Ricorda 2001: L’11 settembre

Riccardo Barelli - Remix Lo Spiegone - Anonimo - Licenza libera

«L’America sotto attacco» è il titolo che compare sul sito dell’emittente radiofonica CNN l’11 settembre 2001, dopo che gli aerei dirottati da alcuni membri di Al Qaeda si sono schiantati contro le Torri del World Trade Center (New York), il Pentagono (Washington) e, l’ultimo, originariamente diretto a Washington, in un campo a Shankeville. Complessivamente, le vittime furono quasi 3000, mentre i feriti più di 6000.

Al Qaeda, organizzazione terroristica fondata da Osama Bin Laden alla fine dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979-1988), è riuscita a colpire gli Stati Uniti e gli edifici più rappresentativi della loro identità nazionale: allo stesso tempo, un simbolo del potere economico, politico e militare. Tutto questo, all’interno dei loro confini territoriali.

Con un dibattito ancora vivo sugli eventi di venti anni fa e sulle iniziative intraprese dall’allora amministrazione Bush in risposta agli attacchi, proviamo a ripercorrerne le direttrici principali per individuare il loro lascito sulla politica e la società a stelle e strisce.

Emergenza e sorveglianza

Tre giorni dopo gli attentati, il Congresso approvò quasi all’unanimità (420 voti a favore, 10 astenuti e 1 solo voto contrario) una risoluzione congiunta per autorizzare Bush a utilizzare tutte le misure necessarie contro i responsabili.

Il presidente chiese agli eletti una larga adesione bipartisan, affinché le forze politiche dimostrassero di sapere fare fronte comune in un momento così complicato e testimoniassero, col loro voto, che con l’attacco terroristico si era entrati in una fase di eccezionale minaccia alla sicurezza del Paese.

Gli USA si ritrovarono così in stato di emergenza. Una situazione presentata come tutt’altro che temporanea: secondo Bush, infatti, «il mondo è cambiato dopo l’11 settembre. È cambiato perché non siamo più al sicuro». Una volta convinte della necessità individuata dal presidente, le élite politiche di Washington si mossero, inevitabilmente, per contrastare i pericoli e i nemici “interni” ed “esterni”. 

Sul primo lato, il fulcro dei cambiamenti normativi è da rintracciare nel USA Patriot Act (di seguito, “PA”), legge approvata in ottobre e riguardante ambiti molto diversi, dalla politica migratoria al riciclaggio di denaro passando per le comunicazioni via cavo, ma aventi quale minimo comune denominatore il contrasto al terrorismo.

Il PA è senza dubbio da annoverare tra i provvedimenti più importanti della storia recente degli Stati Uniti, per l’impatto sociale delle sue disposizioni nonché per la grande influenza che è stato in grado di esercitare sullo scenario internazionale, ispirando molti Paesi nel varare misure analoghe.

Muovendosi nel fragile equilibrio tipico dei regimi liberali tra la salvaguardia dei diritti individuali e le esigenze di sicurezza nazionale, il legislatore ha operato di fatto una precisa scelta di campo, effettuando una decisa compressione dei primi in funzione della seconda, incrementando notevolmente i poteri di sorveglianza in capo al governo. 

Uno dei primari obiettivi del PA era quello di garantire alle forze dell’ordine un maggiore accesso  e controllo delle informazioni. Da una parte, esso ha ampliato la definizione legale di “terrorismo interno”, “informazioni di intelligence straniera” e “organizzazione terroristica” per estendere il campo di indagine della polizia. Dall’altro, ha aumentato gli strumenti con cui condurre l’indagine vera e propria.

Tra i punti più critici e contestati da associazioni e movimenti per i diritti civili, l’articolo 215 ha sancito la possibilità, per l’agenzia di intelligence interna (il FBI), di raccogliere, grazie a un ordine segreto emesso dal tribunale competente, qualsiasi documento aziendale giudicato rilevante per un’indagine di sicurezza nazionale.

Anche in assenza di reato, pertanto, il governo ha potuto ottenere un vasto spettro di informazioni personali in possesso di soggetti terzi, sebbene il IV emendamento stabilisca che esso non può condurre una perquisizione senza ottenere un mandato e dimostrare una probable cause (motivo fondato) che porti a ritenere che la persona abbia commesso o commetterà un crimine. Un’erosione della privacy molto più invasiva e continuata ben oltre la scadenza originariamente individuata per il PA, anche sotto la presidenza Obama. 

Cultura di guerra

I provvedimenti adottati dopo gli attentati si inseriscono in un processo che aveva già segnato un aumento del controllo sociale da parte delle istituzioni, dalla “guerra al crimine” iniziata durante l’amministrazione Johnson alle “guerre alla droga” che hanno caratterizzato i mandati di Nixon, Reagan e Clinton. Al tempo stesso, nella “guerra al terrore” si sono registrate diverse novità rispetto al sistema di controllo preesistente.

Per garantire una maggiore difesa del territorio nazionale nei confronti del terrorismo, fu istituito un nuovo ministero, il Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS), con cui furono centralizzate alcune funzioni precedentemente ricoperte da 22 agenzie, tra le quali il controllo delle frontiere e dell’immigrazione.

Nel corso del tempo, il riassetto organizzativo effettuato in seguito all’11 settembre ha ampiamente contribuito alla militarizzazione della polizia, aumentando le risorse a disposizione dei dipartimenti locali e dotandoli di strumenti molto più adatti a un contesto bellico che a una società democratica.  

L’enorme e discrezionale potere attribuito dal PA al Procuratore generale e alle forze dell’ordine si è frequentemente tradotto in una radicale sospensione dei diritti civili. Uno degli articoli più discussi, il 412, predispose la facoltà di detenere, anche per un tempo indeterminato, qualunque soggetto straniero ritenuto un potenziale terrorista sulla base di un ragionevole dubbio circa il suo coinvolgimento in attività che mettono a rischio la sicurezza nazionale.

La polizia ha arrestato, detenuto ed espulso sospettati terroristi sulla base dei loro tratti somatici o di una semplice affiliazione associativa, rendendosi responsabili di violazioni sistemiche dei diritti fondamentali riconosciuti e teoricamente tutelati dalla Costituzione statunitense.

Inoltre, un’ordinanza militare stabilì che i sospetti terroristi attualmente non cittadini degli Stati Uniti sarebbero stati giudicati da commissioni militari e detenuti in carceri ad hoc, diversi dalle prigioni già esistenti, designati dal dipartimento della Difesa. Per i nemici degli Stati Uniti, in sostanza, furono create delle realtà parallele allo stato di diritto, alcune delle quali rimaste operative ancora oggi. 

Infine, non bisogna dimenticare le conseguenze socio-culturali delle politiche di quegli anni. La profilazione razziale, un problema dalle radici profonde negli USA, ha riguardato in maniera crescente arabi e musulmani, in una sovrapposizione tra dimensione etnica e religiosa resa ancor più confusa da una copertura mediatica che ha esacerbato il clima di paura, dipingendo quello in atto come un vero e proprio scontro di civiltà.

Dal trattamento umiliante dei passeggeri negli aeroporti all’utilizzo di piccole violazioni dell’immigrazione come pretesto per incarcerare le persone sospettate, tali categorie sociali sono state discriminate e, progressivamente, disumanizzate, trovandosi a occupare, assieme alle altre minoranze, un gradino più basso della maggioranza bianca e cristiana nella gerarchia razziale statunitense.

I pregiudizi e i sentimenti di ostilità, riassunti dagli studiosi sotto l’etichetta di “Islamofobia”, hanno portato nel breve periodo a un impressionante aumento dei crimini d’odio: stando ai dati del FBI, se ne registrarono 480 nel 2001, mentre solo due anni prima erano stati 22. Parimenti, guardando al lungo periodo, essi hanno edificato le fondamenta di un orientamento collettivo alla violenza, pronto a manifestarsi alla prima occasione, come dimostrato dall’escalation seguita all’attentato di Parigi del 13 novembre 2015. 

L’11 settembre e la cecità degli USA

«Non invadiamo Paesi autoritari per renderli democratici. Invadiamo Paesi violenti per renderli pacifici e abbiamo chiaramente fallito in Afghanistan». A parlare è James Dobbins, un ex diplomatico statunitense che ha servito come inviato speciale in Afghanistan durante le amministrazioni Bush e Obama.

Questo breve estratto, pubblicato due anni fa da un’inchiesta del Washington Post, mette in luce tutte le contraddizioni e i limiti della potenza a stelle e strisce in un mondo in cui essa, in quanto a capacità di fuoco, è semplicemente senza rivali. Anzi, forse proprio per questo. 

L’operazione militare Enduring Freedom in Afghanistan sta giungendo al termine. Nella Dottrina della Sicurezza Nazionale del 2002, in cui erano contenute le linee guida della guerra al terrorismo, l’obiettivo di quest’ultima veniva indicato nella creazione di «un equilibrio di potenza a favore della libertà».

Una formula evocativa, con la quale il potere degli States aveva trovato una mediazione altamente instabile tra aspirazione universalista e imperativi strategici, nel tentativo di mostrare, contemporaneamente, il volto migliore e quello peggiore ai propri concittadini e al resto del mondo. 

Nelle guerre in Medio Oriente, invece, così come nel Patriot Act e a Guantanamo, essi hanno  finito per rivelare esclusivamente il proprio lato più oscuro. Quello di un apparato di polizia disposto, dentro e fuori i confini nazionali, a reprimere e punire la devianza a dei costi sempre più elevati, non riconoscendo al “diverso” la stessa legittimità che riconosce a sé stessa. Una forza capace di rigettare le proprie prerogative democratiche, quando queste vengono reputate meno funzionali al mantenimento dello status quo.

Insomma, il volto di una potenza cieca, in balia di un mito che sa di non potere e, forse, volere più raggiungere, come sottolineato dalle parole di Dobbins. 

 

Fonti e approfondimenti

Bloss, W. 2007. “Escalating US police surveillance after 9/11: An examination of causes and effects”. Surveillance & Society.

Dal Lago, A. 2003. “Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre”. Ombre Corte

Degenhardt, T. 2017. “Representing war as punishment in the war on terror”. The Criminology of War.

Del Pero, M. 2014. “Libertà e impero: gli Stati Uniti e il mondo 1776-2011”. Gius. Laterza & Figli Spa.

Haner, M. et al. 2020. “Making America safe again: Public support for policies to reduce terrorism”. Deviant Behavior.

Lepore, J. 2020. “Queste verità. Una storia degli Stati Uniti d’America”. Rizzoli.

Selod, S. 2015. “Citizenship denied: The racialization of Muslim American men and women post-9/11”. Critical Sociology.

Sinnar, S. 2003. “Patriotic or unconstitutional? The mandatory detention of aliens under the USA Patriot Act”. Stanford Law Review.

Villano, P. et al. 2010. “Discorso e terrorismo: la rappresentazione degli arabi nella stampa italiana e internazionale dopo l’11 settembre 2001”. Psicologia sociale.

Whitaker, B. E. 2007. “Exporting the Patriot Act? Democracy and the ‘war on terror’in the Third World”. Third World Quarterly.

 

Editing a cura di Cecilia Coletti

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