Di Giulia D’Amico
È passato poco tempo dal ventesimo anniversario dell’attentato al World Trade Center. Contemporaneamente, dall’altra parte dell’oceano, si assiste all’inizio dello storico processo agli attacchi terroristici al Bataclan del 13 novembre 2015. In questo periodo l’Occidente è più deciso che mai: vuole giustizia per tutte le vittime che hanno perso la vita in atroci attentati. Si analizzano dati, si interrogano possibili collaboratori, si indaga sulle motivazioni che hanno spinto quell’uomo o quella donna a farsi saltare in aria, a dirottare quell’aereo, a lanciare quella bomba. Nel corso degli anni sono stati condotti numerosi studi volti a decifrare proprio le realtà complesse che si celano dietro un processo di radicalizzazione così estremo. Tra queste, emerge una nuova – o forse già radicata? – minaccia: il nesso tra crimine e terrore.
Realtà distinte e separate?
Il jihadismo è un movimento ideologico rivoluzionario, nonché colonna portante delle celle terroristiche Al Qaeda e Islamic State of Iraq and the Levant (ISIS) – difensori dell’Islam di fronte all’“oppressione” dell’Occidente. Ogni anno, questa corrente di pensiero coinvolge un numero sempre più elevato di giovani cittadini nati e cresciuti in Europa ma figli di immigrati di prima o seconda generazione. Tuttavia, ciò che desta sospetto è che questi homegrown terrorists sembrano allontanarsi dai principi originari della jihad islamica e agire secondo linee guida alquanto insolite.
Uno studio condotto nel 2011 da Edwin Bakker, professore in Terrorism and Counterterrorism presso l’Institute of Security and Global Affairs all’Aja, segnalava che il numero di jihadisti europei con precedenti condanne penali fosse in forte aumento, arrivando persino a più di un terrorista su cinque. Conclusioni simili sono emerse anche dallo studio condotto da Julia Rushchenko, professoressa in Criminology and Counter Terrorism presso l’University of West London, sul reclutamento e la radicalizzazione di nuovi terroristi all’interno delle carceri britanniche. Dal traffico di droga, a rapine e aggressioni, la lista di terroristi con precedenti criminali era incredibilmente lunga e includeva individui estremamente pericolosi come Abdelbaki Es Satty – l’imam responsabile della strage di Barcellona nel 2017 –, Khalid Masood, l’attentatore del Westminster Bridge nel 2017, e infine Anis Amri, colui che condusse l’attacco a Berlino nel 2016.
La criminalità organizzata
Fino ad ora, è emerso che i terroristi con precedenti criminali fossero stati coinvolti in crimini minori e poco strutturati, piuttosto che essere parte di veri gruppi criminali organizzati. La differenza, certamente, è notevole. Infatti, secondo la Convenzione contro la Criminalità Organizzata Transnazionale, firmata a Palermo dalle Nazioni Unite nel 2003, per «gruppo criminale organizzato» si intende «un gruppo strutturato, esistente per un periodo di tempo, composto da tre o più persone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi o reati stabiliti dalla Convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale».
Tuttavia, è preoccupante che due realtà talmente diverse comincino a convergere verso interessi comuni. Infatti, attività illecite come il traffico di armi e droghe, o crimini minori come il contrabbando di documenti falsi, sono sempre stati strumento delle organizzazioni criminali che raramente si sono fatte portavoce di un pensiero politico inscindibile. Contrariamente ad Al Qaeda e ISIS che hanno centrato la loro intera campagna militare sulla lotta contro la sofferenza musulmana nel mondo, le organizzazioni criminali sono principalmente in cerca di profitto. Basti pensare all’operato delle mafie italiane che oggi come ieri hanno stretto rapporti di collaborazione e mutuo profitto con la classe politica in carica.
Pertanto, ciò che più dovrebbe spaventare è la possibilità che un numero crescente di criminali appartenenti a organizzazioni ben strutturate decida di intraprendere un percorso terroristico. O, viceversa, che i jihadisti europei decidano di copiare le strategie e le tecniche criminali in maniera più strutturata e interconnessa.
Convergenza di valori o benefici comuni?
Ma allora, cosa spinge i criminali a convertirsi al jihadismo e a intraprendere un percorso che sembra non avere nulla a che vedere con la brama di denaro propria della criminalità organizzata? Ciò avviene poiché i processi che portano alla radicalizzazione sono molteplici e coinvolgono una varietà infinita di individui. In particolare, si rileva una crescente intercambiabilità di interessi e valori tra gruppi apparentemente molto diversi – quali i terroristi e i criminali, che tuttavia sembrano adottare tattiche sempre più simili fra loro. Ma cosa hanno in comune gli interessi economici del traffico di armi, di droghe e prostituzione, con l’ideologia politico-religiosa-militare di chi compie attacchi terroristici?
Secondo uno studio dell’European Union Agency for Fundamental Rights esistono dei fattori comuni che spingono giovani musulmani europei a entrare a far parte similmente di organizzazioni criminali e terroristiche. In primo luogo, sembra che le attività illecite promosse da entrambi i gruppi attirino l’interesse di individui provenienti da realtà socioeconomiche molto simili tra loro. Ad esempio, fattori come la disoccupazione o la mancanza di una solida educazione vanno sicuramente presi in considerazione quando si analizzano motivazioni e cause che spingono una persona a compiere attività criminali e/o terroristiche.
Inoltre, le motivazioni economiche o socioculturali che portano a un senso di emarginazione peggiorano notevolmente la condizione psicologica di chi decide di entrare a far parte di gruppi criminali e/o terroristici. Infatti, membri ricorrenti di questi gruppi sono spesso persone appartenenti a minoranze etniche e/o religiose vittime di intimidazioni proprio a causa delle loro origini. Questi fattori sembrano aumentare la propensione all’uso della violenza e al crimine di strada e, allo stesso tempo, sembrano aver spinto numerosi giovani musulmani europei a radicalizzarsi o a entrare a far parte di organizzazioni terroristiche. Ciò è stato anche confermato dallo studio condotto da Peter Nesser, Anne Stenersen ed Emilie Oftedal sugli homegrown terrorists in Europa. Gli autori mostrano che i terroristi attuali non sono più tanto motivati da ragioni religiose, quanto più dal desiderio di riscattarsi dalla loro segregazione sociale o dal fatto di sopravvivere con lavori saltuari e una povera educazione.
Inoltre, bisogna precisare che la struttura degli attuali gruppi terroristici ha subito dei mutamenti e non è più tanto simile a quella piramidale che operava sotto il comando di Osama Bin Laden. Quella a cui stiamo assistendo sembra essere una “terza ondata di terroristi” – come l’ha definita il celebre Marc Sageman, Special Advisor dell’intelligence statunitense nella guerra al terrorismo, nonché psichiatra forense. Questi homegrown jihadists appartengono a una struttura terroristica sempre più decentralizzata e agiscono secondo linee guida che si distaccano in parte dalle strategie tradizionali adottate dalla vecchia scuola di terroristi.
La crescente convergenza tra la sfera criminale e quella terroristica è un chiaro esempio di mutamento nel mondo jihadista. Ciò avviene poiché – essendo nati e cresciuti in Europa – molti dei partecipanti agli attacchi terroristici sono ben lontani dall’organizzazione centrale e provengono da contesti socioeconomici talvolta molto diversi. Non potendo facilmente usufruire delle risorse della cella centrale, sembra che numerosi jihadisti ricorrano a tecniche criminali – quali furto e traffico locale di droghe – per finanziare la pianificazione e l’attuazione dei loro attacchi. In questo, le attività criminali rappresentano uno strumento veloce e facilmente accessibile per ottenere risorse aggiuntive.
Contemporaneamente, aumentano anche i criminali che decidono di convertirsi al movimento ideologico e rivoluzionario islamico. Da un lato, il jihadismo viene spesso usato dai criminali come strumento per poter continuare a soddisfare il proprio bisogno di potere e influenza, nonché di mantenere vivo quel senso di ribellione contro il sistema. Dall’altro, la radicalizzazione sembra essere un’opportunità estremamente conveniente poiché molti criminali decidono di convertirsi al jihadismo come forma di “redenzione” dai propri peccati passati. Infatti, la ricerca condotta da Rajan Basra, Peter Neumann e Claudia Brunner sul nesso crimine-terrore dimostra che molti ex-membri di organizzazioni criminali usano la jihad come pretesto per liberare le proprie anime dal peso dei crimini commessi durante le loro vite.
Infine, a far leva sulla decisione di convertirsi al jihadismo sono anche fattori esterni alla componente ideologica. Ad esempio, è certo che la radicalizzazione – in quanto processo estremo – avvenga in momenti di forte vulnerabilità e marginalizzazione. Infatti, non è un caso che, come emerge dai dati dell’International Centre for the Study of Radicalisation (ICSR), il 31% dei terroristi ha intrapreso il proprio processo di radicalizzazione in carcere.
Da questa analisi emerge che si possono individuare numerosi punti di convergenza tra due realtà che apparentemente sembrano molto diverse. Da un lato, si è assistito a un numero crescente di criminali che hanno intrapreso il percorso di radicalizzazione e hanno infine deciso di compiere attacchi terroristici. Dall’altro, sono sempre di più i terroristi che ricorrono a tecniche e strategie criminali – come crimini minori quali furto e traffico di droghe, ma anche traffico di armi e documenti falsi – crimini per finanziare e portare a termine i propri attacchi.
Tutto questo conferma l’urgente necessità di rivedere alcuni concetti chiave quali “radicalizzazione”, “criminalità” e “terrorismo”. Non si può più sostenere che ci sia una divisione netta tra attività a scopo di profitto – il crimine – e attività guidate da un’ideologia politica-religiosa estrema – il terrorismo. Diversamente, un’analisi più approfondita mostra che crimine e terrore non sono da considerare come strutture statiche e omogenee, bensì due realtà flessibili e mutevoli, capaci di adattarsi a nuove circostanze.
Fonti e approfondimenti
“Experience of discrimination, social margination and violence: a comparative study on Muslim and non-Muslim youth in EU Member States”, European Union Agency for Fundamental Rights (October 2010).
Julia Rushchenko, “Terrorist recruitment and prison radicalization: assessing the UK experiment of ‘separation centres’”, European Journal of Criminology 2019, Vol. 16(3), pp. 295-314.
Marc Sageman, Leaderless Jihad – Terror Networks in the Twenty-First Century, (University of Pennsylvania Press: 2008).
Peter Nesser, Anne Stenersen, Emilie Oftedal, “Jihadi Terrorism in Europe: The IS-Effect”, Terrorist Research Initiative, Vol. 10, (2016).
Rajan Basra, Peter R. Neumann, Claudia Brunner, “Criminal Pasts, Terrorist Futures: European Jihadists and the New Crime-Terror Nexus”, The International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence, (2016).
Ryan Clarke, Stuart Lee, “The PIRA, D-Company, and the Crime-Terror Nexus”, Terrorism and Political Violence (2008), pp. 376-395.
Steven Hutchinson, Pat O’Malley, “A Crime-Terror Nexus? Thinking on Some of the Links between Terrorism and Criminality”, Studies in Conflict Terrorism, (2007), pp. 1095-1107.
Vanja Ljujic, Jan Willem van Prooijen, Frank Weerman, “Beyond the crime-terror nexus: socio-economic status, violent crimes and terrorism”, Journal of Criminological Research, Policy and Practice, Vol. 3 (2017).
Editing a cura di Francesco Bertoldi
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