Informare le persone.
Quando penso al significato del giornalismo, quando mi capita di discutere con familiari e amici di quale sia la sua autentica funzione nel mondo che stiamo costruendo, “informare le persone” sembra sempre la risposta più naturale.
Ma uno sguardo più attento alla realtà suggerisce ben altro.
Prendiamo la carta stampata, che attraversa da anni un declino che ormai viene descritto come irreversibile. Come sottolinea il Censis, se nel 2007 i quotidiani stampati erano letti dal 67% degli italiani, nel 2022 questa percentuale si è ridotta al 25,4%. Alcuni hanno addirittura profetizzato che le rotative abbiano l’inchiostro contato.
Eppure le lettrici, i lettori, non sono scomparsi. Anche se i livelli di fiducia nelle notizie non sono molto elevati, oggi si informano molto più di prima.
Semplicemente, lo fanno attraverso mezzi diversi, mescolandoli in un ecosistema fluido – è il 64,3% degli italiani a utilizzare un mix di fonti informative, come messo in luce in un recente rapporto – emettendo in pratica riti alternativi. Un tempo, la lettura del giornale rappresentava prima di tutto questo: un momento della giornata in cui vivere una particolare esperienza della comunità. Una pratica insieme emozionale, culturale e militante, comune.
Questa dimensione, se vogliamo anche epica, nel corso del tempo la carta stampata l’ha in buona parte smarrita. Ma non è accaduto lo stesso per tutti i media tradizionali. Guardiamo alla televisione: quanti ancora sono affezionati ai format televisivi di approfondimento giornalistico, aspettando il programma del mercoledì sera per venire a conoscenza di nuove inchieste? Anche se non come un tempo, la televisione nel nostro Paese si conferma ancora in grado di dire la sua. È perché i suoi professionisti sanno informare meglio il proprio pubblico?
Penso di no: vedo una ragione decisamente più convincente nello spazio che il rituale televisivo ha saputo ritagliarsi nell’immaginario collettivo. La televisione si è fatta luogo di senso: capace di attrarre l’attenzione e rispondere con una proposta in linea con le aspettative e le esigenze dei suoi spettatori. Unendo i singoli in una rappresentazione condivisa della realtà sociale, inserendone le personalità in un gioco di riflessi e rimandi.
Lo stesso non vale per la carta stampata. Uno studio di qualche anno fa metteva in luce come i consumi mediali si siano resi sempre più personalizzati: ognuno di noi, come ci dimostra l’esperienza dei social, va sempre più a caccia di informazioni che lo interessano. E per il modello di distribuzione dei quotidiani e dei periodici, risulta indubbiamente molto più appetibile una ricerca in rete che non un passaggio in edicola – le quali, proprio a causa di queste trasformazioni, negli ultimi vent’anni hanno chiuso i battenti a un ritmo vertiginoso.
In questo scenario, l’esplosione dei social network è anche un successo di significato. Nell’Italia di Tribuna elettorale, un reel – video della durata inferiore a un minuto e mezzo, che rappresenta un formato popolare su Instagram – non sarebbe stato compreso né accettato. Oggi è invece premiato dalle logiche commerciali delle piattaforme, in quanto contenuto che sa trattenere e intrattenere più di altri.
Ecco, l’esempio del reel rivela che la sopravvivenza del giornalismo lento non può dipendere dalla sua capacità di porsi in competizione con i media veloci. Non perché ci siano limiti strutturali alle spalle. Ma perché “informare le persone” è una parte che, per quanto importante, non racchiude tutta la verità sul senso del lavoro giornalistico. Un lavoro che va molto oltre i confini del mero aggiornamento sullo stato del mondo.
La storia prosegue producendo rumore: a un orecchio poco allenato, i suoni che ci circondano rimangono difficilmente distinguibili. Potremmo dire che un primo compito del giornalismo non è quello di produrre informazione, ma affinare l’udito. Spingendoci oltre, il giornalismo lento vuole essere quel percorso di maturazione dei sensi che allena l’orecchio a farsi più esperto, a volersi fare più esperto. A riconoscere nel frastuono le premesse di una prossima armonia.
Vista così, la modalità narrativa che promuovono i social network non è affatto in opposizione al giornalismo lento. Sono soltanto diverse fasi di un percorso a ostacoli, che può portare chi legge in una direzione feconda di senso e di voglia di approfondimento, oppure alimentare una spirale densa di copertine, ma povera di stimoli.
Il giornalismo lento, infatti, non offre le risposte, ma aiuta a porsi le giuste domande, per se stessi e per gli altri.
La prassi giornalistica deve essere scambio comunitario, innesco di scambi comunitari. Solo facendo esperienza delle sfaccettature del presente, chiedendosi cosa si è disposti a fare per migliorare le cose e coltivando la fiducia nel potere relazionale, la cittadinanza diventa attiva, linfa di democrazia reale e generatrice di benessere diffuso.
Comunità più informate sviluppano infatti sempre maggiori strumenti di resistenza e di trasformazione.
Dalla capacità di controllare le decisione delle autorità istituzionali alla possibilità di promuovere o “boicottare” un’azienda virtuosa o insostenibile, per arrivare alle strategie di mobilitazione collettiva, l’informazione rappresenta un perno ineludibile e fondamentale per la costruzione di una società della cura.
Ce lo dice il numero impressionante di analisi che testimoniano come in tanti contesti nazionali eterogenei, a basso reddito o a economia della conoscenza, in quelli lanciati verso una maggiore eguaglianza o ancorati a uno stallo di discriminazioni intersezionali, la presenza di presidi informativi rimanga scintilla di un futuro alternativo, nella comunità e per la comunità.
Del resto, la visione dei giornalisti come meri professionisti, osservatori distaccati dalla realtà, alla prova dei fatti non regge. Sia nel momento della produzione sia in quello della narrazione giornalistica, l’inclusione dei bisogni e dei desideri della collettività è un passaggio obbligato: per raccontare bisogna coinvolgere, per coinvolgere bisogna raccontare. Un ciclo continuo: un rituale, appunto.
Ecco perché inaugurare un piccolo rito collettivo intorno al giornalismo lento è una prima risposta a quella esigenza di comunità che siamo noi i primi a sentire. Speriamo che il nostro festival Fuoricampo – il mondo attraverso il giornalismo lento sia un punto di partenza per un cammino di senso a più gambe.
Per questo abbiamo voluto invitare realtà giornalistiche che condividono con noi un approccio dal basso e indipendente e che vedono pertanto nella cittadinanza attiva non la destinataria dei propri prodotti ma la prima fonte di sostegno e di supporto. Con loro, discuteremo delle criticità e delle prospettive di un lavoro che siamo sicuri non avere esaurito la propria funzione.
Insomma, proviamo ad allenare le orecchie insieme.
Editing a cura di Elena Noventa