Perché non esiste una diaspora afro-araba?

diaspora nel golfo_Lo Spiegone
@Mahmoud Khakbaz - Wikimedia Commons - CC BY 4.0

Solitamente, quando si parla di “diaspora africana” il pensiero va immediatamente al fenomeno della schiavitù in America. I discendenti di africani portati via coercitivamente dal proprio luogo di origine sono però presenti anche in altre parti del mondo, specialmente nei Paesi Golfo. Sebbene questi ultimi non siano immuni a fenomeni di razzismo e discriminazione, nella regione sembra mancare un’identità diasporica afro-araba.

Schiavi di un unico padrone

La schiavitù è esistita in Medio Oriente (e in quasi tutto il resto del mondo) fin dall’antichità. Non si è però trattato di un fenomeno omogeneo: i lavori assegnati, i diritti, le possibilità di liberazione e integrazione nella società di arrivo potevano variare considerevolmente da un luogo all’altro e mutare nel corso del tempo. 

Nell’area oggi occupata dai Paesi del Gulf Cooperation Council (GCC) gli schiavi africani giungevano via mare principalmente dalla costa Swahili, oggi divisa tra Kenya, Tanzania e Mozambico. L’incorporazione della regione all’interno dell’impero omanita alla fine nel XVII secolo facilitò la tratta. Tuttavia, le fonti storiche a nostra disposizione non mostrano una grande concentrazione di persone di origine africana nell’area fino alla fine del XVIII secolo. Secondo gli storici, la rivolta degli Zanji (schiavi africani impiegati nelle saline dell’Iraq meridionale) tra l’869 e 883, insieme ai disordini causati dai Qarmati, scoraggiò l’importazione in massa di manodopera dall’Africa per diversi secoli. 

Secondo la narrativa storica convenzionale, la schiavitù nell’Oceano Indiano venne abolita nel corso del XIX secolo dalla marina militare britannica. In realtà, nel Golfo, la tratta di esseri umani continuò per almeno un secolo. A partire dagli anni Sessanta del 1800, infatti, la regione entrò nel circuito del commercio globale grazie all’esportazione in Occidente di datteri e perle. La produzione di questi beni, considerati un lusso esotico in Europa e Nord America, richiedeva un’ingente quantità di lavoratori. Gran parte della manodopera richiesta venne trovata in Africa Orientale sotto forma di schiavi. 

Gli inglesi erano consapevoli di questa pratica, ma essendo funzionale all’economia preferirono chiudere un occhio. La dipendenza dei Paesi del Golfo dal mercato globale, soprattutto dall’esportazione di perle, era tale che nel 1863 lo sceicco qatariota Muhammad bin Thani dichiarò: «Siamo tutti, dal più alto al più basso, schiavi di un unico padrone, (la) Perla». 

All’epoca, lo status giuridico di un individuo non era influenzato dal colore della pelle come accadeva invece negli Stati Uniti. Tuttavia, data la crescente presenza di manodopera di origine africana, alcuni fenotipi finirono per essere associati con la schiavitù. Per esempio, sembra che intorno al 1925 un cugino del sultano omanita Taymur bin Faysal sia stato catturato da un gruppo di beduini e venduto come schiavo proprio a causa della sua carnagione scura. 

Diaspore, schiavitù e Islam: da dove vengono gli afro-arabi? 

L’identità diasporica è solitamente legata alla memoria collettiva della partenza forzata e ingiusta da una patria ancestrale, spesso oggetto di mitizzazione e talvolta accompagnata dal desiderio di ritorno. A questo, si associa la consapevolezza da parte della comunità in questione della propria marginalità rispetto ad altri gruppi visti come dominanti. Questa coscienza è assente nei Paesi del Golfo. Gli individui di discendenza africana si identificano come arabi e fanno parte di tutti gli strati socio-economici; in particolare, sono una presenza importante tra gli atleti e i musicisti del Paese di appartenenza.

Lo storico Gwyn Campbell ritiene che la mancanza di una diaspora afro-araba, o addirittura afro-asiatica, sia dovuta alle diverse condizioni di vita degli schiavi. Negli Stati Uniti, la reclusione nelle piantagioni e la segregazione successiva all’abolizione hanno contribuito allo sviluppo di una coscienza diasporica e alla creazione di un’identità afroamericana. Gli schiavi del Golfo (e dell’Asia in generale), invece, non vivevano isolati: erano infatti impiegati in tutti i settori lavorativi, dall’agricoltura al commercio, e dovevano svolgere i propri compiti fianco a fianco con i nativi. Questo permetteva loro di entrare maggiormente in contatto con la lingua e la società di arrivo, con ripercussioni positive sull’integrazione. L’assimilazione all’interno della nuova realtà araba è confermata non solo dalla conversione all’Islam da parte di molti schiavi ed ex schiavi ma anche dal fatto che, una volta liberati, pochissimi di loro espressero il desiderio di tornare in Africa. 

Un secondo elemento che può spiegare l’assenza di una diaspora africana nel Golfo è l’Islam. Nonostante l’importanza culturale e liturgica data alla lingua araba, secondo i dettami musulmani tutti i convertiti sono uguali e non esiste un “popolo eletto”. In aggiunta, il Corano incoraggia la liberazione degli schiavi, dipingendola come un atto di devozione: sono stati documentati molti casi di musulmani che hanno emancipato i propri servitori prima di recarsi in pellegrinaggio alla Mecca. 

La religione musulmana sembra anche aver favorito l’integrazione dei figli di coppie miste: i figli di una schiava o concubina e di un uomo libero avevano gli stessi diritti di quelli nati da una moglie legittima. Inoltre, la madre non poteva più essere rivenduta e, alla morte del padrone, diventava una donna libera. Nel corso della storia non sono stati rari i casi di regnanti musulmani figli di schiave: per esempio, il califfo abbaside al-Ma’mun (sovrano nel periodo 813-833) e il sultano ottomano Selim II (sovrano nel periodo 1566-1574) erano figli di concubine. 

Terza e ultima peculiarità della schiavitù nel Golfo che ha contribuito all’assimilazione è stato il drammatico declino del commercio di datteri e perle. La globalizzazione che aveva causato il boom a livello mondiale di questi prodotti fu la causa stessa della sua fine: all’inizio del XX secolo, infatti, alcuni botanici statunitensi crearono piantagioni di palme da dattero in California, eliminando la dipendenza dalle coltivazioni della penisola. Nel frattempo, in Giappone venne perfezionata una tecnica per la coltivazione delle perle, che divennero più economiche e rapide da raccogliere rispetto a quelle pescate nel Golfo. 

Prima di entrare nell’era petrolifera, i Paesi dell’attuale GCC attraversarono quindi un periodo di grave crisi economica. Questa esperienza è stata vissuta tanto dagli arabi quanto dagli africani che lavoravano per loro; la comune tragedia avrebbe rafforzato il legame tra le due parti, aiutando i secondi a integrarsi. 

Una questione di paternità 

La mancanza di un’identità diasporica paragonabile a quella afro-americana non implica però che tutti i cittadini dei Paesi del Golfo siano uguali. Le discriminazioni esistono, ma non sono concentrate tanto sul colore della pelle; il focus è invece sulla discendenza patrilineare, la stessa che aveva permesso ai figli delle schiave di essere trattati come pari dei propri fratellastri. 

L’accento sulle origini della famiglia paterna ha ripercussioni importanti sui diritti politici. I sopravvissuti ai massacri di Zanzibar del 1964 hanno ottenuto la cittadinanza omanita e si sono potuti integrare nella società d’accoglienza in virtù della propria discendenza araba.

Tuttavia, questa attenzione alle origini ha anche lati negativi, andando a colpire i cittadini naturalizzati e i loro figli. Per esempio, in Qatar, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti i figli dei non “nativi”, benché in possesso della cittadinanza, sono esclusi dall’elettorato passivo. 

 

 

Fonti e approfondimenti

Gwyn Campbell, The African-Asian diaspora: myth or reality?, in African and Asian studies, vol 5 n. 3-4, pp 305-324.

Allen James Fromherz (ed), The Gulf in World History. Arabia at the Global Crossroads, Edinburgh University Press, 2018.

Matthew S. Hopper, Slaves of one master. Globalization and Slavery in Arabia in the Age of Empire, Yale University Press, 2015.

 

 

Editing a cura di Carolina Venco

Be the first to comment on "Perché non esiste una diaspora afro-araba?"

Leave a comment

Your email address will not be published.


*


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: