La crisi economica è ormai da anni argomento di attualità e studio, oltre ad essere presenza costante nel dibattito quotidiano di qualsiasi ordine e grado. Riguardo le cause di essa la teoria economica fornisce visioni differenti e variabili, a partire da punti di vista più specifici e particolari fino ad arrivare agli studi più strutturali e generali.
È particolarmente interessante in questa ricerca di cause ed effetti, problemi e soluzioni, interrogarsi su quali sono gli attori principali che possono incidere profondamente con le proprie decisioni economiche.
Storicamente la letteratura si è concentrata in particolare su due macro attori, spesso visti come i salvatori o i mali assoluti del quadro economico: lo Stato e il mercato. A partire dagli albori della teoria economica queste due colonne sono state indicate come le principali e nel tempo hanno alternato momenti di totale predominio sia sulla scena teorica che su quella pratica.
Se infatti gli anni Trenta, dopo la Crisi del ‘29, hanno visto sorgere il predominio dello Stato fino a raggiungere il suo strapotere nel dopoguerra, negli anni Settanta e Ottanta è invece tornata di prepotenza la scuola, e di conseguenza le politiche, che invece concedevano il primato al mercato. Gli anni di Ronald Reagan e di Margaret Tatcher con la stagflazione e il crollo di teorie considerate per assodate, come il trade off tra disoccupazione e inflazione, consegnarono lo scettro nuovamente al mercato. «Lo Stato è il problema non la soluzione», così tuonava il presidente americano nel 1981.
Ma realmente cosa sappiamo di Stato e mercato? E sono veramente questi gli attori preponderanti nella teoria economica? Verrebbe naturale da chiedersi, che cosa contiamo noi? Le nostre comunità? Le nostre relazioni?
Per evitare particolari confusioni è meglio intanto definire cosa intendiamo con Stato, mercato e comunità. Con il primo termine indichiamo tecnicamente il governo strutturato di un Paese diviso nei suoi rami: legislativo, giudiziario ed esecutivo. Con il termine mercato vengono invece indicate tutte le strutture che facilitano la produzione e il commercio. Sono chiaramente compresi tutti i settori, da quello dei servizi a quello dei beni, passando per quello del lavoro e quello finanziario. Tutti gli attori privati attivi sono parte del mercato, dagli imprenditori fino alle società e le imprese.
Se questi due termini sono più facili da definire, diventa ostico determinare cosa è invece la comunità. Rahuram Rajan prende in prestito la definizione del dizionario Oxford per introdurla definendola come «un gruppo sociale di qualsiasi dimensione i quali membri residenti di solito in un determinato territorio condividono tratti culturali o sociali comuni».
Le prime forme di comunità sono state le tribù, i gruppi elementari che riunivano i primi uomini. Ma qui lo Stato e il mercato dove erano? La risposta è dentro la comunità. Per migliaia di anni infatti il governo e gli scambi commerciali furono gestiti dalla collettività che regolamentava con semplici regole basiche il governo e lo scambio, mantenendo i due attori futuri al proprio interno.
A vedere la lunga storia dell’essere umano sulla terra, Stato e mercato hanno iniziato a separarsi dalla comunità non molto tempo fa e hanno preso regolarmente a sostituirsi a essa. Vanno infatti valutate le funzioni che lo Stato e il mercato hanno iniziato a sottrarre alla comunità. Molti di questi sviluppi sono stati positivi. Si pensi al servizio sanitario e ospedaliero, in particolare al parto. Per molto tempo una donna incinta che stava per mettere al mondo un bambino, non aveva nessun servizio a cui potersi rivolgere, ma era la comunità che la circondava – solitamente le donne vicine a lei – ad aiutarla in un momento così pericoloso. La sostituzione dello Stato in questo ha portato a una riduzione del rischio di mortalità infantile. Lo stesso si può dire del mercato, il quale per esempio mostra perfettamente la propria sostituzione nell’approvvigionamento del cibo. Non è più infatti la comunità che insieme caccia o coltiva il cibo per poi dividerselo, l’approvvigionamento è affidato al mercato attraverso uno scambio con un valore equiparato in denaro – elemento necessario per il mercato, ma creato e certificato dallo Stato.
Questi sono sicuramente passi avanti dello sviluppo che hanno potuto portare a scoperte e miglioramenti nel nostro stile di vita e sono stati utili nel mantenere la sostenibilità di una società sempre più complessa. È però vero che il tasso di sostituzione dello Stato e del mercato nei confronti della comunità ha avuto anche duri effetti negativi.
Soluzioni economiche e sociali basate sugli assunti che lo Stato può in fondo sopperire a tutto o, al contrario, possa farlo il mercato libero e senza regolamentazioni basato sulle individuali capacità del singolo sono idee che hanno portato a sfilacciare la nostra comunità e hanno dimostrato la loro fallacia. La pandemia ha mostrato con chiarezza cosa questo voleva dire, sole e isolate nelle proprie case, molte persone si sono ritrovate spiazzate. Tagliati infatti fuori dai classici legami “di mercato” e spesso non protetti dallo Stato, in molti è incominciata a crescere la nostalgia di una comunità piena e strutturata.
Questa infatti è una risorsa incredibilmente forte, capace di generare opportunità varie e in grado di garantire una profonda resilienza in particolare davanti alle difficoltà più dure. Come ribadisce l’economista Raghuram Rajan, il partecipare alla vita di una comunità fornisce un profondo senso di empowerment e sposta il potere dall’alto verso il basso. Quando una comunità si stringe, si dà delle regole, partecipa attivamente e di solito ottiene risultati migliori, e non solo a livello collettivo, ma anche dei singoli. Gli economisti Raj Chetty e Nathaniel Hendren hanno quantificato l’effetto positivo che si ha vivendo in una comunità locale forte piuttosto che in una debole. Due ragazzi nati in comunità e in famiglie con lo stesso livello di reddito, ma con differenti livelli di forza dei legami comunitari, possono avere performance differenti sotto molti aspetti – compreso quello del reddito – in favore della comunità più unita.
Le comunità sono quindi importanti e allora che ruolo possono giocare nell’uscire dalla nostra crisi? Attualmente viviamo in sistemi economici sbilanciati. Dopo anni di preponderante ruolo dello Stato seguiti da decenni di dittatura del mercato, bisogna chiedersi come cambierà nuovamente l’equilibrio di forza. Affinché sia possibile un pieno sviluppo è necessario che ciascuno dei tre elementi sia in equilibrio, essi infatti sono le colonne su cui regge il nostro sistema economico.
Il disequilibrio tipico del neoliberismo o dello statalismo abbiamo visto cosa produce, le crisi degli ultimi vent’anni il primo e le crisi economiche continue dei Paesi ex-sovietici il secondo. Vanno invece costruite delle comunità solide in grado di inserirsi nelle dinamiche statali, attraverso elezioni giuste e sane, e nelle dinamiche del mercato, attraverso la costruzione di attività sostenibili e in grado di rispettare principi saldi. Politiche su questi principi potranno veramente attivare percorsi generativi in grado di creare non solo ricchezza, ma anche benessere per tutti.
Fonti e approfondimenti
Rajan, Raghuram. 2019. “The Third Pillar: How Markets and the State Leave the Community Behind”. Penguin Pr.
Editing a cura di Cecilia Coletti

Questo articolo fa parte di una serie di approfondimenti realizzati da Lo Spiegone in vista del Festival Nazionale dell’Economia Civile 2021.
Per approfondire le tematiche trattate nell’articolo potete seguire l’incontro del 24 settembre alle ore 11.00 “Il terzo pilastro: le comunità in cui viviamo. Oltre Stato e mercato”
Qui il programma completo dell’evento.
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