La scorsa settimana, Sergio Marchionne ha ribadito che entro il 2018 FCA raggiungerà in Italia, oltre agli obiettivi di natura finanziaria, anche la piena occupazione.
Dietro questo termine si celano anni di battaglie teoriche senza esclusioni di colpi. Le principali scuole di teoria che hanno acceso il dibattito sono in particolare i neoclassici e i keynesiani, mentre i classici (con cui principalmente si fa riferimento a Smith, Ricardo e Marx) impostavano la loro analisi sulle condizioni relative alla riproduzione dell’economia e alla distribuzione del prodotto tra le classi sociali.
In generale con il termine piena occupazione si fa riferimento alla piena occupazione della forza lavoro, ossia all’impiego totale dei lavoratori in cerca di un’occupazione.
Per capire meglio i termini del discorso bisogna subito chiarire la natura delle variabili in gioco. La forza lavoro è la parte di popolazione in età da lavoro – che cambia a seconda delle normative vigenti nel paese di riferimento – depurata degli inattivi, ossia coloro che non sono né occupati né cercano lavoro (perchè scoraggiati o perchè non ne hanno bisogno). il tasso di occupazione è la frazione di occupati sul totale della popolazione mentre il tasso di disoccupazione è la frazione di disoccupati sul totale della forza lavoro. Dietro a questa differenza si cela la possibilità per cui in uno stesso paese possano aumentare sia il tasso di disoccupazione che il tasso di occupazione: se, aumentano gli inattivi, si comprende bene che il tasso di disoccupazione cresce anche se cresce il numero di occupati sul totale della popolazione.
Tornando allo scopo di questo articolo, per capire cosa si intenda per piena occupazione è necessario fare un ulteriore distinzione. La disoccupazione ha cause diverse, ed è necessario scomporla nelle sue componenti per capire il piano su cui si gioca la battaglia teorica tra marginalisti (o neoclassici) e keynesiani. In primo luogo distinguiamo la disoccupazione frizionale che è quel tipo di disoccupazione che deriva da alcune imperfezioni nel mercato del lavoro, come il fatto che l’incontro tra domanda (chi cerca lavoratori) e offerta (chi è disposto a lavorare) non è immediata, ma necessita di un lasso di tempo affinché chi cerca lavoro venga selezionato da chi cerca lavoratori. I marginalisti associano il tasso di disoccupazione frizionale al tasso naturale di disoccupazione per le economie (4% negli USA, circa 8% in Italia). Altro tipo di disoccupazione invece è quella strutturale, che appunto non dipende dalle frizioni del mercato, ma che dipende dal fatto che, ai salari vigenti, la domanda di lavoro sul mercato è strutturalmente superiore all’offerta, senza che essa possa essere riassorbita. Questo secondo tipo di disoccupazione viene discussa da Keynes nel XIX capitolo della Teoria generale.
Con la piena occupzione non si intende la situazione per cui il tasso di disoccupazione è pari a 0, ma appunto che il suo livello sia pari a quello naturale, ossia che la disoccupazione sia solo di natura frizionale, cioè connaturata alla struttura economica del paese a cui ci si riferisce.
Nella tradizione neoclassica, l’obiettivo della piena occupazione è raggiunto tramite la flessibilità dei prezzi dei fattori produttivi (in teoria capitale e lavoro) e l’uguaglianza tra la domanda di produzione e l’offerta (c.d. Legge di Say), il che è possibile solo se gli investimenti eguagliano i risparmi: in un economia chiusa infatti, il reddito generato può essere destinato o al consumo o al risparmio, mentre la domanda aggregata è la somma di consumi e investimento. Affinché le due coincidano devono essere uguali risparmi e investimenti. Tuttavia, i modelli neoclassici non concepiscono la disoccupazione strutturale.
Se si assiste ad uno shock che aumenta l’offerta di lavoro – ad esempio tra gli anni ’70 e gli anni ’80 in Italia la presa di coscienza dei propri diritti spinse molte donne a ricercare la propria indipendenza economica tramite il lavoro, generando un boom nell’offerta di lavoro – la disoccupazione che si genera nel breve periodo viene assorbita con l’abbassamento dei salari: a salari più bassi le imprese saranno disposte ad occupare più forza lavoro, riducendo il tasso di disoccupazione fino al livello naturale.
Allo stesso modo, una diminuzione dell’offerta lavoro viene riassorbita con un aumento dei salari.
Keynes, che invece assisteva ad un sistema produttivo incapace di occupare al meglio la forza lavoro, criticava la visione neoclassica impostando la sua analisi sulla rigidità dei salari e dei prezzi.
Nel sistema produttivo prima della seconda guerra mondiale (quello che osservava l’economista inglese), per diverse circostanze, i salari e i prezzi erano fissi. In più Keynes aveva elaborato il principio della domanda effettiva, secondo cui risparmi e investimenti si eguagliano per puro caso, in quanto le decisioni di risparmio e investimento attengono a classi sociali ed interessi differenti. Una tale impostazione ammette la possibilità che si generino equilibri di sottoccupazione.
Se gli investimenti, che dipendono in sostanza dai tassi di interesse e dalle aspettative sull’andamento del mercato, non sono in grado di impiegare tutti i risparmi, la domanda sul mercato sarà inferiore all’offerta. Tale scompenso può essere riequilibrato o tramite la riduzione dei prezzi (che però sono fissi) o tramite la riduzione della produzione e quindi riducendo l’occupazione, visto che anche i salari sono fissi. In tale situazione, a quei salari, ci sarebbero altri lavoratori disposti ad offrire lavoro, ma nonostante ciò l’economia non è in grado di occuparli anche se si trova in equilibrio, che appunto è definito di sottoccupazione.
Anche se i classici, come abbiamo detto, non hanno centrato l’analisi sulla questione della piena occupazione, secondo Marx la piena occupazione non si raggiunge in quanto le imprese hanno bisogno di un alto tasso di disoccupazione per mantenere alta la competizione tra lavoratori e disoccupati (che Marx chiama esercito industriale di riserva) e tenere di fatto i salari al loro livello di sussitenza – il minimo che serve per sopravvivere.
In conclusione, la piena occupazione, anche se viene praticamente definita ed utilizzata trasversalmente nel linguaggio comune con un significato univoco, dipende dal modello teorico di riferimento. Tali differenze nell’impostazione di base si traducono in caratteristiche totalmente differenti a seconda del modello che si usa per interpretare la realtà.
Fonti e Approfondimenti:
http://www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/disoccupazione197.htm
John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936
Giorgio Gattei, Economisti in equilibrio (da Marshall a Sraffa), 2013