È inutile parlare di convivenza e mostrare immagini di bambini israeliani e palestinesi che si abbracciano o di un’araba e un ebreo che si baciano dalla sommità di un muro: queste dimostrazioni d’affetto non sono che la copertura di un’oppressione, di una parte sull’altra, che dura da più di un secolo. Per capire cosa è accaduto e sta ancora succedendo in Palestina è necessario fare i conti con la questione coloniale, qualcosa che l’Occidente insiste a voler relegare alla storia ma che, invece, è più attuale che mai.
A seguito dell’operazione Alluvione al-Aqsa lanciata da Hamas contro Israele, gli occhi del mondo sono tornati sulla Palestina.
Politici, accademici, giornalisti e attivisti hanno iniziato a condividere il proprio punto di vista sulla questione; in molti casi non sfugge una visione parziale e distorta. Un esempio è The Decolonization Narrative Is Dangerous and False, articolo di Simon Sebag Montefiore (giornalista e storico specializzato in storia sovietica e russa) uscito il 27 ottobre su The Atlantic.
L’autore non si limita a portare avanti la solita argomentazione che equipara qualunque dimostrazione di solidarietà verso i palestinesi al supporto cieco per Hamas e le sue azioni violente, contribuendo a confondere antisemitismo e antisionismo.
Montefiore tenta anzi di dimostrare come la lettura coloniale della questione sia non solo sbagliata (perché gli ebrei vivevano nella Regione già da prima e i cittadini israeliani non sono tutti bianchi) ma anche pericolosa, dal momento che deumanizzerebbe Israele.
L’intero conflitto andrebbe ridotto a due popoli, entrambi con le proprie colpe, che si contendono un pezzo di terra.
La questione, tuttavia, non è finita qui. In realtà, per comprendere la guerra israelo-palestinese, e perché questa sia iniziata ben prima del 7 ottobre, parlare di colonialismo, eurocentrismo e razzismo è fondamentale.
Prima di arrivare al punto, è importante però tenere in considerazione un’altra delle chiavi di lettura solitamente adottate per guardare alla questione israelo-palestinese, quella religiosa.
La Palestina ha una fortissima importanza simbolica per le tre religioni abramitiche (giudaismo, cristianesimo e islam). In particolare, i racconti biblici la identificano con la terra promessa da Dio al patriarca Abramo.
Nonostante quest’ultimo venisse da Ur, nel moderno Iraq, la Palestina finì quindi per essere considerata la patria ancestrale di tutto il popolo ebraico. Anche nell’attuale dibattito pubblico, l’Antico Testamento viene individuato come il documento fondamentale su cui si fondano le rivendicazioni di quanti vedono in questo territorio il luogo d’origine degli ebrei e, più importante, l’area che spetterebbe loro di diritto. Ma questo solleva un paio di punti molto critici.
Da una parte, l’utilizzo di un testo religioso come fonte giuridica per reclamare un territorio costituisce non solo una chiara eccezione nella storia contemporanea ma anche un’evidente frattura sul piano del diritto internazionale.
Dall’altra, sebbene la presenza ebraica in Palestina nell’Antichità sia un fatto, tracciare un collegamento diretto tra un gruppo di persone di epoca contemporanea e un popolo vissuto secoli fa senza tenere conto di spostamenti, invasioni e contatti con altre genti è piuttosto fuorviante. Considerare i popoli dei blocchi monolitici, capaci di preservare nel tempo la propria “purezza”, è una fantasia completamente sconfessata a livello accademico, nonché una delle principali motivazioni alla base di molti dei regimi imperialisti e totalitari dello scorso secolo.
Finite le premesse, è tempo di considerare le vere ragioni del conflitto.
La storia dello Stato di Israele nasce nell’Ottocento, quando molte comunità che si immaginavano unite dalla condivisione di storia, lingua e tradizione stavano cercando di crearsi un proprio Stato, moderno e nazionale.
Tra questi c’erano gli ebrei, i quali vedevano nella costruzione di una nazione con confini delimitati una protezione dall’antisemitismo imperante in Europa. Ma le comunità ebraiche erano sparpagliate in tutto il mondo, all’interno di altri Stati, e non esisteva un territorio in cui fossero la maggioranza: era quindi necessario individuare un luogo in cui potessero riunirsi.
Sotto incoraggiamento del movimento sionista e dello slogan “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”, la conquista della Palestina iniziò il 30 giugno 1882, tramite una serie di migrazioni di massa e approfittando delle disastrose condizioni in cui riversava l’Impero ottomano.
Il territorio era già occupato, ma aderendo convintamente allo spirito colonialista allora imperante in Europa, gli ebrei del continente consideravano i popoli non bianchi dei barbari, che avrebbero solo beneficiato dell’arrivo di genti civilizzate.
In questa missione i sionisti furono fortunati, trovando in fretta un alleato molto potente: la Gran Bretagna.
Nel 1917, un anno dopo l’accordo segreto Sykes-Picot per la spartizione dei territori arabi dell’Impero ottomano, venne redatta la Dichiarazione Balfour: in questo documento l’allora Ministero degli esteri britannico proclamava il suo supporto per la creazione di un focolare ebraico in Palestina, terra che in base ai piani decisi con Parigi sarebbe stata assegnata a Londra.
Si tratta di uno dei momenti chiave verso la nascita di Israele. La più grande potenza coloniale dell’epoca aveva promesso a un popolo la terra di altri, senza preoccuparsi di consultare questi ultimi.
Dal momento che i locali non costituivano uno Stato riconosciuto a livello internazionale, il loro territorio per la Gran Bretagna poteva essere spartito a piacere. La fine della Prima guerra mondiale sancì il mandato britannico sulla Palestina: i principali promotori del progetto sionista avevano in mano la “terra promessa”.
Scontatamente, gli arabi si opposero a quello che, da apparente flusso migratorio particolarmente intenso, si stava trasformando in una vera e propria invasione con il benestare di Londra. Sebbene alcuni testi (come l’articolo Amalek, o la guerra santa di Netanyahu di Martino Diez) insistano sulla dimensione prevalentemente religiosa della questione, ignorando bellamente la presenza degli arabi cristiani, anche i palestinesi aspiravano ad avere un proprio Stato indipendente: i progetti sionisti e l’occupazione britannica erano un ostacolo per il raggiungimento di questo obiettivo.
Quando il dissenso prese una svolta violenta, al punto che i palestinesi accettarono di trattare con la Germania di Adolf Hitler in funzione anti-britannica, Londra realizzò l’insostenibilità della situazione.
Venne creata così una commissione d’inchiesta, presieduta da Lord William Robert Peel, per comprendere le cause della rabbia palestinese e tantare di elaborare una soluzione.
L’indagine rivelò ufficialmente, anche agli occhi dei britannici, che religione e antisemitismo non erano i principali fattori in gioco: semplicemente, l’imposizione del focolare nazionale ebraico implicava la negazione di uno Stato palestinese, oltre che l’estromissione degli arabi dalla propria terra.
Lo stesso Balfour, d’altronde, era ben consapevole che la promessa fatta nel 1917 negava ai palestinesi il principio di autodeterminazione, anteponendo a questi un altro gruppo non indigeno. Tuttavia, la Gran Bretagna decise di dare priorità al progetto sionista. Nel 1937, la commissione Peel decretò quindi la spartizione della Palestina tra arabi ed ebrei.
Il 29 novembre 1947 la commissione speciale UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) riprese le conclusioni della commissione Peel e sancì la spartizione della Palestina in due Stati.
La decisione venne definita un gesto riparatorio da parte dell’Occidente per gli orrori dell’Olocausto. Peccato che non sia stata l’Europa a pagare per questo orrore, ma la Palestina, che è stata trattata come una terra di nessuno da riempire secondo i capricci della comunità internazionale, quando una pluralità di storici ha dimostrato come la realtà fosse ben diversa.
Questa è solo una sintesi della nascita della questione palestinese come problema di colonizzazione. Ma anche solo un rapido sguardo suggerisce che la guerra e l’escalation che stiamo osservando in questi giorni non possono essere riassunte come una semplice disputa territoriale o legata a una qualche istanza secessionista.
La storia del conflitto israelo-palestinese è una storia che parte da una scelta occidentale. Una scelta che ha legittimato un’occupazione coloniale, con cui è stata data la precedenza ai diritti delle persone di origine europea rispetto a quelli dei nativi non bianchi. Creando una barriera, diventata con il tempo sempre più insormontabile, tra quanti potevano esercitare non più un diritto ma un privilegio, e quanti invece erano destinati a pagare le conseguenze di questa discriminazione.
La complicità degli Stati occidentali però non è finita nel 1948. Grazie a una legittimazione ferrea da parte di questi ultimi, anche recentemente la politica di violenza dello Stato di Israele è continuata nello spirito originario: quello di sequestrare diritti e territori a una popolazione che oggi è costretta a morire sotto i bombardamenti o a scappare dalle proprie case prima che si riducano a cenere.