Il 7 dicembre 1941, alle prime luci dell’alba, il Giappone sferrò un attacco a sorpresa alla base militare statunitense di Pearl Harbor. L’attacco nel Pacifico causò la morte di 2403 persone fra militari e civili, provocando inoltre la distruzione di 21 navi militari e più di 300 aerei, e segnò l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale. L’allora presidente Franklin Delano Roosevelt, definì, nel suo conseguente discorso alla nazione, il giorno dell’attacco come «Day of infamy» (il giorno dell’infamia).
Prologo e cause dell’attacco
All’inizio del conflitto, gli Stati Uniti avevano ribadito la linea non interventista nelle questioni europee tenuta negli anni fra la due guerre mondiali. Tuttavia all’inizio del suo terzo mandato, nel 1940, Roosevelt si impegnò nel sostenere la Gran Bretagna con ingenti aiuti economici. I britannici erano già rimasti soli nell’affrontare la Germania di Hitler.
Nel marzo del 1941 venne approvata la legge degli “affitti e prestiti”, la quale consentiva l’esportazione a condizioni favorevoli di materiale bellico per quegli Stati la cui difesa fosse considerata fondamentale per gli interessi statunitensi. Nel mese di maggio vennero interrotte le relazioni diplomatiche con la Germania e l’Italia.
Questa politica intrapresa dagli Stati Uniti venne suggellata ufficialmente nell’incontro fra Roosevelt e il Primo ministro britannico Winston Churchill, avvenuto il 14 agosto 1941. In quell’occasione, a bordo di una nave da guerra al largo dell’isola di Terranova, venne firmata la cosiddetta Carta Atlantica. La Carta era un documento in otto punti in cui venivano ribadite le condanne ai regimi fascisti e venivano fissate le linee di un nuovo ordine democratico da costruire una volta terminato il conflitto. A quel punto l’effettivo coinvolgimento statunitense nella guerra sembrava ormai essere inevitabile.
Il Giappone, all’epoca maggior potenza dell’emisfero orientale, era il principale alleato di Germania e Italia, con i quali aveva ratificato nel settembre 1940 un patto di alleanza detto “patto tripartito”. Già durante gli anni Trenta, il Paese del Sol Levante iniziò a espandere i propri confini, occupando nel 1937 la Manciuria e iniziando un’invasione su vasta scala della Cina. Dopo la caduta della Francia, i giapponesi occuparono l’Indocina francese nel luglio del 1941. Stati Uniti e Gran Bretagna risposero con manovre economiche sanzionatorie. Roosevelt decise infatti di congelare i beni giapponesi nel proprio Paese e di vietare la vendita di petrolio, decretando il blocco delle esportazioni verso la potenza asiatica.
L’attacco giapponese
A quel punto, l’Impero asiatico – povero di materie prime – dovette affrontare una scelta di capitale importanza: risolvere la questione per via diplomatica (Stati Uniti e Gran Bretagna pretendevano il ritiro delle truppe giapponesi dall’Indocina e dalla Cina) o scatenare la guerra per procurarsi le risorse di cui aveva bisogno. Fu in questa occasione che il governo giapponese scelse la via delle armi.
In un primo momento, tuttavia, il Giappone decise di continuare i colloqui diplomatici con gli Stati Uniti, mentre però, in gran segreto, preparava l’offensiva nel Pacifico. I leader giapponesi speravano che un attacco a sorpresa a Pearl Harbor avrebbe spezzato la determinazione statunitense e paralizzato la marina militare a stelle e strisce. Gli alti funzionari militari giapponesi elaborarono quindi il piano d’attacco, che se fosse andato a buon fine avrebbe garantito loro il tempo necessario a consolidare il dominio sui nuovi territori conquistati.
Nelle prime ore del mattino del 7 dicembre del 1941, il Giappone sferrò la sua offensiva contro gli avamposti militari di Pearl Harbor, presso le isole Hawaii: buona parte della flotta statunitense nel Pacifico venne distrutta. L’offensiva faceva parte di un più ampio piano di conquista di territori ricchi di petrolio nel sud-est asiatico. Nessuna dichiarazione di guerra venne inviata agli Stati Uniti, prima dell’attacco.
Nei mesi successivi i giapponesi approfittarono della momentanea netta superiorità navale conquistata nel Pacifico ottenendo tutti i territori che si erano prefissati di acquisire. Nel maggio del 1942 conquistarono le Filippine, strappandole agli Stati Uniti, la Malesia e la Birmania britanniche e anche l’Indonesia olandese. L’esercito giapponese era, inoltre, in grado di insidiare l’Australia e l’India, costringendo il governo di Sua Maestà a distogliere forze preziose dal Medio Oriente.
Nei giorni che seguirono all’attacco, oltre allo shock di essere stati colpiti, gli Stati Uniti ricevettero la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia e della Germania, alleati del Giappone.
Il discorso del “giorno dell’infamia”
Quando arrivò la notizia dell’attacco a Pearl Harbor, il presidente Roosevelt stava pranzando alla Casa Bianca. Per tutto il resto del pomeriggio, tenne riunioni e incontri con i propri consiglieri politici e militari per studiare la risposta all’attacco e monitorare la crisi in corso. Poco prima delle ore 17, Roosevelt e il suo staff iniziarono a preparare un discorso di guerra da tenere al Congresso.
L’8 dicembre del 1941, in sessione plenaria al Congresso, Roosevelt tenne uno dei discorsi politici più famosi della storia statunitense. Nell’incipit del discorso il presidente pronunciò le seguenti storiche parole: «eri, 7 dicembre 1941, una data che vivrà nell’infamia, gli Stati Uniti d’America sono stati improvvisamente e deliberatamente attaccati dalle forze navali e aeree dell’Impero del Giappone».
Il discorso, passato alla storia come Infamy speech (discorso dell’infamia), segnò la dichiarazione di guerra degli Stati Uniti al Giappone e l’ingresso della potenza atlantica nella Seconda guerra mondiale.
La risposta all’offensiva giapponese e la fine del conflitto
Nei mesi seguenti ai fatti di Pearl Harbor, gli Stati Uniti si riorganizzarono per poi lanciare la propria controffensiva nel Pacifico ai danni dell’Impero giapponese. Fra il 1942 e il 1943, infatti, l’andamento della guerra subì una svolta decisiva, dopo che le potenze del patto tripartito avevano raggiunto in precedenza il massimo della loro espansione militare e territoriale.
I primi segni di questa inversione di tendenza si ebbero proprio nel conflitto fra gli Stati Uniti e il Giappone nel Pacifico. Fra il maggio e il giugno del 1942, nelle due battaglie del Mar dei Coralli, nei pressi delle coste della Nuova Guinea, e delle Isole Midway, a ovest delle Hawaii, le forze statunitensi ebbero la meglio su quelle giapponesi.
La grande forza militare impiegata dagli Stati Uniti pose un freno alle mire espansionistiche del Giappone, mettendo in moto una macchina bellica ben più forte di quella nipponica dal punto di vista numerico e dei mezzi.
In seguito alla conquista dell’isola di Guadalcanal nel febbraio 1943, nelle Isole Salomone, da parte dei marines, i giapponesi rinunciarono a qualsiasi offensiva di ampia portata, limitandosi a difendere le posizioni raggiunte all’inizio della guerra.
La definitiva resa giapponese, che coincise con la fine della guerra, avvenne con la firma dell’armistizio da parte dell’imperatore Hirohito il 2 settembre del 1945. La resa senza condizione venne concessa in seguito al lancio di due ordigni nucleari: il primo, venne sganciato su Hiroshima il 6 agosto del 1945; il secondo, tre giorni dopo a Nagasaki. Il numero di morti fu elevatissimo e entrambe le città vennero distrutte totalmente, causando effetti negativi di lungo periodo su quanti erano stati contaminati dalle radiazioni.
La decisione, presa da Truman, diventato presidente dopo la morte di Roosevelt avvenuta il 12 aprile di quell’anno, diede una grande dimostrazione di forza al mondo, elevando gli Stati Uniti al definitivo rango di super-potenza.
Fonti e approfondimenti
Pearl Harbor Curriculum Hub, Franklin D. Roosevelt Presidential Library and Museum.
Sabbatucci G., Vidotto V., Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, Bari, Editori Laterza.
Editing a cura di Cecilia Coletti
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