Gli scioperi in Argentina contro il gioco del default

Crisi Argentina
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Il 25 giugno scorso la Confederazione generale del lavoro (CGT), principale associazione sindacale argentina, ha convocato lo sciopero generale di tutti i lavoratori. Anche le associazioni dei consumatori e degli imprenditori hanno risposto positivamente all’appello, paralizzando per un giorno trasporti e servizi. Porti e aeroporti, treni, autobus, metro e taxi, banche, uffici, ospedali e centri educativi pubblici, servizi di raccolta rifiuti e stazioni di servizio hanno smesso di funzionare.

Dall’inizio del 2018, infatti, l’Argentina sta attraversando un complicata situazione finanziaria. L’inflazione è tornata alle stelle, con un conseguente rialzo dei tassi di interesse da parte delle banche centrali e un aumento più che significativo delle spese in bolletta, inoltre, il prestito di 50miliardi di dollari chiesto al Fondo Monetario internazionale dall’attuale governo per sanare l’enorme debito pubblico, ha risvegliato i terribili ricordi dei default finanziari che scandiscono l’alternarsi degli esecutivi nella seconda economia sudamericana. I vertici della CGT, che conta due milioni e mezzo di iscritti (la metà di quelli della CGIL, per intenderci), hanno dunque convocato lo sciopero dopo aver interrotto le consultazioni con il governo. Sul tavolo delle trattative la richiesta di bloccare i licenziamenti per sei mesi nel pubblico e nel privato, la riapertura delle commissioni sindacali in parlamento, la riduzione delle tasse sul reddito, il ripristino dei finanziamenti alla sanità, al settore energetico e dei trasporti e l’impegno da parte del governo di mantenere inalterato l’attuale Contratto di Lavoro.

Questo è il terzo sciopero generale per il governo Macri. Primo presidente eletto fuori dagli schieramenti dei due principali partiti argentini, quello Giustizialista di matrice Peronista e l’Unione civica radicale di centro sinistra, sconfigge il candidato peronista nel 2015 con la coalizione di centro destra Cambiemos. Con Macri si è aperta la stagione del neoliberismo argentino, il presidente ha adottato misure anti-protezionistiche, favorito alcune liberalizzazioni, abolito il controllo del cambio per attrarre investimenti stranieri, provocato una forte svalutazione della moneta nazionale. Allo stesso tempo, ha attuato un aumento delle tariffe e attratto investitori finanziari immettendo sul mercato buoni del tesoro a cento anni che garantiscono alti tassi di interesse e una buona liquidità alle casse statali.

Tuttavia, i risultati economici non sono stati dei migliori, in particolare nei primi 12 mesi di governo. Le misure macroeconomiche si sono tramutate in un fattore di recessione. Il primo anno di governo si è chiuso con il pil che ha segnato un -2,2%  con l’inflazione che è schizzata al 40% e con tutti gli altri indici negativi, incluso il deficit fiscale e gli investimenti esteri. Le cose sono lievemente migliorate all’inizio del 2017. Con la ripresa di alcuni comparti fortemente penalizzati nel 2016, come l’industria e l’edilizia, il calo dell’inflazione intorno al 23,5%, lontana dall’obiettivo del 15% fissato dal governo e tra le più alte al mondo e l’aumento del pil, al 2,7% secondo i dati forniti dall’Fmi. Nel 2018 però registriamo una nuova inversione di tendenza. L’inflazione è tornata al 30%, il PIL al 2,2% e diversi indicatori negativi stridono con le politiche neoliberaliste e l’ottimismo propugnati dal macrismo agli elettori: l’aumento della spesa pubblica, lo scarso afflusso di investimenti stranieri, la disoccupazione (sempre in crescita dal 2015) e l’indice di povertà (tra il 25% e il 30%). Quasi nulle invece sono state le politiche nel campo della giustizia e dell’istruzione, mentre sono addirittura arretrate in campo culturale, specialmente in quello della memoria e dei diritti umani. Indicativo è il caso della sentenza della Corte suprema sull’estensione del “2 per 1” anche ai crimini contro l’umanità e quindi ai repressori dell’ultima dittatura. Questa misura, volta a diminuire la popolazione carceraria, stabilisce che trascorsi due anni in prigione senza aver ricevuto una sentenza di condanna, i giorni di detenzione devono essere conteggiati come se fossero stati il doppio. In politica estera il registro è completamente cambiato rispetto alla precedente amministrazione. L’Argentina sembra tornata all’epoca del Washington Consensus rimettendo al centro della sua azione internazionale la relazione privilegiata con gli Stati Uniti e le politiche economiche tradizionali e l’Unione Europea, pur continuando a tenere saldi legami con Russia e Cina, rinnegando l’asse bolivariano e aprendo canali di intesa con le nazioni più a destra dell’America Latina.

Non stupisce quindi il clima di tensione esploso in questa stagione estiva 2018. Gli scioperi sono cominciati ad aprile, i primi indetti dai sindacati degli insegnanti, culminando con quello lanciato dalla CGT il 25 giugno contro le politiche economiche di Mauricio Macri. Questo è il terzo sciopero generale affrontato dall’attuale governo e il quarantareesimo dalla riconquista della democrazia nel 1983. La maggior parte dei quali sono avvenuti a causa delle numerose crisi economiche che hanno attraversato il paese di Maradona e Messi.

Durante il governo di Raúl Alfonsín (1983-1989) la CGT attuò 13 scioperi generali in cinque anni e mezzo, al ritmo di uno sciopero generale ogni cinque mesi a causa dell’iperinflazione causata dalle politiche economiche (default interno). Carlos Menem (1989-1999) nei suoi dieci anni di presidenza affrontò nove scioperi generali, una media di uno sciopero ogni 13 mesi. Con Fernando De la Rua (1999-2001) tutti i record furono spazzati via: nove scioperi generali in due anni, cioè uno ogni due mesi e mezzo, l’ultimo il 13 dicembre 2001, sei giorni dopo la sua caduta a causa di un’ondata di scioperi e manifestazioni popolari (default estero di 100miliardi di dollari). Eduardo Duhalde, nei suoi due anni come presidente ad interim, venne contestato da tre scioperi generali. Nestor Kirchner (2003-2007), leader popolare peronista e bolivariano, subì solo uno sciopero generale nei suoi quattro anni di governo. Durante il primo mandato di Cristina Kirchner (moglie dell’ex presidente) non ci furono scioperi generali contro il governo. Ma nel secondo, a partire dal 2011, ha affrontato 5 scioperi generali, in particolare durante il 2014 quando il paese crollò sotto il default “tecnico” per il debito estero.

Tecnico perché “tecnicamente” il governo argentino pagò il suo debito estero, ma a causa della decisione del giudice Thomas Griesa di New York, i 539 milioni di dollari che l’Argentina aveva depositato alla BNY Mellon per pagare i creditori, furono congelati. Il giudice Griesa intervenne nella vicenda interpellato da un gruppo minoritario di holdauts, cioè i gruppi di investimento che avevano acquistato a prezzi stracciati i titoli di stato dopo il default del 2002, che non accettarono la ristrutturazione del debito. L’Argentina propose il pagamento di una cifra inferiore al valore nominale del titolo acquistato ma comunque superiore al costo iniziale sostenuto dal creditore (cosa che comunque avrebbe dato loro un tasso di profitto netto del 150% e che venne accettata dal 90% degli investitori). Invece la sentenza Griesa (come richiesto dal fondo di investimento in causa Elliott Management) impose  all’Argentina di pagare il 100% dei valori nominali dei titoli più gli interessi. Ciò causò un nuovo default e la fine della presidenza Kirchener.

Il fatto che in 35 anni di democrazia siano stati completati quarantatre scioperi generali è un chiaro indicatore del fatto che, rispetto ad altri paesi, l’Argentina ha tra i suoi lavoratori un livello ancora molto alto di militanza e organizzazione (in Brasile non c’è stato sciopero generale per 21 anni: dal 1996 al 2017). Un Paese in lotta costante, tradizionalmente in lotta, che tiene in tensione la politica sui temi della distribuzione della ricchezza, della dipendenza dai capitali internazionali e rappresenta lo sfondo di uno scenario attraverso il quale attori diversi, situazioni e governi diversi passano, ma la discussione resta la stessa.

Fonti e approfondimenti:

 

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