L’influenza cinese in America latina spaventa Washington

@LoSpiegone

Gli Stati Uniti d’America e la Repubblica Popolare Cinese stanno arroventando una tensione latente riguardo ai Paesi dell’America latina. La tregua di 90 giorni sul rialzo dei dazi e delle pratiche di chiusura commerciale concordata da Donald Trump e Xi Jinping durante il G20 di Buenos Aires non arriva per caso. Contestualizzando gli ultimi sviluppi politici che l’America del Sud ha intrapreso, può emergere il gioco di influenze serrato che Washington e Pechino stanno portando avanti.

Il regalo di Trump

L’uscita degli USA per mano di Donald Trump dall’accordo internazionale TPP (Trans Pacific Partnership) – il cui obiettivo è di creare una zona di commercio senza dazi tra le due sponde del Pacifico – ha dato modo alla Cina di inserirsi prepotentemente in un’area geografica che per lungo tempo è stata monopolio d’influenza di Washington. Dopo due anni, le azioni invasive di Pechino hanno portato a ribilanciare i rapporti di forza, grazie a tre grandi componenti: economica, diplomatica e ideologica.

Il Dio denaro ha cambiato valuta

L’economia cinese ha dimostrato, negli ultimi decenni, di essere tesa verso uno sviluppo sempre più veloce e un arricchimento profondamente diverso da quello su cui le comunità agricole dell’era maoista si basavano. Oggi, i grandi investimenti del governo cinese attraverso le aziende di Stato, gli accordi commerciali per abbassare drasticamente (e spesso eliminare) i dazi con Paesi terzi, e i cambiamenti di riserve valutarie sia di moneta forte (come il dollaro o l’euro) che meno forte (come il won coreano o le valute sudamericane) sono le tre grandi strade con cui il RMB (o renminbi) – la valuta cinese – si sta facendo strada all’interno dell’economia e della finanza globale. 

Il Presidente argentino Mauricio Macri ha lasciato intendere che i dazi USA sulle merci cinesi non saranno applicati da Buenos Aires e che, anzi, nuovi accordi commerciali tra l’Argentina e Pechino sono stati conclusi o in fase di conclusione. Questa decisione – così come altre intraprese dal Presidente, e su cui Pechino ha fatto leva – è stata dettata anche dalla necessità dell’economia argentina di risollevarsi dopo un lungo periodo di crollo finanziario. Dalla fine dello scorso secolo, Buenos Aires ha dovuto affrontare numerosi default e, durante il 2018, l’ennesimo rischio ha provocato anche delle forti contestazioni da parte della popolazione verso il governo. 

All’inizio del 2018, la Cina ha aperto definitivamente il proprio mercato all’esportazione argentina di carne di manzo e di agnello. Le statistiche ci aiutano a capire come questo accordo sia stato determinato (anche) dal potere strategico immenso che il mercato cinese interno ha giocato nell’assoggettare la volontà di Buenos Aires. Nel biennio 2015-2017, l’export verso la Cina della pregiata carne argentina è aumentato di più del 50%, diventando il mercato più grande nel 2017.

Questa apertura commerciale – del valore di più di 35 milioni di dollari al mese – nel 2017 ha assicurato a Macri un’ancora di salvezza commerciale da usare per difendersi dalle proteste della popolazione. Inoltre, si è concluso un secondo accordo commerciale con la Cina riguardo all’export di ciliegie. Al di là della bilancia commerciale, la firma di questo accordo è importante perché le ciliegie erano state inserite tra i prodotti agricoli su cui Pechino aveva attivato il blocco degli import dal mercato statunitense. Anche altri due diversi accordi sull’export di miele e di carne di maiale sono in dirittura d’arrivo. Insomma, l’Argentina ha virato sicuramente la propria rotta dall’asse Atlantico all’asse Pacifico in materia commerciale, ritenendo la globalizzazione un fattore positivo per salvarsi da un’economia sempre meno forte.

La frizione tra USA e Cina ha inoltre provocato una serie di scivolamenti commerciali a catena che dal Nord America si stanno spostando verso il Sud del continente. Altro esempio calzante è il commercio di soia, prodotto sul quale Washington ha imposto dei dazi. Dopo la scelta di Trump, a settembre 2018, la COFCO – azienda pubblica cinese – ha iniziato la costruzione di 60.000 tonnellate di silos per l’immagazzinamento della soia. Non è un caso che questo investimento sia stato fatto nello Stato brasiliano di Mato Grosso, il più importante proprio per la soia.

La questione finanziaria

Gli investimenti cinesi in America latina si stanno intensificando notevolmente. Pechino si sta aprendo la strada nel continente attraverso due grandi strategie:

  1. L’apertura di società controllate di proprietà del governo attraverso tre delle quattro “Big Four“, le banche più importanti della Cina;
  2. Accordi di swap di valuta tra RMB e le valute sudamericane.

Le grandi banche cinesi sono un filo diretto che collega il mondo finanziario agli organi di partito in Cina. Negli ultimi anni, la presenza di società controllate cinesi in mano al governo di Pechino è aumentata notevolmente. Nonostante il Brasile abbia intrapreso la via nazionalista con Jair Bolsonaro, è l’unico Stato latino-americano ad aver accordato l’apertura di società controllate a tre banche cinesi (ICBC, BOC e CCB). Il futuro presidente brasiliano dovrà anche fare i conti con i più di 60 miliardi di dollari che la Cina ha investito nel Paese nell’ultimo decennio. Nel continente, queste società svolgono prevalentemente un’attività di prestito, entrando quindi così più facilmente nella vita dei latino-americani.

Gli accordi di swap, invece, si riferiscono alle azioni di scambio di valuta tra due Paesi per aumentare i forzieri di valuta estera che ogni Stato dovrebbe garantirsi, soprattutto nei confronti di valute più forti come dollaro, euro, pound, yen e RMB. Queste, infatti, sono considerate le valute più importanti del Fondo Monetario Internazionale che, nel 2016, ha inserito per la prima volta la valuta cinese all’interno dello Special Drawing Rights (SDR), una unità di conto dell’FMI.  

Il Paese che nell’ultimo decennio ha utilizzato di più questi accordi è proprio l’Argentina. Un primo swap avvenne nel 2009 – quando a Buenos Aires presiedeva la Kirchner – con l’obiettivo di ripianare alcuni debiti e pagare l’import di energia con una valuta più stabile del peso. Nel 2014 avvenne un secondo swap, proprio con l’obiettivo di pagare interamente (o quasi) gli scambi commerciali con Pechino nella valuta cinese: in questo modo, l’oscillazione del peso non avrebbe influito troppo sulla bilancia commerciale dei due Stati. Il 10 dicembre 2015 l’ammontare delle riserve estere nelle casse di Buenos Aires era di 50 miliardi di dollari. La Cina ha accordato uno swap del valore di 70 miliardi di RMB (poco più di 10 miliardi di dollari) fino al 2020. In questo modo, Macri continua a tamponare un’emorragia finanziaria che ha visto la partecipazione attiva e importante proprio di FMI, Banca Mondiale e Washington.

Nel marzo 2013, anche il Brasile ha chiuso un accordo per il valore di 30 miliardi di dollari di scambio di valuta con Pechino. Il valore dello scambio è stato molto contenuto rispetto all’economia dei due Paesi BRICS. Nonostante ciò,  l’interesse della Cina per l’America latina è cresciuto notevolmente proprio con Xi Jinping

Il mondo finanziario cinese quindi si è andato a inserire all’interno dei circuiti latino-americani, dove però la fragilità del MERCOSUR – il progetto di cooperazione economica dei Paesi dell’America del Sud – e l’ascesa dei populismi nazionalisti (soprattutto in Brasile) mettono a rischio il futuro sviluppo delle relazioni con Pechino. 

Taiwan ha sempre meno alleati

Non potendo utilizzare mezzi militari per conquistare l’isola di Formosa – rivendicata da Pechino come territorio cinese dal 1949 – la leadership comunista ha deciso di intraprendere la via della diplomazia. Tra il 2000 e il 2018, 13 Stati hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Taipei, riconoscendo la Repubblica Popolare Cinese come unico Stato legittimo a rappresentare la Cina. Questo fenomeno ha almeno tre connotazioni politico-strategiche:

  1. La maggior parte dei Paesi che riconoscono l’isola di Taiwan come Stato indipendente sono sparsi tra gli atolli del Pacifico e gli Stati dell’America latina;
  2. L’ascesa del Partito Democratico di Taiwan e la vittoria di Tsai Ing-wen nel 2016 hanno accelerato un processo di disintegrazione diplomatica, dovuto alla strategia sbagliata messa in campo;
  3. Donald Trump ha agito sulla questione taiwanese chiamando Tsai subito dopo la sua vittoria contro la Clinton, scatenando l’ira di Pechino e inasprendo il braccio di ferro tra Washington e Pechino sulla questione.

L’effetto domino innescato da Pechino

La potenza economica e la crescente influenza che Pechino sta esercitando sugli Stati dell’America latina hanno garantito una leva molto importante anche in campo diplomatico. Fin dall’inizio del 2017, ben 13 Stati su 22 totali che riconoscevano Taiwan come Stato autonomo erano Paesi latino-americani. Nel giro di un anno sono diventati 10, perché Panama, la Repubblica Dominicana ed El Salvador hanno unilateralmente interrotto le relazioni con Taipei e riconosciuto Pechino.

L’effetto domino innescato da Pechino però è il risultato di uno schema di alleanze sbilanciato e polarizzato. Infatti, la Repubblica Popolare Cinese è riuscita a scardinare la posizione di questi Stati con la sola forza degli investimenti e dei prestiti, una capacità che Taipei non è in grado di sostenere. Subito dopo l’allontanamento della Repubblica Dominicana, anche El Salvador ha cambiato campo – facendo intravedere come i Paesi caraibici potrebbero voltare le spalle a Taiwan uno dopo l’altro, in cambio di denaro utile a far quadrare i conti. 

Le conseguenze di uno scontro frontale

Se egli è sicuro in ogni settore, sii preparato a tenergli testa. Se egli è superiore in forze, evitalo.

Se il tuo antagonista è di temperamento collerico, cerca di irritarlo. Se fingi di essere debole, aumenterà la sua arroganza

Se cerca riposo, non dagli tregua. Se i suoi reparti sono uniti, cerca di separarli.

Attaccalo dove è impreparato; mostrati dove non se lo aspetta.

Sun Tzu ne L’arte della guerra interpretava così il piano strategico da mettere in pratica durante uno scontro bellico. La sua applicazione all’interno dello scontro tra Taipei e Pechino suggerirebbe al più debole di non iniziare un conflitto con il più forte, perché le possibilità di vittoria sarebbero molto ridotte. In questo caso però, Tsai Ing-wen ha sempre optato per un confronto diretto con Pechino sulla One-China policy del 1992. Infatti, questa politica su cui le due sponde dello Stretto di Taiwan si erano messe d’accordo affermava l’esistenza di una sola Cina: il vero nodo della questione era che entrambe le parti pretendevano di essere i legittimi rappresentanti di quella Cina. 

In controtendenza a quanto fatto fino al 2016 in termini di diplomazia, Tsai ha sempre sostenuto che Taiwan dovesse essere uno Stato indipendente, provocando l’ira di Pechino e le conseguenti azioni diplomatiche. L’avvicinamento di Panama – Stato strategicamente fondamentale – alla Cina ha sancito una sconfitta per Taipei, all’interno di una battaglia diplomatica giocata sempre sul filo del rasoio. Dalla primavera del 2017, infatti, i successivi Stati sono stati convinti molto più facilmente, e Tsai ha sempre accusato Pechino di agire con la “politica della diplomazia economica”.

La realtà, molto più complicata, suggerisce però che Taiwan sia la potenza militare più forte delle due, grazie agli accordi e al supporto degli Stati Uniti (che dal 1979 sono solo informali o indiretti). Pechino non ha intenzione di attaccare frontalmente Taiwan, quando ha a disposizione dei Paesi latino-americani che ritornano fortemente utili per limitare la potenza statunitense. Infatti, la Dottrina Monroe – elaborata il 2 dicembre 1823 – ha dato inizio a una dialettica che, ancora oggi, porta ad affermare come in più occasioni l’America latina si sia dimostrata “il giardino degli Stati Uniti”. In questo senso, lo strappo cinese a Taiwan degli Stati latino-americani (in termini di riconoscimento diplomatico) ha avuto come effetto quello di ferire anche gli Stati Uniti nel proprio “giardino”

Questa situazione complicata è sicuramente stata aggravata dalla presidente taiwanese Tsai, e resa drammatica dal presidente statunitense Trump. Per Pechino, riuscire a vincere il braccio di ferro con Taiwan in America latina significherebbe avvantaggiarsi nel campo delle frizioni commerciali ed economiche nei confronti di Washington

Fonti e Approfondimenti

Bilotta, N., Chinese Banks and Foreign Owned Subsidiaries Eye Latin American Markets: A New Challenge for the US?, IAI Commentary, 18:61 http://www.iai.it/sites/default/files/iaicom1861.pdf 

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