Quando parliamo di affirmative action (in italiano, azione positiva) ci riferiamo a uno strumento che, in maniera attiva, mira a promuovere la partecipazione di persone appartenenti a minoranze etniche, di genere, di orientamento sessuale e sociali in contesti in cui tali gruppi sono sottorappresentati. L’azione positiva viene motivata dai proponenti con il tentativo di rimediare agli effetti di una discriminazione di lunga data nei confronti di queste comunità, ad esempio riservando quote specifiche ad appartenenti al gruppo che si vuole tutelare. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, si è parlato spesso di questa pratica negli Stati Uniti, soprattutto nell’ambito dell’istruzione universitaria e il dibattito è ancora acceso.
La storia delle affirmative actions e il ruolo della Corte Suprema
A seguito dello storico Civil Rights Act (1964), con un ordine esecutivo del 1965, il presidente Johnson impose ai datori di lavoro che ricevevano contributi dal governo federale di assicurare, concretamente, eguali opportunità di impiego ai propri dipendenti. Allo stesso modo, nel caso di college e università statunitensi beneficiari dei medesimi contributi, il governo richiese che fossero garantite le stesse opportunità a studenti bianchi e afroamericani, mentre la legislazione sui diritti civili stava smantellando le fondamenta legali per le discriminazione. Il trattamento discriminatorio subito dalla comunità afroamericana, infatti, ha storicamente impedito ai suoi membri di accedere a un’educazione superiore paragonabile a quella dei bianchi: le università statunitensi hanno sempre adottato criteri basati, in teoria, sulla meritocrazia laddove però l’accesso alle scuole considerate d’élite era, ed è, spesso impossibile per chi viene da contesti più svantaggiati. Le misure di affirmative action servirebbero quindi a bilanciare questa disparità, in un sistema che non può essere considerato davvero meritocratico se una parte della popolazione viene ancora ostacolato dalle profonde disuguaglianze che attraversano gli USA. Successivamente, la politica dell’affirmative action è stata ampliata per essere applicata anche alle donne, agli ispanici e ai nativi americani.
Alla fine degli anni Settanta, la pratica di riservare posti per gli appartenenti alle minoranze nelle graduatorie di accesso all’università arrivò in tribunale: l’affirmative action venne contestata come “reverse discrimination” (discriminazione inversa). Una delle prime cause fondamentali in questo campo ebbe inizio con il ricorso di Allan Bakke, un trentacinquenne bianco non ammesso per due volte alla scuola di medicina nonostante un punteggio molto alto. Bakke sosteneva di essere stato ingiustamente respinto a causa del sistema di quote riservate applicato dall’università, in violazione del XIV emendamento della Costituzione, nonché del titolo VI del Civil Rights Act, che vieta alle istituzioni che ricevono fondi federali di discriminare in base alla razza. Nella pronuncia Regents of the University of California v. Bakke (1978) la Corte Suprema, con la determinante opinion del giudice Powell, ha stabilito (con una decisione a maggioranza 5-4) che non è possibile riservare posti a soggetti appartenenti a minoranze se in questo modo viene negata ai candidati bianchi la possibilità di concorrere per quei posti. Sono però consentite selezioni che prendano in considerazione, insieme ad altri elementi, anche la razza o l’etnia dello studente, valutati in base allo strict scrutinity (controllo rigoroso). Questo perché, secondo Powell, la possibilità di utilizzare affirmative actions risponderebbe alla necessità, garantita dal I emendamento, di selezionare il corpo studentesco in modo da ottenere un proficuo e diversificato ambiente accademico. L’opinione del giudice Powell ha modificato il concetto di azione positiva, andando in parte contro lo spirito della pratica concepita come strumento di promozione dell’uguaglianza sostanziale.
Eppure, la posizione espressa da Powell nel caso Bakke è divenuta maggioritaria nel 2003, con la sentenza pronunciata nel caso Grutter v. Bollinger. In tal caso, la Corte ha stabilito che la diversità del corpo studentesco è un interesse primario dell’ordinamento, idoneo a giustificare l’applicazione di politiche di ammissione legittime, che prendano in considerazione anche la razza del candidato, solo però temporaneamente. L’opinione di maggioranza, data in questo caso dalla giudice O’Connor sulle fondamenta tracciate da Powell, ha stabilito che la preferenza razziale come metodo per combattere le disuguaglianze dovesse essere necessariamente transitoria, poichè il suo successo non l’avrebbe più resa necessaria con il passare degli anni. Non sembra però che questo sia accaduto, dal momento che oggi, secondo un report del New York Times, la percentuale di matricole appartenenti alla comunità afroamericana nelle scuole d’elite è rimasta sostanzialmente invariata rispetto al 1980.
La sentenza più recente in tema di affirmative action nell’istruzione terziaria statunitense è Fisher v. Texas del 2016. Le querelanti, due studentesse bianche a cui è stata negata l’ammissione all’Università del Texas nel 2008, hanno portato la causa davanti alla Corte Suprema, sostenendo che l’Università le avesse discriminate per la loro razza, in violazione della Equal Protection Clause prevista dal XIV emendamento. Inizialmente, la Corte ha rinviato la decisione alla Corte d’Appello del Quinto Distretto, ritenendo che la stessa, nel giudicare la legittimità della politica di ammissione dell’Università del Texas, avesse male interpretato i criteri stabiliti dalla sentenza Grutter v. Bollinger. Dopo la conferma della legittimità del programma, la Corte Suprema ha confermato tale decisione, stabilendo che il controllo rigoroso dei canoni previsti era stato soddisfatto e non sussisteva alcuna violazione dei diritti costituzionali nei confronti di Fisher e della sua collega.
La situazione attuale
La questione delle affirmative actions è attualissima. A febbraio, il Dipartimento di giustizia ha ritirato una causa intentata contro l’Università di Yale dall’amministrazione Trump, che l’accusava di discriminare gli studenti bianchi e asiatico-americani, sottoponendoli a standard di ammissione più severi rispetto ai colleghi appartenenti alle minoranze. L’Università della California, che comprende molti istituti tra cui la prestigiosa Berkeley, nel 2020 ha riabilitato le affirmative actions per riservare corsie di accesso preferenziali agli studenti afroamericani, che aveva eliminato nel 1995. Nei corsi universitari californiani infatti, gli studenti asiatico-americani sono il primo gruppo etnico con il 36% delle matricole, seguiti dagli ispanici e dai bianchi, mentre quelli afroamericani rappresentano solo il 5%. Proprio per combattere questa tendenza, l’Università ha deciso anche di abolire i test standardizzati per gli esami di ammissione, considerati discriminatori nei confronti degli afroamericani e degli studenti economicamente svantaggiati. Queste scelte hanno sollevato molte polemiche soprattutto da parte degli studenti asiatici, che temono a loro volta di essere discriminati.
Students for Fair Admissions, un’organizzazione contraria all’applicazione della politica di affirmative actions nelle università americane, nel 2014 ha intentato una causa contro l’Università di Harvard, sostenendo che le ammissioni “consapevoli della razza” dell’Università violavano il titolo VI, sezione 2000d del Civil Rights Act. I giudici in primo grado e in appello hanno ritenuto l’operato legittimo dell’Ateneo, non riscontrando alcuna discriminazione. Ma la causa è ancora in corso: proprio nel febbraio di quest’anno, la SFFA ha presentato il proprio ricorso alla Corte Suprema.
Come abbiamo già visto, il sistema scolastico statunitense tende ad essere molto elitario e a riprodurre, di conseguenza, le disuguaglianze già esistenti, non permettendo un miglioramento dello status di alcuni soggetti, andando a infrangere il cosiddetto sogno americano. La discriminazione parte dai primi anni di scuola, con la netta differenza tra istruzione pubblica e privata, sia dal punto di vista della qualità che del costo, essendo di fatto inaccessibile per gli appartenenti ad alcune comunità. Appare quindi necessario permettere ad alcune istituzioni di adottare politiche in parte divisive come quella delle affirmative actions, dal momento che la situazione delle minoranze nel Paese non sembra essere migliorata.
Fonti e approfondimenti
“Affirmative action”, Encyclopaedia Britannica.
Harris, Adam, “The Supreme Court Justice Who Forever Changed Affirmative Action”, The Atlantic, 13/10/2018.
Hartocollis, Anemona, “Affirmative Action Cases May Reach Supreme Court Even Without Trump”, The New York Times, 09/11/2020.
Hartocollis, Anemona, “Justice Department Drops Lawsuit Claiming Yale Discriminated in Admissions”, The New York Times, 03/02/2021.
Lu, Vivi E., “SFFA Petitions SCOTUS to Take Up Suite Against Harvard’s Race-Conscious Admission”, The Harvard Crimson, 25/02/2021.
Rampini, Federico, “California, nelle università corsie preferenziali per gli afroamericani. La protesta degli asiatici: “Così ci escludete”, La Repubblica, 18/06/2020.
Editing a cura di Cecilia Coletti