteva immaginare, data quella Costituzione – considerata da molti come una fra le più innovative del Nord Africa e non solo -, che si sarebbe arrivati a questo punto, un momento storico in cui si è creato una sorta di corpo bicefalo fra capo di governo e presidente della Repubblica, dove sono stati lasciati a quest’ultimo degli ampi margini di manovra.
Nonostante le diverse critiche mosse contro il capo di Stato, quest’ultimo sembra godere ancora di consensi. In termini di impegno a ravvivare o continuare la rivoluzione, alcuni dei passi del presidente Saied sono stati esplicitamente simbolici. Uno è stato incontrare e ascoltare le persone che sono state vittime della repressione statale, come i martiri della rivoluzione – i feriti o le famiglie di coloro che sono stati uccisi dalle forze di sicurezza durante la rivolta. Un altro è stato incontrare le vittime delle politiche socio-economiche dello Stato, per esempio i disoccupati di Gafsa. Quell’incontro ha amplificato le loro richieste, che erano state largamente ignorate dalla stampa mainstream. Si tratta di propaganda?
Il consenso è leggermente calato, credo che adesso si attesti intorno al 70%. Riguardo ai martiri, è un dossier complicatissimo e difficile da affrontare. In questi anni, Saied ha giocato un ruolo importante, dimostrandosi vicino ai feriti. All’interno delle vittime della Rivoluzione bisogna innanzitutto fare una distinzione tra le vittime e un altro gruppo che ha occupato l’istanza di riconoscere i feriti della Rivoluzione a gennaio/febbraio del 2021. Il gruppo che Saied ha incontrato sono i feriti che chiedono con forza il riconoscimento, la pubblicazione della lista e l’accesso a cure mediche. Saied si è sempre detto pronto a venire incontro alle loro richieste. Hanno organizzato un sit-in a novembre dello scorso anno di fronte al Palazzo presidenziale per chiedere novità rispetto al loro dossier. Saied li ha rassicurati dicendo che avrebbe provveduto a soddisfare le loro richieste, ma ad oggi non è cambiato nulla. Questo fatto li ha ovviamente inimicati al presidente. Ai martiri e ai feriti della Rivoluzione, Saied è stato vicino, ma penso si sia trattato di propaganda. La stessa propaganda di quando ha voluto incontrare le classi più marginalizzate della popolazione. Il dossier più importante su cui il presidente puntava moltissimo, e si è visto subito dopo il 25 luglio, è quello sulla corruzione, in Tunisia considerata un vero cancro. A riguardo, Saied ha effettuato degli arresti lo scorso luglio con una campagna che è stata soprannominata le “Mani pulite” della Tunisia. Il problema è che poi in molti, in Tunisia e non solo, affermano che Saied non ha la capacità di andare a scalfire i veri interessi economici e corruttivi che sono dietro il Paese. La Tunisia, a livello economico e finanziario, è gestita da poche famiglie e queste non sono state minimamente toccate da Saied. Al momento, non sembra che lui abbia la capacità di toccare queste persone. Sul lato delle classi marginalizzate a Gafa, ha giocato molto promettendo tanto, vicinanza e non solo. Il problema è che se andiamo a vedere la legge finanziaria del 2022, non c’è la garanzia reale di andare a difendere questa fetta di popolazione.
Il partito islamico Ennahda, guidato da Ghannouchi, vive uno dei momenti più bui della sua storia recente. Lo scorso 10 dicembre, la sede del partito a Tunisi è stata incendiata e il 28 dicembre è stato arrestato l’ex ministro della Giustizia Noureddine Bhiri, uno dei membri più vicini a Ghannouchi. Ad oggi, è corretto dire che un partito storico come quello della Fratellanza Musulmana sembrerebbe aver perso gran parte della propria influenza politica?
Assolutamente sì. Oltre all’arresto di Bihar, all’incendio e al fatto che dopo il 25 luglio Ennahda non ha più avuto spazi di manovra politica, hanno provato a opporsi duramente a Saied, cercando tuttavia in un primo momento di ottenere un dialogo. Il partito ha subìto una scissione interna violentissima lo scorso settembre, quando si sono dimesse più di 100 persone, anche alti quadri dello stesso partito. Mentre alcuni hanno rivolto un appello a Saied chiedendo di essere coinvolti nelle decisioni politiche, una parte voleva invece continuare il percorso politico di opposizione in modo da portare il partito a un congresso interno a fine 2021, evento che poi non si è tenuto. L’impressione è che Ennahda non abbia più un collante con la propria base elettorale e nemmeno più gli stessi spazi di manovra di un tempo. Il partito era già arrivato alle elezioni del 2019 con una perdita di consensi clamorosa: dal 2011 al 2019, aveva perso un milione e mezzo di voti, nonostante rimanga il partito con più deputati all’interno del Parlamento. Un milione e mezzo di voti, rapportati al totale della popolazione della Tunisia (circa 12 milioni), Paese dove va a votare poco più della metà degli aventi diritto, dà l’idea dell’erosione dei consensi. Ad oggi, il partito sta vivendo una profondissima crisi interna, lo dimostra anche il fatto che non comunichino più all’esterno come facevano un tempo.
Dal 2011, la popolazione ha continuato a richiedere che lo Stato assuma un ruolo più attivo e diretto nel creare occupazione. Tuttavia, in dieci anni, le coalizioni politiche tra partiti opposti hanno portato a governi di consenso privi di qualsiasi contenuto o progetto ideologico a riguardo. In questo vuoto depoliticizzato, il governo ha continuato ad affidarsi alle istituzioni finanziarie internazionali, come il FMI. Durante il suo discorso, Saied ha da un lato rilanciato le richieste di una revisione del debito, mentre dall’altro lato ha anche chiesto più “austerità”, in linea con i modelli neoliberali. Sono approcci contraddittori?
Saied si è espresso a difesa degli interessi nazionali della Tunisia, però il discorso da fare riguardo l’economia della Tunisia è che non è un Paese ricco né tantomeno in grado di generare ricchezza. Non è come la Libia o l’Algeria dove ci sono siti produttivi o dove c’è una chiara economia nazionale. La Tunisia è quasi costretta ad appellarsi anche al di fuori dei propri confini nazionali. Per queste ragioni, è difficile per la Tunisia svincolarsi dal richiedere prestiti a meccanismi internazionali o da accordi di libero scambio, un cui offre manodopera a basso costo, scaricando parte dei disoccupati nazionali su Paesi terzi e guadagnandoci con le rimesse.
Editing a cura di Carolina Venco
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