Il fronte israeliano non finisce più

fronte israeliano lo spiegone

Siamo alla resa dei conti. Questo sembra dire Israele con i bombardamenti in Libano, il giorno più mortale nel Paese dai tempi della guerra civile tra anni Settanta e Ottanta. Più di 550 persone uccise e 1.600 ferite, decine di migliaia sfollate. A pochi giorni dalla detonazione dei cercapersone utilizzati da Hezbollah, Tel Aviv compie un altro passo in un’escalation di violenza senza freni. Insieme all’intensità del fuoco, è il suo perimetro a parlare.   

La maggior parte degli attacchi si è concentrata nelle zone orientali e meridionali del Paese. Ma a rimanere colpite sono state anche Jbeil, Kesrouan, Metn, la periferia sud di Beirut. Un teatro di guerra che non si limita al confine ma si apre a una costante espansione. Ora il bilancio delle vittime va drammaticamente aggiornato. E tutto fa pensare che non sarà l’ultima volta. 

Le ultime dal Libano 

I massicci bombardamenti avrebbero preso di mira circa 1.600 obiettivi che le autorità israeliane dichiarano legati a Hezbollah. Ma come nello scenario palestinese, le armi che lo Stato ebraico sostiene di puntare contro bersagli strategici mietono in larga parte vittime civili. Il partito di Dio ha risposto lanciando una serie di razzi verso il nord di Israele. La base aerea di Ramat David, l’aeroporto di Meggido e la base di Amos: tutti di importanza strategica per le Idf. L’attacco non sembra aver prodotto dei danni significativi. Bisognerà attendere per valutare a pieno la reazione di Hezbollah, che dopo gli eventi recenti si ritrova in una situazione estremamente delicata. Che potrebbe minare oltre alla sua operatività, la sua credibilità.

Quello delle ultime ore è infatti un assalto imponente all’infrastruttura di Hezbollah. Oltretutto, il suo apparato comunicativo era già stato messo a dura prova dalle esplosioni dei dispositivi elettronici che il 19 settembre scorso avevano ucciso 37 persone e ferito più di  4.000 tra Libano e Siria. Un attacco duramente condannato da 22 esperti delle Nazioni Unite, che lo hanno qualificato come una “violazione terrificante del diritto internazionale”. E che ha contribuito a diffondere il terrore per le strade libanesi, più affollate e meno sicure che mai.  

In un Paese che ospita milioni di rifugiati, il numero di sfollati è destinato ad aumentare. Prima dei bombardamenti, il portavoce delle Idf aveva invitato gli abitanti del Libano meridionale ad allontanarsi dalle posizioni di Hezbollah. Inoltre, come riporta L’Orient-Le Jour, erano stati gli stessi membri di Hezbollah a battere il pugno sulla porta dei residenti, in alcune aree critiche, per indurli a partire. Un esodo forzato dagli orizzonti indefiniti – e indefinibili. “Non abbiamo nessun posto dove andare” e “non abbiamo scelta” formano un combinato disposto ricorrente nelle testimonianze raccolte dai giornalisti sul campo. 

Scommesse e promesse 

Il fronte libanese è diventato sempre più caldo dopo l’annuncio di un nuovo obiettivo di guerra da parte di Netanyahu, a metà settembre. Le autorità di Tel Aviv hanno allora iniziato a sostenere come tra i fini principali delle operazioni militari vi fosse anche il ritorno dei residenti israeliani nel nord del Paese. Secondo il Taub Center sarebbero circa 67.500 le persone evacuate dalle città e dalle comunità settentrionali. La nuova ondata di violenze potrebbe rappresentare l’ennesima scommessa per il premier Netanyahu. Ormai disposto a tutto per convincere l’opinione pubblica israeliana della sua affidabilità. 

Le incertezze intanto permangono. Intervistato da Internazionale, Lorenzo Trombetta sostiene che ad attacchi di questa portata corrispondono, paradossalmente, anche nuove spinte negoziali. Al momento, anche se si registra un certo movimento per esempio dal Qatar, iniziative che possano far sperare in una risoluzione pacifica e condivisa da tutte le parti in causa stentano a decollare. 

Un ruolo importante potrebbero ricoprirlo le grandi potenze. Se solo volessero. Il principale indiziato a rigor di logica sarebbero gli Usa, visto il ruolo ricoperto a livello globale e regionale. Il presidente Joe Biden si è detto impegnato nella ricerca di una de-escalation (anche) nel Paese dei cedri. Eppure, come riporta The Intercept, a cadere sulla testa dei libanesi sono con ogni probabilità anche ordigni made in Usa. Con queste premesse, risulta “difficile” credere anche alle più ottimistiche dichiarazioni di intenti. Dopo l’ultimo anno, ancora di più. 

E il fiume in mezzo  

Il rischio di un’ulteriore escalation rimane quindi dietro l’angolo. Tel Aviv peraltro non ha escluso la possibilità di avanzare via terra sul suolo libanese, nel caso in cui Hezbollah non ritirasse le sue forze al di sopra del fiume Litani, nella parte meridionale del Paese. Una risorsa preziosa e contesa, già al centro dei momenti più cupi del conflitto tra i due Stati. Nonché della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza Onu, che però non ha portato a un’effettiva cessazione delle ostilità.  

Tra scommesse e promesse, ciò che risulta sempre più chiaro è che la vera sfida di Israele oggi è imporre a tutta la regione la legge della giungla, con la complicità dei Paesi occidentali e buona pace del resto del mondo. Allungare la stasi diplomatica in attesa della prossima mossa significa allungare la scia di sangue. Ma di questo, almeno nel prossimo futuro, possiamo star certi che continuerà a non rispondere nessuno. 

Fonti e approfondimenti

Ghaddar, H., “Will Hezbollah Choose to Keep Its Word—or Its Arsenal?”, Foreign Policy, 23/09/2024

Shamandafar, M., “Libano, Gaza e i rischi di uno stato di guerra permanente”, altreconomia, 24/09/2024

Trombetta, L., “Lo status quo liquido tra Israele e Hezbollah”, LIMES, 27/08/2024 

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