Donald Trump, il jacksoniano

Prometto a ogni cittadino di questo Paese che sarò il presidente di tutti gli americani”. È il 9 novembre 2016, a parlare è Donald Trump. Le parole sono le solite, quelle di rito, che vengono pronunciate dopo la vittoria. Ma questa volta assumono un significato diverso, fanno riflettere in molti dentro e fuori gli Stati Uniti. 

Sono solo parole di rito, dopotutto. Non si può rappresentare tutti e, se anche qualcuno ne avesse la possibilità, quel qualcuno non sarebbe lui. Eppure, ora è alla Casa Bianca, votato da milioni di americani. Ma chi rappresenta davvero Donald Trump?

Il serpente, la colomba e… Andrew Jackson

Appeso a una parete dello Studio Ovale si trova un quadro raffigurante uno dei predecessori del tycoon alla Casa Bianca: Andrew Jackson. È stato proprio l’imprenditore newyorkese a volerlo, su suggerimento del suo ex consigliere Steve Bannon, il quale sostiene di essere stato molto influenzato dalla lettura de “Il serpente e la colomba“, un libro di Walter R. Mead. 

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Incontro nello studio ovale; sulla parete nello sfondo, il ritratto di Andrew Jackson. Fonte: Flickr 

Nella sua opera, Mead attribuisce grande importanza a Jackson, decidendo di legare il suo nome a una delle quattro scuole di pensiero che hanno contribuito a determinare le decisioni politiche della storia repubblicana. Si può dire che queste scuole siano sempre esistite, in quanto corrispondono a sentimenti e visioni del mondo, diffusi a livello popolare, sin dalla nascita degli odierni Stati Uniti. 

Mead ha deciso di battezzarle con i nomi di quattro importanti presidenti, interpreti dei rispettivi approcci: Hamilton, Jefferson, Wilson e, per l’appunto, Jackson. Mi riferisco solamente alla tradizione “jacksoniana”, che a mio avviso raffigura un’efficace chiave di lettura per comprendere parole e azioni di Trump. Essa comprende i seguenti elementi distintivi: devozione al II emendamento, securitarismo, rigetto del multiculturalismo. Il lungo elenco di Mead non si esaurisce qui ma, per valutare eventuali analogie con Trump, è un buon punto di partenza. 

La visione jacksoniana e il mondo di Trump

Molto è stato scritto sul nucleo elettorale di Trump, su quegli abbandonati dalla globalizzazione, concentrati nelle aree meno dinamiche e più rurali del Paese, trovatisi ai margini dei processi produttivi della società globale. È in questo popolo in rivolta che si troverebbero i jacksoniani del XXI secolo. 

Pistole e libertà

Stando a Mead, essi considerano il diritto a portare armi, riconosciuto dal II emendamento, il vero emblema della libertà personale. Non solo: lo ritengono un segno di eguaglianza civica e sociale. Il cittadino americano si deve armare per difendere sé stesso, la propria famiglia e la propria nazione. In questo modo, egli acquisisce dignità agli occhi dei suoi concittadini, e anche qualcosa di più. Ad essere in gioco è infatti la concreta possibilità di partecipare: solo con la sicurezza si è liberi, solo se si è liberi si può partecipare alla vita della comunità. 

Nemmeno a dirlo, gli eredi di Jackson hanno una visione decisamente macho-oriented. All’inizio di maggio, nonostante le ondate di protesta di Never Again in seguito alla strage di Parkland, Trump si è detto pronto a bloccare ogni tentativo di riforma del II em. Inoltre, durante l’ultimo congresso della NRA, ha espresso parole al miele per quella che è stata una delle principali fonti di finanziamento della sua campagna elettorale: “Non avete mai dato per scontata la nostra libertà, e non avete mai smesso di lottare per la costituzione. Per questo vi dico grazie”.

Le aspettative di Never Again sono, almeno momentaneamente, rimandate. 

Parola d’ordine: sicurezza  

I membri della comunità jacksoniana condividono un legame affettivo molto intenso verso la famiglia e la comunità, assieme alla percezione quasi ossessiva dei pericoli che minacciano l’una e l’altra. 

Proprio per questo motivo l’obiettivo primario del governo deve essere la sicurezza. In particolare, la sicurezza della middle class bianca di religione cristiana, che incarna la comunità idealizzata dai jacksoniani. Veniamo così al secondo elemento, strettamente connesso al primo, della scuola di pensiero: il securitarismo, cui si accompagnano una fiducia incondizionata e una grande ammirazione verso le forze dell’ordine.

Il ruolo e il lavoro di polizia ed esercito sono tenuti in grande considerazione anche dal presidente Trump. Non a caso, la prima parte del discorso sullo stato dell’Unione è stata dedicata proprio agli sforzi delle forze dell’ordine. Chi si è sacrificato per mettere al sicuro le vite dei cittadini americani, ha detto Trump, ha mostrato “la bellezza dell’anima americana e l’acciaio nella colonna vertebrale dell’America”. 

È interessante notare come lo stesso sentimento animasse il presidente Jackson: nel primo messaggio annuale al Congresso parte del suo discorso fu dedicata all’importanza di un’accademia militare che “esercita una felice influenza sul carattere morale e intellettuale dei giovani americani”. Il fatto che Jackson fosse stato un comandante delle forze armate, prima di diventare presidente, non è un particolare di poco conto. Un passato nelle forze armate contribuirebbe a spiegare, secondo Mead, la forte dimensione emotiva del pericolo e l’attaccamento al diritto di detenere armi da fuoco. Non è questo il caso di Trump, che tuttavia condivide questa visione. 

Dentro o fuori

La percezione della sicurezza è legata ai confini della comunità: se il codice interno determina lealtà tra i membri e verso la patria, all’esterno regnano caos, criminalità e violenza. 

Per molto tempo, le minoranze etniche sono state escluse a prescindere, e tuttora i white americans sono una netta maggioranza. Questi sono i principali sostenitori dell’”americanizzazione”, l’idea secondo cui il carattere fondante della società americana sia da rintracciare nella capacità di assimilazione degli immigrati ai valori delle originarie comunità anglosassoni. 

I jacksoniani pertanto avversano fieramente il multiculturalismo, che considerano un ideale sbagliato, destinato a rimanere tale. Quando poi nel dibattito pubblico “multiculturalismo” diventa sinonimo di criminalità o, peggio, terrorismo, è necessario ridefinire chiaramente i confini della comunità.

Comunità è identità, in buona sostanza. In questi due anni di presidenza, Trump ha promosso una linea molto restrittiva sull’immigrazione, sostenendo la necessità di evitare l’ingresso a clandestini e terroristi per ragioni di sicurezza nazionale -tramite le misure riguardanti il confine messicano e il Muslim Ban-. 

Anche la scorsa settimana il presidente ha rilasciato una dichiarazione che si inserisce perfettamente in questa cornice: con le elezioni di midterm alle porte, Trump ha alzato i toni dello scontro, affermando di volere abolire lo Ius Soli previsto dal XIV emendamento. Un provvedimento paradossale, vista la storia degli Stati Uniti, ma che purtroppo riflette un sentimento che sta ottenendo grande consenso, non solo al di là dell’Atlantico.

Purtroppo per The Donald e i suoi amici europei ridefinire i confini non servirà ad aumentare la sicurezza. A riaffermare un’identità, indubbiamente, sì.

Fonti e approfondimenti

https://edition.cnn.com/2016/11/09/politics/donald-trump-victory-speech/index.html

https://www.theguardian.com/us-news/2018/may/04/trump-nra-convention-dallas-gun-control

https://www.whitehouse.gov/briefings-statements/president-donald-j-trumps-state-union-address/

https://millercenter.org/the-presidency/presidential-speeches/december-8-1829-first-annual-message-congress

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