Lo Spiegone Internazionale: intervista a Debbie Bookchin

Nella prima giornata del festival Internazionale a Ferrara, abbiamo partecipato all’incontro “Le nostre donne sul campo”, organizzato da Radio3Mondo. Debbie Bookchin era una delle donne presenti sul palco. Giornalista, scrittrice e figlia del famoso filosofo anarchico Murray Bookchin, ci ha spiegato quali siano i punti di contatto tra anarchia ed ecologismo e cosa significhi oggi essere anarchici negli Stati Uniti.

Può spiegarci che rapporto ci sia tra anarchia ed ecologismo?

Credo sia estremamente importante riuscire a far comprendere a tutti che non riusciremo a risolvere le problematiche ambientali senza prima risolvere quelle socio-economiche. L’attuale crisi ambientale non dipende soltanto dall’etica del consumo selvaggio, del produci-o-muori, tipica del capitalismo e del neoliberismo, ma è direttamente connessa al modo in cui ci rapportiamo con l’ambiente naturale e tra noi esseri umani. La filosofia anarchica, organicamente anti-statalista, sottolinea quanto alcuni Stati completamente asserviti a logiche neoliberiste e patriarcali sottostimino il loro impatto sull’ambiente e, di conseguenza, siano deleteri per l’ecosistema. Per questo, mentre pensiamo a come risolvere questa crisi ambientale, siamo obbligati a riscoprire il concetto di politica e del fare politica, siamo obbligati a reinventare la nostra relazione con gli Stati e, sopratutto, a realizzare quanto il concetto stesso di Stato sia inadeguato al mondo moderno e vada superato rafforzando e responsabilizzando le comunità locali.

Cosa significa essere anarchici nella società digitale?

Non sono un’esperta della società digitale, ma credo che l’avvento dei social media abbia consentito l’espansione e la diffusione del pensiero anarchico, riuscendo a superare i media tradizionali per parlare direttamente con le persone. Essere anarchici oggi significa comprendere, conoscere, la propria storia politica e il proprio passato rivoluzionario, per riuscire a riformulare daccapo la società in cui vogliamo vivere e istituzionalizzarne il cambiamento. Non possiamo limitarci a protestare, siamo incaricati di ricostruire creativamente la società. I curdi, per esempio, stanno procedendo in questa direzione ed è entusiasmante osservare come stiano cercando di riformulare la politica, creando un sistema in cui le persone siano direttamente coinvolte.

Ciò a cui vorrei assistere è un’evoluzione che porti gli anarchici a diventare quello che mio padre chiamava “Communalists”, cioè un profondo coinvolgimento istituzionale a livello locale che produca cambiamenti e trasformazioni durature nel quadro politico-sociale.

Secondo lei è corretto dire che le élite vivano in un sistema anarchico e, nello stesso tempo, delegittimino questo modello tra le persone comuni?

Hai ragione, è esattamente quello che stanno facendo. Detesto dover usare la parola “anarchia” in questo contesto. Userei piuttosto il termine “caos”. Le élite mondiali vivono in una caotica pletora di possibilità per loro stessi e uno dei motivi per cui possono farlo è che la democrazia rappresentativa semplicemente non funziona per tutti gli altri. La nostra società, quella che consideriamo la tipica democrazia rappresentativa, dove vai alle elezioni per votare qualcuno che speri faccia la cosa giusta, ma dove nessuno ha un potere reale a livello locale, significa sostanzialmente che la democrazia funziona per pochi e non per tutti. E ciò non può nemmeno più essere definito democrazia. Sono convinta che questa forma di democrazia rappresentativa abbia raggiunto la sua data di scadenza, allo stesso modo in cui l’hanno raggiunta le monarchie nella gran parte dei Paesi. Essendo un qualcosa di inadeguato, dobbiamo pensare a qualcosa di nuovo e differente. Ciò che intendo con “nuovo e differente”, in relazione all’anarchismo, è emancipare, responsabilizzare e dare potere alle persone come individui. I singoli devono essere in grado di rappresentare loro stessi all’interno delle comunità, nelle assemblee locali e poi delegare altri al livello successivo. “Delegare” un rappresentante è diverso dal semplice “votare” qualcuno che dice “ti rappresenterò”. Essere un delegato significa essere responsabili delle proprie scelte in vece di altri, significa dover rendere conto a chi ti ha concesso la delega ed eventualmente essere richiamato se non stai svolgendo il tuo lavoro nella maniera richiesta. Questo è il sistema che stanno sperimentando i curdi in Rojava e potrebbe essere un grande esempio per noi.

Come spiegherebbe la dottrina anarco-ecologista alle nuove generazioni?

Quando penso all’ideologia anarco-ecologista, penso a ciò che mio padre Murray Bookchin chiamava “ecologia-sociale”, cioè un insieme di idee che criticano la società attuale offrendo, nello stesso tempo, un punto di vista alternativo. Per questo vorrei vedere i giovani anarchici andare oltre alla critica del sistema, diventando più coinvolti nella ricostruzione della società, il che significa occuparsi delle realtà locali e perfino entrare a far parte delle amministrazioni locali. Capisco che per molti anarchici questo sembri impossibile, ma credo che dopo più di cinquant’anni di esilio dalle istituzioni, non possiamo permetterci di proseguire in questa direzione. Almeno a livello locale, abbiamo il dovere di essere direttamente coinvolti. Questo è il senso dell’ecologia-sociale: ecologia come modello di integrazione e consapevolezza.

Per chi fosse interessato ad approfondire meglio questo argomento, consiglio la lettura di un libro di mio padre, tradotto l’anno scorso in italiano, intitolato “La prossima rivoluzione”.

Come si pone il movimento anarchico americano rispetto ai Democratic Socialist of America?

Credo sia assolutamente necessario lavorare insieme e dialogare. Cercare e trovare un modo per lavorare fianco a fianco e provare a incorporare il metodo di approccio usato dai DSA. Oggi negli USA esiste un gruppo chiamato “Symbiosis Revolution” che sta cercando di fare esattamente questo, unendo assieme differenti gruppi anarchici e non. Si è da poco concluso il loro congresso a Detroit e il messaggio che hanno mandato è quello di voler trovare un modo per comunicare i propri valori a un pubblico più ampio, proprio nelle comunità locali, lavorando a un’alternativa allo sviluppo incontrollato tipico del neoliberalismo e a politiche favorevoli all’immigrazione, cercando di formare ed educare le persone riguardo all’ecologismo, all’importanza dei diritti umani e, in qualche modo, aiutarle a emanciparsi e responsabilizzarsi. Osservare questi gruppi, alcuni più socialisti e altri più anarchici, lavorare insieme, all’interno delle comunità locali, mi rende molto ottimista rispetto a una loro proficua e duratura collaborazione.

Quale ruolo giocano le associazioni anarchiche all’interno della formazione della società civile statunitense?

I gruppi anarchici negli USA hanno diverse priorità e la pensano diversamente e questo è un bene: ognuno deve occuparsi dell’obiettivo che preferisce. Credo però che dovremmo comunicare di più, formandoci vicendevolmente, lavorando fianco a fianco, creando gruppi di studio per comprendere meglio la nostra storia e la realtà in cui ci troviamo. Hannah Arendt diceva che le assemblee locali sono il “tesoro nascosto” dei movimenti rivoluzionari e io credo fortemente in questo concetto e che esso debba essere completamente assimilato e compreso. Dobbiamo reinventare il concetto di “fare politica” e capire cosa debba diventare. Anche vivendo in un mondo digitale possiamo ritornare a questo livello di politica locale di cui parlava la Arendt. Grazie agli strumenti digitali possiamo avere referendum online, assemblee e gruppi che dialogano in questo spazio virtuale e creare nuovi luoghi di riunione per le nostre comunità. Tramite questi mezzi, credo, le persone potranno ricominciare a capire cosa significhi essere parte attiva e responsabile della società.

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