Il termine “apolide” contiene in sé la sua definizione, essendo costituito da due parti eloquenti: α privativa e polis (città) indicano chiunque non abbia uno Stato di cui possa dichiararsi cittadino.
L’apolidia è definita spesso come un problema nascosto, invisibile come i soggetti che ne sono colpiti, ma è una condizione molto diffusa in tutto il mondo soprattutto in Myanmar, Kuwait, Costa d’Avorio, Thailandia, Iraq e Repubblica Dominicana.
Lo spettro dell’apolidia
La situazione di apolidia è composita, dato che può derivare da scenari differenti. Erroneamente si ritiene che lo status di apolide sia coincidente a quello di rifugiato ma, pur potendo sussistere questa possibilità, non è necessariamente vero. Esistono infatti casi di apolidia “stanziaria”, in cui un gruppo di soggetti che risiede da tempo sul territorio di uno Stato non è riconosciuto come sua cittadino, come nel caso dei Rohingya, una popolazione proveniente dal Bangladesh ma stanziata in Birmania da secoli.
I dati riportati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) stimano un numero di “stateless people” che si aggira sui 10 milioni, ma si deve considerare che sono cifre presuntive dal momento che, mancando un apparato burocratico ricettivo, non c’è una certezza assoluta su questi dati ed infatti gli apolidi accertati sono “solo” 3.2 milioni.
L’esistenza di questo fenomeno ha origini lontano, ma si è inasprita dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando vi fu un primo riassestamento dei confini degli Stati che ancora oggi resiste e persiste a causa dei continui conflitti.
Conclusasi la guerra, si avvertì l’esigenza di provvedere a creare uno status giuridico per i “nuovi” apolidi e i rifugiati e lo si fece attraverso due interventi normativi: la “Convenzione sullo statuto degli apolidi” del 1954 e la “Convenzione sulla riduzione dell’apolidia” del 1961. C’è da sottolineare che le Convenzioni sono intimamente legate con la “Convenzione sullo Statuto dei Rifugiati” del 1951 con cui spartiscono punti fondamentali.
Questo accade perché il discrimine tra lo status di apolide e quello di rifugiato è molto labile. Il punto cardine nell’individuazione del concetto di rifugiato è il “fondato timore e rischio di persecuzione” nel proprio Paese di origine, laddove l’apolidia si connota per il mancato riconoscimento della nazionalità; non è quindi necessaria né la persecuzione né la fuga dal proprio Paese. Ovviamente può succedere che gli apolidi siano anche rifugiati, in quanto vittime di persecuzioni etniche, e questo li fa ricadere nella condizione di rifugiati a cui si applicheranno la “Convenzione sullo statuto di rifugiato” e le norme del diritto internazionale ad essa correlate.
Apolidia de jure e de facto
Esiste una differenziazione minima tra la condizione di apolidia de jure e de facto.
Generalmente si è apolidi de jure quando non si acquista la nazionalità automaticamente o attraverso una decisione individuale per effetto della legislazione di uno Stato. In pratica si è apolidi ai sensi della normativa vigente.
Quando invece vi sono condizioni ostative materiali per cui il soggetto non può dimostrare di essere cittadino di un determinato Stato, spesso per conflitti burocratici tra Stati diversi, si rientra nella fattispecie di apolidia de facto. In realtà gli autori delle convenzione hanno voluto sottolineare questa distinzione, che però, nella pratica, è ininfluente, in quanto entrambe le categorie riceveranno la stessa protezione.
Le cause
L’elemento da cui si deve partire per comprendere questo fenomeno è che l’apolidia è una situazione di costrizione esterna, voluta dal governo dello Stato e, quindi, non volontaria.
Tra le cause principali si trovano:
- ereditarietà dell’apolidia dai genitori o impossibilità a ereditare la loro cittadinanza;
- appartenenza a un gruppo sociale cui è negata la cittadinanza sulla base di una discriminazione;
- status di profughi a seguito di guerre o occupazioni militari;
- motivazioni burocratiche, come il dissolvimento di uno Stato e la conseguente formazione di nuovi Stati nazionali, che non riconoscono le cittadinanza precedenti;
- conflitti nella legislazione tra Stati;
- usanza di trasmettere la cittadinanza solo per via paterna, sicché in caso di decesso, abbandono o sparizione del padre il minore non può essere considerato cittadino dello Stato.
In sostanza essere apolidi significa non esistere, quindi non avere diritti né alcun tipo di tutela ed essere vittima di detenzioni illegittime e lunghe.
Le convenzioni
Date tutte le premesse, gli strumenti normativi al momento in vigore sono di fondamentale importanza.
La Convenzione del 1954 trae spunto e fondamento dall’Art.15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 in cui viene stabilito che: “Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza”.
Nel suo articolo di apertura stabilisce la definizione dello status di apolide dichiarando che: Art.1 : “Ai fini della presente Convenzione, il termine «apolide» indica una persona che nessuno Stato considera come suo cittadino nell’applicazione della sua legislazione”, definendo quindi l’apolidia come una situazione negativa,cioè di mancanza.
Questa definizione generale è accompagnata da un chiarimento contenuto nel II comma, in cui la Convenzione esonera dallo status di apolide:
- le persone che beneficiano attualmente di una protezione o di un’assistenza da parte di un organismo o di un’istituzione delle Nazioni Unite che non sia l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, fin tanto che beneficeranno di detta protezione o assistenza;
- le persone considerate dalle autorità competenti dei Paese nel quale le stesse hanno stabilito la loro residenza come aventi i diritti e gli obblighi connessi al possesso della cittadinanza di questo Paese;
- le persone delle quali si avranno fondate ragioni per credere: a) che hanno commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità, ai sensi degli strumenti internazionali elaborati per prevedere disposizioni relative a questi crimini, b) che hanno commesso un crimine grave di diritto comune fuori del Paese di residenza prima di esservi ammesse, c) che si sono rese colpevoli di atti contrari agli scopi ed ai principi delle Nazioni Unite.
Altro punto importante è nell’Art.12 che afferma: “Lo statuto personale di un apolide è determinato in base alla legge del paese di domicilio o, in mancanza di un domicilio, in base alla legge del paese di residenza.”
Ecco quindi che il riconoscimento dello status, che è di tipo dichiarativo (cioè deriva dalla sola rispondenza ai requisiti), è comunque legato allo Stato con cui il richiedente ha dei legami, siano essi di nascita, di residenza o per motivi coniugali.
Il punto cardine di questa Convenzione sta nell’affermare che nessun apolide deve ricevere un trattamento inferiore o peggiore rispetto a un qualsiasi soggetto, anche straniero per il Paese, a cui è riconosciuta una cittadinanza. Ciò perché la posizione giuridica di un apolide è di gran lunga più fragile di quella di chiunque altro soggetto cittadino; per questo si stabiliscono i diritti fondamentali da riconoscere come diritto all’identità e a documenti di riconoscimento, all’accesso all’istruzione, alla sanità e alla difesa, che altrimenti sarebbero preclusi. Allo stesso modo stabilisce chiaramente nell’Art.2 che il soggetto deve: “conformarsi alle leggi ed ai regolamenti, come pure alle misure prese per il mantenimento dell’ordine pubblico.”
La Convenzione affronta anche il problema del particolarismo con cui ogni Stato si relaziona rispetto al concetto di cittadinanza, cercando di costituire una base uniforme e omogenea per il riconoscimento al diritto di cittadinanza, attraverso un binomio che lega lo Stato al cittadino. In questo modo compie un passo in più, in quanto la nazionalità di cui si parla è intesa in senso formale, quindi con una natura politico-legale in termini reciproci di diritti-dovere che intercorrono tra i protagonisti e non di tipo identitario.
Dall’altra parte, la Convenzione del 1961, invece, indica gli strumenti per contrastare questo fenomeno, attraverso un complesso sistema di interazione fra Stati e fra individui. In essa infatti si trovano obblighi a carico degli Stati grazie ai quali si chiede loro di intervenire per porre rimedio a situazioni di apolidia improvvise o ereditarie. Nell’Art.1 è chiarito che “Ogni Stato Contraente concederà la propria cittadinanza a una persona nata nel suo territorio che sarebbe altrimenti apolide.”. Riporta poi che la cittadinanza dovrà essere concessa o per legge o per istanza presentata all’autorità competente, stabilendo che solo in pochissimi casi si potrà respingere la richiesta.
Anche se questo fenomeno è spesso taciuto, ha una portata vasta e pesante per chi si trova in questa condizione e per tale motivo le organizzazioni internazionali premono per il riconoscimento dello status di apolide da parte degli Stati; è vero che molti di questi hanno ratificato le Convenzioni, ma spesso hanno apposto clausole di deroga. Il problema che continua a persistere è che anche nei casi in cui un soggetto sia del tutto rispondente ai requisiti per ottenere automaticamente la cittadinanza in base alla legge dello Stato, l’ultima parola è delle autorità governative e non della legge. Questo si verifica quando nello Stato è in atto una discriminazione nei confronti di un gruppo di soggetti, ignorando non sole le norme nazionali ma anche quelle internazionali e convenzionali.
Fonti e Approfondimenti:
Fai clic per accedere a CONVENZIONE_SULLO_STATUTO_DEGLI_APOLIDI__DEL_1954.pdf
Fai clic per accedere a CONVENZIONE_SULLA_RIDUZIONE_DELL_APOLIDIA_1961.pdf
Fai clic per accedere a Nazionalit__e_apolidia_-_Manuale_per_i_parlamentari_2008.pdf
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