Nel considerare le diverse esperienze che rendono il sistema carcerario statunitense un luogo deumanizzante e brutale per chi è costretto ad abitarlo, quella delle donne in particolare emerge come specialmente dura. Questo è particolarmente vero quando si guarda alla condizione femminile anche attraverso le lenti dell’intersezionalità – andando, quindi, a osservare come l’istituzione carceraria agisce sulle donne appartenenti alle minoranze, o su quelle appartenenti alla comunità LGBTQ+.
Uno sguardo complessivo
Anche se rappresentano una netta minoranza della popolazione carceraria statunitense – il 10,4% del totale – gli USA hanno il tasso di incarcerazione femminile di gran lunga più alto al mondo. Qui, circa 133 donne su 100.000 sono in prigione, per un totale approssimativo di 219.000 incarcerate.
Di queste, il 53% sono donne bianche, il 29% afroamericane, il 14% ispaniche o latine e il 2,5% native. Come per gli uomini, quindi, le donne appartenenti alle minoranze sono incarcerate a un tasso maggiore rispetto a quelle bianche (quattro volte maggiore per le donne nere e due volte maggiore per le ispaniche).
Al di là delle differenze etniche e razziali, comunque, ci sono alcune caratteristiche della condizione femminile nelle carceri statunitensi che sono universalmente problematiche. Prima fra tutte, quella degli abusi sessuali. Secondo un sondaggio del 2009, il 4,7% delle donne incarcerate ha denunciato episodi di abusi sessuali subiti da altre detenute (contro l’1,9% degli uomini) e il 2,1% denunciava abusi subiti dal personale del carcere (che, nelle carceri femminili statunitensi, comprende anche gli uomini, i quali spesso sono la componente maggioritaria dello staff). Gli abusi colpiscono in particolare persone più vulnerabili, come le detenute con problemi di salute mentale – che sono, secondo le stime, i ⅔ del totale – o quelle appartenenti alla comunità LGBTQ+. Nonostante tutto ciò sia noto e siano anche stati varati dei provvedimenti, negli anni, per provare ad arginare il problema, solo una netta minoranza delle guardie responsabili di abusi ha subito un processo penale (il 23%). Di queste, solo il 3% ha subito una condanna.
Un’altra problematica comune è quella sanitaria, in particolare riguardante la tutela della salute riproduttiva delle donne che si trovano in carcere. Dall’accesso agli strumenti di diagnostica per rilevare malattie agli organi riproduttivi, passando per la reperibilità di beni di prima necessità come gli assorbenti per il ciclo mestruale, fino alla possibilità di ricevere cure specifiche in caso di gravidanza (o di necessità di abortire), spesso le carceri statunitensi non forniscono questi strumenti di tutela basilari per la salute delle donne.
L’intersezione tra etnia e genere nell’incarcerazione di massa
Oltre ai problemi generali della popolazione carceraria femminile, che spaziano anche oltre quelli sopra citati e toccano tematiche quali il background socioeconomico delle donne incarcerate (che, come gli uomini, spesso vengono da contesti di povertà ed esclusione sociale), il trauma psicologico che queste soffrono in carcere e le barriere che le ex detenute trovano, una volta scontata la pena, nell’accesso al mercato del lavoro e al welfare, ci sono alcune questioni che riguardano in maniera specifica la condizione delle donne appartenenti alle minoranze.
Come detto, le donne afroamericane e latine sono incarcerate a un tasso di gran lunga superiore rispetto alle donne bianche e, una volta fuori dal carcere, incontrano barriere più aspre al loro reingresso nella società. Anche dentro alle strutture carcerarie la discriminazione nei loro confronti è più violenta. Non è un caso che il tasso di abusi sessuali nei loro confronti sia più alto rispetto alla controparte di detenute bianche.
Le discriminazioni iniziano però già nei momenti precedenti all’ingresso al carcere. Non solo le minoranze negli USA, come è noto, si trovano spesso in situazioni di svantaggio economico più forte a causa dei secoli di oppressione razziale, ma allo stesso tempo le donne nere e latine sono state, tanto quanto gli uomini delle minoranze, il principale target della retorica e delle politiche della War on Drugs, che ha fatto da impalcatura al sistema di incarcerazione di massa costruito dagli anni Settanta. Molte donne, infatti, vengono arrestate e imprigionate con capi d’imputazione riguardanti l’abuso di stupefacenti.
La particolare brutalità della condizione delle donne nere e latine nelle carceri, nonché i motivi per cui il sistema carcerario le targetizza così ferocemente, sono spiegate da alcune autrici quali Kristen Clarke e Julia S. Jordan-Zacherys, alla luce della teoria più ampia che vede nel carcere, e nell’incarcerazione di massa, un’impalcatura sociale creata in continuità coi vecchi sistemi di oppressione razziale – la schiavitù prima, e il segregazionismo poi.
Clarke e Jordan-Zacherys, focalizzandosi sulle donne nere, interpretano gli alti tassi di incarcerazione che queste subiscono come il risultato di politiche che, criminalizzandole, contribuiscono a confinarle in un ruolo sempre più marginale, non solo dal punto di vista politico o economico – impedendo, ad esempio, il loro ingresso nel mercato del lavoro o privandole del diritto di voto – ma anche civile, escludendole di fatto dal diritto di maternità.
Secondo queste autrici, e altre come loro, il carcere è un potente mezzo per escludere le donne nere dal godimento pieno dei diritti materni. Da un lato, l’incarcerazione allontana le madri dai propri figli e dalle loro comunità, esacerbando il senso di isolamento e l’esclusione sociale dei giovani afroamericani e, potenzialmente, privandole della potestà genitoriale anche dopo l’uscita dal carcere. Dall’altro, vista anche la lunghezza delle sentenze che le donne incarcerate sono costrette a servire per via di leggi come quelle sui mandatory minimums, il loro ingresso in prigione in giovane età (come spesso accade) funzionerebbe come una “sterilizzazione effettiva”, allontanandole dalla società proprio durante il loro periodo di fertilità. Questo sarebbe un altro modo in cui il carcere svolgerebbe un ruolo senza soluzione di continuità con le principali istituzioni oppressive della storia statunitense, che escludevano le madri nere dalla cura dei propri figli durante la schiavitù, o che vedevano i tassi di sterilizzazione per le donne afroamericane triplicati rispetto alle corrispettive bianche durante il segregazionismo. D’altro canto, proprio in questo periodo gli USA erano sotto la lente per le pratiche di eugenetica praticate proprio contro le minoranze e le persone con disabilità.
Non è un caso quindi che il carcere agisca in maniera così invasiva sul diritto alla maternità delle donne, in particolare delle minoranze. Allo stesso tempo, è importante ricordare che gran parte della scena mediatica che dagli anni Ottanta ha contribuito alla criminalizzazione delle donne nere e latine è stata costruita attorno a una deumanizzazione del ruolo di queste come madri, chiamandole crack mothers (una dicitura che, insieme a welfare queen, vedeva le donne nere come persone naturalmente disfunzionali, sessualmente promiscue, che facevano abuso di stupefacenti e partorivano molti figli per vivere sulle spalle del governo tramite i sussidi). La deumanizzazione delle donne nere e latine nella storia statunitense è spesso passata, e passa tuttora, anche attraverso la negazione del loro diritto di essere pienamente madri.
Donne LGBTQ+ in carcere
Come in qualsiasi altro ambito, anche nel carcere è evidente un gender gap tra uomini e donne, con queste ultime più a rischio in diversi ambiti, con un’intersezione che va al di là di quella di genere e tocca sfere come quella etnico-razziale, trattata prima, o quelle dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. Anche la comunità LGBTQ+ è infatti sovrarappresentata tra la popolazione carceraria statunitense e questo è particolarmente vero per le donne queer e le donne transessuali (ovvero, che hanno compiuto una transizione da uomo a donna).
Il riflesso delle discriminazioni nei loro confronti, evidente nella società, emerge non solo all’ingresso ma anche dentro l’ambiente carcerario, dove il trattamento riservato alle persone LGBTQ+ è più brutale. L’85% di loro, in un questionario, ha dichiarato di essere stato o stata in isolamento almeno una volta durante la loro sentenza, una pratica definita da più istituzioni come equiparata alla tortura. Le persone LGBTQ+, poi, sono anche più esposte alle violenze sessuali da parte di altri detenuti e dello staff, che subiscono a un tasso rispettivamente dieci e due volte maggiore rispetto alle persone eterosessuali e cisgender.
Come detto, infine, chi soffre particolarmente sono le donne queer e le donne transessuali, che sono probabilmente la componente della comunità LGBTQ+ più oppressa all’interno delle carceri statunitensi. Secondo il National Transgender Discrimination Survey, ben una persona transgender su sei è stata o è in carcere (e addirittura il 47% nel caso di persone transgender nere). I problemi che affrontano dentro al carcere sono poi molteplici e amplificati per le donne: molte persone transgender sono rinchiuse in prigioni sulla base del loro sesso biologico alla nascita (e non in istituzioni che ospitino detenuti o detenute corrispondenti alla loro identità di genere, raggiunta dopo la transizione). Questo comporta ovvi rischi per la loro incolumità fisica, nonché per la loro salute mentale. Inoltre, l’accesso alle cure ormonali di cui necessitano è spesso negato, e nelle carceri spesso subiscono discriminazioni pesanti, che possono sfociare in assalti o violenze sessuali nei loro confronti.
Come si vede, la condizione femminile nelle carceri statunitensi è estremamente complessa. Certamente riflette la brutalità di quella maschile, ma è resa anche più dura dall’oppressione di genere che permea la società intera, quindi anche l’istituzione carceraria. Allo stesso tempo, le intersezioni con etnia, identità di genere e orientamento sessuale sono fondamentali da considerare, per capire che l’esperienza delle donne nelle carceri è, pur se con delle componenti simili per tutte, un prisma che è lo specchio dei sistemi di oppressione – suprematismo bianco, patriarcato, eteronormatività – che permeano tutte le relazioni sociali. Per questo, qualsiasi policy che abbia come obiettivo la decarcerazione e il reinserimento delle ex detenute negli Stati Uniti, dovrebbe creare strumenti e fondi non solo per la riduzione del gender gap in generale, ma in particolare per le donne nere, latine e LGBTQ+, in un’ottica di riduzione delle disuguaglianze nella loro interezza.
Fonti e approfondimenti
Clarke, Kristen. 2007. “Toward a Black Feminist Liberation Agenda: Race, Gender, and Violence”. In: Marable M., Steinberg I., Middlemass K. (eds) Racializing Justice, Disenfranchising Lives. The Critical Black Studies Series. Palgrave Macmillan, New York.
Jones, Alexi. 2021. “Visualizing the unequal treatment of LGBTQ people in the criminal justice system”, Prison Policy Initiative.
Jordan-Zacherys, Julia S. 2007. “The Female Bogeyman: Political Implications of Criminalizing Black Women”. In: Marable M., Steinberg I., Middlemass K. (eds) “Racializing Justice, Disenfranchising Lives”. The Critical Black Studies Series. Palgrave Macmillan, New York.
Kajstura, Aleks. 2019. “Women’s Mass Incarceration: The Whole Pie 2019”, Prison Policy Initiative.
Sokoloff, Natalie J. 2007. “The Effect of the Prison-Industrial Complex on African American Women”. In: Marable M., Steinberg I., Middlemass K. (eds) “Racializing Justice, Disenfranchising Lives”. The Critical Black Studies Series. Palgrave Macmillan, New York.
Editing a cura di Cecilia Coletti
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