I rapporti tra Stati Uniti e Russia prima di Putin: intervista a Leopoldo Nuti

Intervista
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Leopoldo Nuti è professore ordinario di storia delle relazioni internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre e co-direttore del Nuclear Proliferation International History Project (2010-presente). Presidente della Società Italiana di Storia Internazionale, 2014-2018. Laurea, Facoltà “C. Alfieri” dell’Università di Firenze, M. A. in International Affairs, George Washington University, dottorato di ricerca, Università di Roma. Borsista Fulbright, 1984-85, NATO Research Fellow, 1988, Jean Monnet Fellow, IUE,1989-90, Research Fellow, CSIA, Kennedy School of Government, Università di Harvard, 1990-91, Senior Research Fellow, The Norwegian Nobel Institute, 2002, visiting professor, Institut d’Etudes Politiques, 2004, visiting fellow, The Norwegian Nobel Institute, 2007, Public Policy Scholar, W. Wilson Center, 2013.

Dopo l’inizio della guerra tra Russia e Ucraina, molti studiosi hanno rievocato la dottrina statunitense del containment, formulata originariamente da George Kennan. In cosa consiste e in che contesto è stata elaborata?

La dottrina del containment venne formulata da Kennan per la prima volta nel famoso Lungo telegramma, nel febbraio del 1946, uno dei testi fondamentali della storia della Guerra Fredda. Kennan, in quel momento incaricato d’affari all’ambasciata degli Stati Uniti a Mosca, si occupava di Unione Sovietica, sin da quando nel periodo precedente la Seconda guerra mondiale era stato inviato come diplomatico nei Paesi baltici. Era uno dei quattro diplomatici statunitensi, insieme a Charles Bohlen, Llewellyn Thompson e William Averell Harriman, che avevano una visione meno schematica del comportamento e della logica dell’Unione Sovietica. Avevano vissuto a lungo nel Paese e lo avevano studiato a fondo. Quando il Dipartimento di Stato americano chiese ad alcune delle sue sedi diplomatiche di spiegare perché fosse così difficile negoziare con i sovietici, perché fossero così intransigenti e aggressivi, Kennan elaborò una lunghissima risposta. Invece di inviare un breve telegramma, come si sarebbe fatto di solito, scrisse una specie di saggio universitario, che poi verrà pubblicato anonimo un anno dopo, su Foreign Affairs, la più importante rivista di politica estera statunitense.

Nel telegramma Kennan descrive tre concetti che avranno un’enorme influenza sulla politica estera degli Stati Uniti. Secondo Kennan, la politica estera russa era sempre stata inerentemente espansionistica, perché i russi hanno una percezione “nevrotica della loro insicurezza”. Visto che sono sempre stati aggrediti in passato e non hanno barriere, quindi confini naturali per difendersi, essi hanno sempre percepito la propria sicurezza come molto vulnerabile e hanno provveduto a risolvere questo problema espandendosi. Su questo, scrive Kennan, si era instaurato un elemento ulteriore di insicurezza nei confronti del mondo esterno, che è la visione sovietico-bolscevica dei rapporti con gli altri Paesi. Sentendosi l’unico Paese portatore della Rivoluzione nel mondo, il timore di essere accerchiato e minacciato, combinato al tradizionale senso di fragilità, rendeva la politica estera sovietica ancora più intransigente, ostile e propensa a garantirsi una sorta di espansione illimitata, là dove l’Europa e gli Stati Uniti le si frapponevano. Questo rendeva la guerra inevitabile? Per Kennan no, perché i sovietici non si muovevano secondo un piano preordinato, come facevano invece i nazisti, che avevano una visione profondamente ideologica che li portava a seguire delle tabelle di marcia. L’espansionismo sovietico era (invece) legato all’opportunità di sfruttare le situazioni che si verificavano sul campo. Il compito dell’Occidente quindi e soprattutto degli Stati Uniti era di contenere questo espansionismo e ogni tentativo di allargamento della sfera di influenza, impedendo il dilagare sistematico della politica estera sovietica. Come? Rafforzando le società più esposte alla penetrazione. Kennan usò un paragone significativo, che fa capire come giudicasse con forte senso di superiorità il comportamento dei sovietici. Egli scrive: «Il comunismo è come un parassita maligno che si innesta su tessuti malati» quindi se i tessuti sono sani, il parassita non si innesta. Pertanto bisogna fortificare le società dell’Europa occidentale, rafforzarle economicamente e politicamente e questo è il compito degli Stati Uniti. È lo stesso concetto che poi porterà all’applicazione del piano Marshall.

Questa visione di Kennan è una sorta di chiamata alle armi metaforica. Egli non pensa a un contenimento militare ma a un contenimento politico ed economico, come spiegherà in altri suoi articoli e in alcune lezioni che terrà all’Accademia navale americana di lì a qualche mese, a un contenimento selettivo: non si può pensare che gli Stati Uniti difendano il mondo intero dalla penetrazione sovietica, devono difendere le regioni che ritengono più importanti per salvaguardare l’equilibrio di potenza mondiale. All’epoca Kennan scrive: «Ci sono cinque centri industriali nel mondo: Stati Uniti, Gran Bretagna, Europa occidentale, Unione Sovietica e  Giappone. «Il rapporto di forza è favorevole all’Occidente – scrive Kennan – perché l’Unione Sovietica controlla sé stessa e metà della Germania, quindi un centro di potere e mezzo su cinque, se già i sovietici riuscissero a contenere tutta la Germania e l’Europa occidentale il rapporto andrebbe su tre a due e diverrebbe complicato». Questo spiega perché per esempio Kennan sarà un oppositore della guerra statunitense in Vietnam: non per motivi etici, ma per un semplice calcolo di rapporti di forza perché il Vietnam a suo giudizio non rientrava in quelle aree fondamentali.

Come mai le idee di Kennan diventano così influenti?

Perché nel corso del 1946, l’amministrazione Truman sta cercando una serie di linee guida su come comportarsi con l’Unione Sovietica. C’è un fortissimo dibattito interno tra chi sostiene che gli Stati Uniti debbano contrapporsi ai russi in tutti i modi possibili e chi, invece, sostiene che si debba continuare la cooperazione del tempo di guerra, come riteneva il vicepresidente Wallace, mantenendo un dialogo aperto seguendo la linea di  Roosevelt. Per quasi tutto il 1946 gli Stati Uniti mantengono queste due linee di politica estera parallele: da un lato si conserva il dialogo, dall’altro si comincia a ragionare con le idee formulate da Kennan che ottengono un certo seguito tra politici e diplomatici. 

Nel 1947, con la dottrina Truman e il piano Marshall, assistiamo all’incarnazione delle idee di Kennan che saranno seguite per buona parte della Guerra Fredda, seppure con alcune  variazioni. Kennan, ad esempio, non era particolarmente favorevole a un contenimento militare, per cui quando si inizia a parlare di Alleanza Atlantica, la immagina più circoscritta possibile ed è favorevole al massimo a un’alleanza di cinque o sei Paesi. Mentre altri politici e diplomatici elaboreranno delle visioni ancora più radicali del telegramma, l’idea di contenere l’Unione Sovietica rimane, perché secondo Kennan nell’arco di una generazione è ragionevole pensare che al Cremlino arriveranno al potere politici diversi, con cui sarà possibile aprire un dialogo. Non c’è dubbio che Kennan avesse intuito abbastanza bene l’andamento del funzionamento del sistema internazionale, anche se invece di venticinque anni per arrivare al crollo dell’Unione Sovietica, ce ne sono voluti di più. 

Per spiegare bene il senso di profonda soddisfazione che molti politici e diplomatici USA provano alla fine della Guerra Fredda, mi viene in mente la cerimonia in cui il Segretario di Stato dell’amministrazione Bush padre, James Baker, viene invitato, nel dicembre del 1991, quando ancora non è ammainata la bandiera sovietica sul Cremlino, all’Università di Princeton a tenere un discorso. A sedere in prima fila c’è anche Kennan, che aveva insegnato a lungo in quella università dopo aver abbandonato la carriera diplomatica. Baker si rivolge a Kennan e afferma: «Signori studenti, signori colleghi, containment worked». È abbastanza impressionante: sono passati quarantacinque anni dal lungo telegramma, Kennan è stato particolarmente longevo ed è arrivato a vedere più o meno l’attuazione delle sue idee.

La storica Victoria Zhuravleva ritiene che, dopo il 1989, gli USA non sono più stati in grado di creare delle nuove dottrine che guidassero i rapporti con la Russia. Crede che questo sia vero e come sono stati guidati allora i rapporti?

Premetto che gli anni Novanta sono un po’ la frontiera degli storici delle Relazioni Internazionali perché è da sette, otto anni che disponiamo di una crescente massa di documenti originali desecretati, prevalentemente statunitensi, ma non solo e quindi possiamo studiare sulle fonti primarie. Per esempio, sull’allargamento della NATO gli storici discutono ferocemente e non sono arrivati ancora a una conclusione. Una certa convergenza si è verificata nell’individuare un momento di cesura tra il 1993 e il 1994, perché fino a quel momento nell’Amministrazione Clinton prevale un’impostazione strategica che dà la massima priorità ai rapporti con la Russia. Questo si vede, per esempio, nel fatto che gli Stati Uniti all’epoca subordinano e tengono a freno le richieste di inserimento nella NATO che provengono dai Paesi dell’Europa centro-orientale: la Repubblica Ceca e la Polonia molto presto iniziano a chiedere di farne parte perché lo vedono come l’unico modo per stabilizzare e rendere irreversibile il processo di democratizzazione dei loro Paesi. A Washington, però, si ritiene molto più importante stabilizzare la Russia. Tanto è vero che fin dal 1992, appena è crollata l’Unione Sovietica, le amministrazioni statunitensi non fanno mistero della volontà di rendere la Russia l’unico Stato erede dell’immenso arsenale nucleare sovietico, perché quando crolla l’Unione Sovietica le armi nucleari sono in Russia, Kazakistan, Bielorussia e Ucraina. Di fronte all’ipotesi di disfarsi del proprio arsenale nucleare, l’Ucraina è il Paese più recalcitrante perché è quello che ha il numero maggiore di testate nucleari e si sente meno sicuro; la Bielorussia è intenzionata a disfarsene quasi immediatamente, e il Kazakistan una via di mezzo tra le due, anche se se ne libererà abbastanza rapidamente. Prima l’amministrazione Bush, poi quella Clinton, insistono fortemente su tutti e tre questi Paesi perché rinuncino quanto prima all’arsenale nucleare ereditato dall’URSS, con l’unica eccezione forse del consigliere per la sicurezza nazionale di Bush, Brent Scowcroft,  e di qualche celebre politologo come John Mearsheimer, che accarezzano l’idea di fare dell’Ucraina una potenza nucleare, ma questa è una ipotesi largamente minoritaria che viene presto accantonata e prevale la spinta a incoraggiare questi tre Paesi al disarmo. Tra la scelta di incoraggiare la crescita di potenze alternative alla Russia e quella di dialogare con la Russia come unico Stato successore dell’Unione Sovietica prevale la logica di Russia first. Questa logica viene seguita con una certa determinazione e coerenza fino al 1994. Ancora agli inizi del 1994, l’amministrazione Clinton inventa la Partnership for Peace per evitare che i Paesi dell’Europa centro-orientale continuino con le loro richieste pressanti di garanzie, per inquadrare in un meccanismo comune sia la Russia, sia l’Ucraina, in maniera tale da favorire il dialogo, evitare crisi e assicurare lo smantellamento dell’arsenale nucleare ucraino.

Perché tra il 1993 e il 1994 questo atteggiamento viene in parte abbandonato?

Perché si comincia a temere per la stabilità della democrazia in Russia quando nell’ottobre del 1993 c’è la crisi che porta El’ cin, allora presidente russo, a prendere a cannonate il Parlamento russo e in base a questo si comincia a pensare che forse l’ipotesi dell’allargamento NATO non è da escludere e anzi, potrebbe essere la soluzione migliore per stabilizzare almeno alcuni di questi Paesi. 

Questa cesura poi viene esasperata ulteriormente da vari altri fattori: una forte competizione all’interno dell’amministrazione Clinton, tra fautori e oppositori dell’idea dell’allargamento; le elezioni di midterm negli USA del 1994, che fanno vincere i repubblicani, favorevoli all’allargamento; il fatto che Clinton abbia un problema di credibilità per le sue  scelte di politica estera poco felici e che ci siano degli elettori di origine polacca concentrati in alcuni Stati chiave del Midwest per le elezioni del 1996. Nel dicembre del 1994, l’invasione russa della Cecenia è vista non solo come un errore, ma un errore portato avanti con brutalità e inefficienza, quindi una specie, se lo andiamo a rivedere ora, di Ucraina su scala più ridotta, ma ancora più violenta.

Questo piega un po’ l’ago della bilancia nel 1994, già prima della guerra in Cecenia.  Nel gennaio del 1994 l’Ucraina conferma di voler cedere tutto il suo arsenale nucleare e firmare l’adesione al Trattato di non proliferazione nucleare, e a fine anno Stati Uniti, Russia e Gran Bretagna firmano il memorandum di Budapest con cui si impegnano a offrire all’Ucraina assicurazioni in merito alla sua sicurezza. In questo stesso arco di tempo però Clinton annuncia che il processo di allargamento non è più un problema di “se”, ma un problema di “quando” e El’ cin va su tutte le furie perché comincia ad accusare Clinton di voler creare nuove linee di faglia in Europa, come durante la Guerra Fredda, e che quindi si entrerà in un periodo di cold peace, di pace fredda. 

Clinton è convinto di poter conseguire entrambi gli obiettivi, cioè di ottenere l’allargamento e mantenere buoni rapporti con la Russia. In parte ci riesce, con una serie di misure che incoraggiano il dialogo, come quando nel 1997, nel momento in cui si annuncia la prima fase di allargamento effettivo, viene creato il NATO-Russia founding act per la collaborazione tra l’Alleanza Atlantica e il Cremlino. Quanto alla decisione dell’allargamento, nonostante fosse stata presa nel 1994, la sua attuazione fu poi rinviata di due anni. Clinton infatti, si mise d’accordo con El’cin affinché non venissero prese posizioni di nessun tipo fino a quando El’cin non sarebbe stato rieletto: in altre parole Clinton lo aiutò nella sua rielezione al Cremlino nel 1996, rallentando il processo di allargamento. In questo i documenti sono un appoggio fondamentale perché ci fanno vedere come El’cin e Clinton ne parlano apertamente e Clinton gli promette che non si sarebbe parlato di allargamento fino a quando lui non fosse stato rieletto. 

Un secondo momento di rottura è la guerra in Kosovo nel 1999, perché viene percepita dai russi come un gesto contrario ai loro interessi. La Serbia è una loro tradizionale alleata e la NATO agisce senza un’autorizzazione preventiva del Consiglio di Sicurezza: questo è  potenzialmente pericoloso perché se la NATO interviene in Kosovo senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, i russi temono che potrebbe fare altrettanto per salvaguardare i diritti umani in Cecenia e attaccare direttamente la Russia. È un paragone molto forzato a mio avviso, però ci aiuta a capire la mentalità del Cremlino: c’è un momento simbolico quando il Primo ministro russo Evgeny Primakov sta viaggiando per andare negli Stati Uniti e gli arriva la notizia, il 24 marzo del 1999, che sono cominciati i bombardamenti in Kosovo: lui ordina al suo aereo di fare marcia indietro.

 

Editing a cura di Cecilia Coletti

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