La natura come entità politica: il razzismo ambientale

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Nell’autunno del 1982, un gruppo di abitanti della contea di Warren, nel North Carolina, protestò per sei settimane contro l’installazione di una discarica di rifiuti tossici. L’intera comunità intentò delle azioni legali affinché i rifiuti di policlorobifenili (PCB), una sostanza cancerogena, non fossero depositati in quel luogo. Due anni più tardi la loro richiesta fu rigettata dal tribunale e più di cinquecento persone, compresi alcuni parlamentari locali e federali, furono arrestati a seguito di manifestazioni, sit-in, azioni di disobbedienza civile e blocchi stradali. Nonostante gli sforzi, il movimento non riuscì a bloccare il progetto e il sito venne decontaminato solo negli anni Duemila.

Ciò contro cui manifestavano i contestatori non erano solamente l’inquinamento ambientale del suolo e dell’acqua e le ripercussioni sulla salute pubblica. Man mano che il movimento si allargava e diventava più politico, il dissenso si concentrava sul perché fosse stato scelto di seppellire i rifiuti tossici proprio in quel luogo. All’epoca, infatti, la contea di Warren era composta dal 64% di neri. Nelle vicinanze della discarica, la percentuale saliva al 75%. La protesta, partendo da un problema a livello locale, voleva dimostrare come l’ingiustizia di localizzare rifiuti tossici in aree specifiche fosse endemica negli Stati Uniti.

La nascita di un nuovo movimento

L’episodio della contea di Warren è considerato come l’atto di nascita del movimento per la giustizia ambientale. Sviluppatosi negli Stati Uniti, esso dispone di significative ramificazioni internazionali. La sua caratteristica principale è quella di mettere in relazione il sociale – classe, genere, razza – con la natura, mostrando come le conseguenze negative dello sviluppo capitalista non siano subite allo stesso modo e nella stessa misura da tutti i settori della popolazione. A differenza del movimento per la giustizia climatica, il movimento per la giustizia ambientale pone la questione delle disuguaglianze ecologiche non a livello globale, ma a livello dei singoli Paesi. Oltre ai problemi legati agli effetti del cambiamento climatico, di loro natura più globali anche se con ripercussioni specifiche a livello locale, il movimento si occupa perciò di problemi legati alla gestione di rifiuti tossici, all’inquinamento, al mancato accesso alle bellezze naturali e alla sicurezza sul lavoro.

Le disuguaglianze ecologiche, nel corso della storia, sono state sempre lasciate in secondo piano. Maggiore rilevanza hanno sempre avuto altri tipi di disuguaglianze, a causa di diversi fattori: la scarsa considerazione delle questioni ambientali da parte di importanti settori della società (in particolare il movimento operaio) e l’idea che la natura sia un bene universale accessibile a tutti, senza distinzione di classe, razza o genere. Tantissimi episodi in tutto il mondo dimostrano, purtroppo, che non c’è nulla di più falso.

 

Il razzismo ambientale

Nel 1987, lo studio Toxic Waste and Race in the United States, realizzato dalla Chiesa progressista nera United Church of Christ, stabilisce in maniera analitica ciò che gli abitanti del North Carolina avevano vissuto sulla propria pelle: la razza è uno dei fattori, spesso il principale, che negli Stati Uniti determina la localizzazione delle discariche tossiche. Questo studio mette perciò in evidenza l’esistenza di un “razzismo ambientale” nel Paese, espressione coniata dal reverendo Benjamin Chavis, figura importante del movimento per i diritti civili e vicino a Martin Luther King.

La centralità della questione razziale all’interno del movimento per la giustizia ambientale è tutt’altro che riconosciuta da parte delle tradizionali organizzazioni ambientaliste americane. Fu esemplare in questo senso, negli anni Ottanta, il rifiuto  di unirsi alla protesta contro l’installazione di un inceneritore nel quartiere povero di South Central, a maggioranza nera e ispanica, da parte del “Group Ten”, che riuniva le più grandi organizzazioni ambientaliste del Paese (il Sierra Club, la Audubon Society, la Wilderness Society, il WWF e l’Environmental Defense Fund). La giustificazione di queste associazioni fu che non fosse un problema “ambientale”, ma di “salute pubblica”. Un problema “ambientale”, per loro, si presentava solo attraverso la minaccia alla wilderness, alla natura selvaggia distrutta e contaminata dall’uomo.

L’episodio di South Central mostra quindi come l’“ambiente” passi per essere estraneo ai rapporti sociali. In realtà, esso è “la cosa più politica che ci sia” (Keucheyan). Questa barriera tra la natura e il sociale equivale a costruire una barriera tra il rurale e l’urbano. Tuttavia, negli Stati Uniti come in altri Paesi, è nelle città, nel loro centro come nelle loro periferie, che si concentrano le classi popolari e le minoranze etniche. Ed è per questo motivo che l’obiettivo del movimento per la giustizia ambientale è di abbattere questa barriera, rendendo la natura e il sociale, il rurale e l’urbano, aspetti interconnessi e imprescindibili tra loro.

 

Un fenomeno non solo americano

Sbaglieremmo a pensare che il razzismo ambientale sia un fenomeno prettamente statunitense. In realtà, esso si manifesta, seppure in forme diverse, in ogni parte del mondo. Ad esempio, in Gran Bretagna, ne esiste un’espressione figlia della storia nazionale: il razzismo rurale. Storicamente è sempre stata la gentry, l’aristocrazia terriera, ad avere un rapporto privilegiato con il countryside, considerato elemento determinante nella costruzione delle classi dominanti inglesi. Al contrario, le classi popolari e i popoli dell’impero coloniale divenute minoranze razziali, sono sempre state escluse da questo rapporto privilegiato. Anche in Gran Bretagna perciò, a partire dagli anni Ottanta, alcune organizzazioni britanniche vicine al movimento per la giustizia ambientale organizzano dei viaggi nel countryside per avvicinare queste minoranze agli ambienti naturali cui sono normalmente estranee.

Anche in Francia, le disuguaglianze ambientali dell’Île-de-France presentano una dimensione razziale, che si manifesta per esempio nel caso del saturnismo, una malattia antica ricomparsa a Parigi negli anni Ottanta. Un’inchiesta del 2002 condotta per conto del comune di Parigi, ha censito più di un migliaio di edifici insalubri nella capitale. L’80 per cento delle persone che li abitano sono immigrati africani sub-sahariani, e il 40 per cento di essi ha un reddito inferiore ai 300 euro.

Il saturnismo, inoltre, non è una malattia riapparsa solamente in Francia. L’epidemiologia comparata ha dimostrato infatti che se in Francia a esserne affetti sono gli africani sub-sahariani, in Gran Bretagna lo sono i bambini di origine indiana o pakistana, e negli Stati Uniti i bambini neri. Non è quindi questione di cultura. È una questione propria della condizione di minoranza immigrata, della segregazione spaziale e della posizione di classe.

 

Perché parlare di razzismo ambientale, e come?

Nonostante la diffusione di movimenti per la giustizia ambientale, l’idea che i problemi “ambientali” si oppongano alle rivendicazioni delle minoranze etniche e delle classi più povere è ancora profondamente radicata. E in Italia, anche nel mondo accademico, i temi della giustizia e del razzismo ambientale sono ancora poco sviluppati. Sebbene le disuguaglianze precedano di molto la crisi ecologica, essa tende inevitabilmente ad aggravarle. Perciò, in un momento in cui le disuguaglianze continuano ad aumentare, è necessario parlare di queste ultime in tutte le loro forme.

Il razzismo si sviluppa infatti a livello individuale e ideologico, a livello economico nelle logiche di mercato e di allocazione dei beni, ma anche a livello istituzionale, nelle scelte politiche attuate dai singoli Stati, per esempio in materia di gestione dei rifiuti tossici. Più si passa dal livello micro al livello macro-sociale, più le dinamiche si fanno astratte, lontane dalla volontà dell’individuo, senza però smettere di essere razziste. È necessario perciò parlare di razzismo in maniera sistemica, per comprendere sempre meglio la dimensione a più livelli del fenomeno e avere strumenti più potenti per sconfiggerlo.

 

 

Fonti e approfondimenti

The Guardian. Nina Lahkani, “Racism dictates who gets dumped on’: how environmental injustice divides the world“, 21 Ottobre 2019

Francesca Rosignoli, Environmental Justice in Italy”, The Open Journal of Sociopolitical Studies, 15 Novembre 2015

NRDC. Brian Palmer, The History of Environmental Justice in Five Minutes, 18 Maggio 2016

Viola Carofalo, “Razmig Keucheyan. La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica”, 2019

 

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