Welfare State: capire il male, trovare la cura

Quando si parla di Welfare State si fa riferimento alla presenza dello Stato nella gestione delle questioni economiche e sociali attinenti ad un determinato territorio. Come vedremo più avanti, nel corso degli anni si sono sviluppate diverse tipologie e diversi piani nei quali viene esplicato l’intervento statale.

Breve storia del Welfare State

A livello economico, il trionfo dello stato sociale si ebbe con uno dei più grandi economisti che il mondo abbia mai conosciuto: John Maynard Keynes.
A differenza dei suoi predecessori, Keynes, che ha vissuto a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale, faceva i conti con un sistema economico (regolato e descritto dalla Teoria Marginalista) in profonda crisi, in cui la disoccupazione assumeva un carattere strutturale e dove le differenze sociali erano particolarmente accentuate. Osservando questa realtà Keynes proponeva l’intervento dello Stato per regolare fenomeni macroeconomici quali la disoccupazione e la produzione industriale.

Le radici del Welfare State però risalgono a molto prima. Già nel tardo medioevo, infatti, con la promulgazione della Poor Law, in Inghilterra si cominciava a delineare un certo grado di assistenzialismo a favore di mendicanti e poveri. Tuttavia, il primo vero intervento strutturato si ebbe con la prima rivoluzione industriale. Nella prima metà dell’ 800, a causa della migrazione dei contadini dalle campagne alle città, le autorità inglesi dovettero fare i conti con un enorme quantità di poveri che si riversavano nelle strade delle città alla ricerca di una casa e di un’occupazione.  Fu così che nel 1834 venne emanata la New poor Law (che seguiva la Poor Law del tardo medioevo) in cui si prevedeva l’assistenza di alcune classi sociali svantaggiate. In questo contesto nacquero le prime assicurazioni sociali che garantivano la sicurezza sul posto di lavoro. In Germania, nel 1883, Otto von Bismarck introdusse la prima forma di assistenza sociale contributiva, in cui i lavoratori versavano una quota del loro salario per tutelarsi dagli infortuni sul mondo del lavoro. Tale misura riceve tuttora molte critiche, in quanto più che una vera e propria forma di welfare, tutelava i capitalisti dalle ingenti spese per la sicurezza sul lavoro, e proprio su pressione di questi ultimi venne applicata.

Sia la New Poor Law che la previdenza sociale di Otto Von Bismarck rientrano nel contesto del modello occupazionale di welfare, ossia rivolto a determinate categorie. Dal modello occupazionale, si distingue il modello universalistico: in questa direzione si può collocare il New Deal di Roosvelt degli anni ’30 del 900 e, per quanto riguarda il contesto europeo,  il piano Beveridge, varato in Inghilterra nel 1942 (da cui modello Beveridgiano), che estendeva i servizi sociali a tutti i sudditi inglesi in quanto tali, e non solo alla categoria dei lavoratori come previsto nel modello di welfare di tipo occupazionale.

Welfare State in Europa

Nel corso della storia, il Welfare State in Europa ha assunto caratteri differenti a seconda del contesto sociale, economico e territoriale nel quale si è sviluppato. In molti casi il modello occupazionale si è fuso con quello beveridgiano (o universalistico) dando vita a modelli misti di Welfare State.
In generale si distinguono 4 diversi tipi di Welfare State in Europa:

  1. Welfare liberale (Regno Unito e Irlanda):Il regime liberale, che deriva dal modello beveridgiano, si pone l’obiettivo di ridurre la povertà e l’esclusione sociale tramite l’erogazione di sussidi e l’adozione di programmi di assistenza, verificando l’effettivo bisogno. Gli interventi sono in genere di tipo categoriale, riferito a determinate categorie, in cui si delinea un forte carattere duale: welfare dei ricchi e walfare dei poveri. La mano dello stato è ridotta e si lascia molto spazio all’iniziativa dei privati per la socializzazione dei rischi. La sanità si finanzia tramite la fiscalità generale mentre le prestazioni monetarie sono finanziate dai contributi sociali. Il sistema pensionistico anglosassone è costituito da due pilastri, il primo redistributivo ad opera dello stato (poco cospicuo e che mira a fornire una base economica) ed il secondo a capitalizzazione, in cui si investono i contributi sul mercato dei capitali.
  2. Welfare conservatore (Francia, Germania, Austria e Olanda)
    Il regime conservatore, di origine bismarckiana, si concentra sulla protezione dei lavoratori e delle loro famiglie. tale modello si ispira ad un principio di sussidiarietà e dunque lo Stato interviene solo nel caso in cui la famiglia non riesca a provvedere ai suoi componenti. I sindacati agiscono attivamente nella gestione delle prestazioni di categoria in un sistema finanziato dai contributi sociali. La dipendenza dal mercato è ridotta. Il sistema pensionistico tedesco, così come quello francese, è fortemente previdenziale, ossia i benefici sono fissati in percentuale del salario percepito dai lavoratori, o di una sua media nel tempo.
  3. Welfare social-democratico (Svezia, Danimarca e Norvegia)

    Il modello social-democratico è di stampo universalistico, dunque si pone come obiettivo la protezione di tutti i cittadini, in base ai loro bisogni.
    Il rapporto col mercato è ridotto al minimo e si punta a raggiungere eguaglianza tra tutti i cittadini. Il sistema pensionistico danese, si compone di quattro pilastri, il primo è costituito dall’assegno di base che viene fornito a tutti i cittadini secondo gli anni di residenza; il secondo ed il terzo pilastro sono costituiti dalle pensioni supplementari pagata ai lavoratori con più di nove ore di lavoro a settimana che sono l’ATP (Arbejdsmarkedets Tillaegspension), finanziata in parte dai lavoratori (2/3) e in parte dai datori di lavoro (1/3), e l’SP, finanziata solo dai lavoratori; il quarto pilastro è costuito da uno schema pensionistico collettivo che differisce a seconda dei settori e del soggetto che eroga il servizio, se pubblico o privato.
  4. Welfare mediterraneo (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna)

    Nel regime mediterraneo, che viene definito anche “familista”, l’assetto culturale e sociale ha fatto si che l’assistenza e la cura degli individui è stata delegata quasi interamente alla famiglia. L’intervento statale è di natura residuale e si attiva solo quando le reti sociali primarie (come il volontariato e la famiglia) falliscono nel fornire adeguata assistenza ad individui in situazione di evidente bisogno. Tale approccio tende a ritardare la creazione di un’assistenza di base, ma soprattutto tende a creare situazioni di forte disuguaglianza.

Welfare, un nemico per il neoliberismo?

“Non esiste la società, esistono solo gli individui”

A partire dall’inizio degli anni’80, con l’elezione in America e in Gran Bretagna rispettivamente di Ronald Reagan e Margaret Tatcher, si andò verso la destrutturazione della società welfaristica che aveva caratterizzato l’epoca della Golden Age (ossia quell’epoca che vide per circa venti anni, tra il ’50 e il ’70, un basso tasso di disoccupazione nel mondo economico occidentale) a favore di una società di stampo individualista e neoliberista.

La Golden Age, oltre ad avere un forte impatto a livello sociale – le disuguaglianze si erano notevolmente ridotte – ebbe  ripercussioni anche in termini economici. La lotta dei movimenti operai portò a strappare salari sempre più alti, e con essi cresceva l’inflazione,  la spesa pubblica aumentò e così  il debito pubblico. Questo contesto creò l’humus adatto affinché si potesse diffondere la preoccupazione di una insostenibilità del debito. Con l’elezione di Reagan e di Tatcher, questa preoccupazione divenne priorità assoluta di buona parte dei governi occidentali. Sulla spinta degli anni ’80, delle paure e delle incertezze che avevano caratterizzato quegli anni, si cominciò a diffondere uno spirito fortemente liberista, volto alla destituzione di qualsiasi forma di welfare e che mirava alla realizzazione di un mercato deregolamentato, ossia senza intervento statale.

Si cominciò a diffondere il concetto di paese “virtuoso”, identificando con tale aggettivo paesi con una basso regime di spesa pubblica. In questo contesto, in Europa, si crearono le premesse per la ratifica del trattato di Maastricht che poneva vincoli specifici al rapporto tra il debito pubblico ed il PIL (che deve essere non superiore al 60%) e al rapporto tra disavanzo pubblico annuale e PIL (che deve essere nei limiti del 3%). Questi vincoli, ovviamente, hanno contribuito fortemente allo smantellamento del welfare – i famosi tagli alla spesa pubblica – a fronte di tasse sempre più alte. A livello politico, all’inizio degli anni ’90 veniva destituita l’Unione Sovietica, l’unica vera alternativa ai sistema di welfare appena descritti. La caduta dell’URSS ha minato la possibilità di pensare ad un modello di assistenza improntato su radici totalmente diverse.

Da un punto di vista pratico, l’onda di riflusso degli anni ’80 si è tradotta in un aumento esponenziale delle disuguaglianze economiche e sociali, con un tasso di disoccupazione raddoppiato rispetto al ventennio della Golden Age e con dei salari enormemente ridotti. Ad esempio in Italia, il tasso di disoccupazione è passato dal 7% della prima metà degli anni ’80 al quasi 10% dei primi anni ’90 (fonte OECD).

L’interrogativo che quindi bisognerebbe porsi è se sia davvero necessario sacrificare sull’altare del libero mercato, l’eguaglianza sociale ed economica ed il diritto ad una vita dignitosa, o se invece è necessario formulare uno schema alternativo, che prenda le distanze dai dettami neoliberisti e che ponga le radici nella ricerca della vera e concreta giustizia sociale.

 

 

Fonti e Approfondimenti:

https://data.oecd.org/earnwage/average-wages.htm

Fai clic per accedere a IPL2015_Welfare_1_it-1.pdf

Teoria generale dell’occuazione, dell’interesse e della moneta, Jhon Maynard Keynes, 1936

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