Consumo sostenibile e life cycle thinking: come sono collegati?

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Lo sviluppo sostenibile, secondo la definizione del Rapporto Brundtland, è inteso come il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri. Tale concetto è ormai diventato parola chiave in politiche nazionali e internazionali, nella produzione industriale e nel consumo, per riuscire a limitare sia l’inquinamento sia l’uso insostenibile delle risorse naturali su cui si basa lo sviluppo economico e i diritti sociali di base quali cibo, acqua, energia, lavoro, istruzione e assistenza sanitaria (L’economia della ciambella, Rawort 2017).

Come individui e consumatori, le scelte che facciamo ogni giorno in trasporti, abbigliamento o cibo, hanno un impatto sull’ambiente ben preciso di cui risulta spesso difficile tener conto. Nel momento in cui decidiamo di tenerne conto e fare scelte più rispettose per l’ambiente, ci affidiamo automaticamente a una struttura intuitiva che può essere definita “folklore ambientale”, ovvero quella sensazione di aver fatto la scelta giusta quando decidiamo di usare una busta di carta piuttosto che una di plastica, compriamo un’auto elettrica o caffè in capsule biodegradabili. Tale folklore ambientale non è però, nella maggior parte dei casi, basato su considerazioni scientifiche. Si basa più spesso sulla nostra esperienza diretta, sulla umana tendenza a optare per le soluzioni più semplici o, peggio, viene influenzato dal marketing.

Purtroppo, soluzioni semplici sono molto difficili da trovare. Siamo infatti parte di sistemi estremamente complessi: i sistemi umani in cui comunichiamo e interagiamo, i sistemi industriali che costituiscono la nostra economia e l’ecosistema naturale. Ogni scelta che facciamo ha un impatto su ognuno di questi sistemi, che dipendono l’uno dall’altro. Per fare scelte davvero più sostenibili dobbiamo quindi prendere coscienza di queste interconnessioni, acquisendo quella che è chiamata “prospettiva di sistema”. Tale prospettiva può infatti essere applicata ai prodotti che consumiamo ogni giorno, iniziando a identificarli in tutte le fasi del loro ciclo di vita.

Tutto ciò che viene creato passa inevitabilmente attraverso diverse fasi del ciclo di vita che sono estrazione delle materie prime, produzione, imballaggio, trasporto, uso e smaltimento. In ogni singola fase avviene un’interazione con l’ambiente naturale, che può essere monitorata attraverso uno strumento scientifico chiamato Valutazione del ciclo di vita o, più comunemente, Life Cycle Assessment (LCA). Questo strumento consiste nella raccolta di dati riguardo emissioni, uso del suolo e uso energetico, per tutte le varie fasi del ciclo di vita dei prodotti, dalla “culla alla tomba” (cradle to grave), ovvero dall’estrazione dei materiali necessari alla produzione fino allo smaltimento finale, utilizzando questi dati per quantificare l’impatto ambientale di ognuna di queste fasi. L’impatto ambientale viene calcolato e classificato in diverse categorie di impatto, tra le quali: potenziale di riscaldamento globale (Global Warming Potential), potenziale di acidificazione di suolo e acque, potenziale di eutrofizzazione (ovvero eccessiva presenza di nutrienti), potenziale di danneggiamento dello strato di ozono etc.

La potenzialità di questa analisi sta nel riuscire a individuare quali sono, nel ciclo di vita di un prodotto, le fasi più inquinanti e che influiscono di più sui sistemi e servizi che rendono possibili la vita sulla Terra, fornendo strumenti di conoscenza che possano portare a interventi mirati per il miglioramento delle performance ambientali di ciò che produciamo. Ma soprattutto, i risultati di queste analisi sono spesso facilmente comunicabili a un pubblico più ampio di consumatori i quali possono affidarsi a considerazioni scientifiche nella guida alle loro scelte quotidiane, evitando di essere trascinati da folklore ambientale o dal marketing.

Ecco esempi di alcune false credenze sfatate da questi studi:

Meglio scegliere una busta di carta o una busta di plastica?

Di fronte a questa scelta al supermercato, la mente di tantissime persone di solito associa la carta a biodegradabilità, al fatto che sia più “naturale” e in alcuni casi riciclabile, mentre associa la visione della busta di plastica a immagini simili:

Alcuni studi di Valutazione del ciclo di vita (LCA) che hanno comparato gli impatti di una busta di plastica con quelli di una busta di carta, hanno mostrato invece per tutte le categorie di impatto, con l’eccezione della categoria di rischio di dispersione di rifiuti (Risk of litter), la busta di carta ha impatti ambientali maggiori della busta di plastica. Essa infatti è 4 volte peggiore della busta di plastica per consumo di acqua, 3 volte peggiore per emissioni di gas serra, 14 volte peggiore per eutrofizzazione di bacini acquiferi (che porta a una crescita eccessiva di alghe e a sottrazione di ossigeno), quasi 2 volte peggiore in termini di acidificazione atmosferica (con effetti negativi sulla salute umana e su diversi ecosistemi). Questo perché le buste di carta sono 6-10 volte più pesanti, richiedono una quantità maggiore di materiale estratto che, coltivato, richiede grandi quantità di fertilizzanti responsabili del grande impatto sull’eutrofizzazione; inoltre occupano più spazio nel caso in cui finissero in discarica e possono essere usate una quantità inferiore di volte rispetto alle buste di plastica.

Il riuso delle buste (come di qualsiasi oggetto in generale) da parte del consumatore è infatti fondamentale, e non solo per quanto riguarda la plastica, ma anche materiali come il cotone. In uno studio della U.K Environmental Agency è stata messa a confronto una normale busta di plastica del supermercato (HDPE bag) con buste di altri materiali, tra i quali anche il cotone, materiale a vita più lunga. I risultati hanno dimostrato che una borsa di cotone, per raggiungere le performance ambientali di una busta di plastica di cui non è stato fatto un secondo utilizzo, dovrebbe essere riutilizzata 131 volte e 393 se venisse paragonata a una busta di plastica riutilizzata 3 volte. Il cotone infatti è un materiale che richiede un grandissimo uso di risorse come il suolo e l’acqua, nonché di pesticidi e di inquinamento dovuto al trasporto su lunghe distanze.

Ancora una volta, la funzionalità definisce l’impatto ambientale.

Biodegradabilità

Questa parola, largamente sfruttata dal marketing, viene molto usata nelle conversazioni quando si parla di sostenibilità. Biodegradabilità è però una proprietà dei materiali, non la definizione di benefici ambientali. Quando qualcosa di naturale fatta di fibra di cellulosa, come la carta, o qualunque rifiuto da cibo finisce nell’ambiente, si degrada normalmente. Le cellule di carbonio che ha immagazzinato crescendo vengono naturalmente rilasciate nell’atmosfera sotto forma di anidride carbonica.
Nella società in cui viviamo, però, e ancora in molti Paesi del mondo, la maggior parte delle cose naturali non finiscono in natura. I rifiuti organici, biodegradabili, che noi produciamo, spesso finiscono in discarica dove quelle stesse molecole di carbonio si degradano diversamente, perché una discarica è anaerobica, non ha ossigeno. Quelle stesse molecole diventano quindi metano, gas serra 25 volte più potente dell’anidride carbonica. Perciò, tutti i prodotti biodegradabili che abbiamo buttato, se finiti in discariche dove il metano prodotto non è stato recuperato (per sostituire l’energia da combustibili fossili), contribuiscono al cambiamento climatico.

Auto elettriche ed emissioni

Uno studio dell’International Energy Agency (IEA) prevede che il numero di veicoli elettrici su strada a livello mondiale triplicherà entro la fine del 2020, passando da circa 3,7 a 13 milioni. Le batterie utilizzate per mettere in moto questi veicoli saranno prevalentemente batterie al litio, motivo principale per cui i veicoli elettrici, considerati nel loro intero ciclo di vita, possono generare più emissioni rispetto a modelli a benzina o diesel. Ciò è dovuto a tre principali fattori:

  • Produrre un’auto elettrica contribuisce al Global Warming Potential, in media, due volte tanto rispetto a un’auto convenzionale ed è necessaria il doppio dell’energia per la produzione. Questo è dovuto principalmente alla batteria, la cui produzione richiede moltissima energia dall’estrazione dei materiali all’energia consumata nella manifattura;
  • Una volta in uso, un’auto elettrica risulta “green” quanto la fonte energetica da cui è ricaricata. Una batteria alimentata da energia a carbone sarà ovviamente più inquinante di una batteria alimentata ad energia solare. In questo caso è compito dei governi nazionali occuparsi di velocizzare la transizione ad energie rinnovabili;
  • Un’auto elettrica possiede un più alto impatto ambientale nelle prime fasi del suo ciclo di vita (acquisizione di materie prime, produzione), ma è meno impattante di un’auto convenzionale durante il suo utilizzo. Con il tempo e l’utilizzo si possono infatti compensare gli iniziali maggiori impatti ambientali e raggiungere quelli di un’auto convenzionale. Questo tipo di compensazione dipende dai chilometri percorsi dall’auto durante il suo utilizzo. Ad esempio, in Germania dove il 40% del mix energetico è prodotto dal carbone e il 30% da rinnovabili, un’utilitaria elettrica dovrebbe percorrere circa 125 000 chilometri se paragonata a un’auto diesel, o circa 60 000 chilometri paragonata con una a benzina.

Questo dimostra che per sbloccare il potenziale di benefici ambientali delle macchine elettriche serve molto più che il semplice aumento della produzione e del consumo. I sistemi in cui operano devono essere contemporaneamente più sostenibili allo stesso modo, e i sistemi di riciclo di materiali diventano fondamentali per usare il più efficientemente possibile le risorse che abbiamo.

Tutte queste considerazioni mettono alla luce quanto sia importante l’uso, o meglio, il riuso di qualsiasi prodotto. Fondamentale per una gestione più sostenibile delle risorse, espressa in una produzione industriale sostenibile, è anche la maggiore consapevolezza da parte dei consumatori dei processi che coinvolgono l’intero ciclo di vita dei prodotti acquistati. Una maggiore informazione e consapevolezza possono infatti tradursi in scelte davvero più utili per l’ambiente, nonché dare un segnale forte ai grandi produttori che dalle nostre scelte dipendono.

 

Fonti ed approfondimenti

All About Bags – Paper Versus Plastic Bag Studies, 2012,
http://www.allaboutbags.ca/papervplasticstudies.html?fbclid=IwAR3_Qmn61M3IVfuXxGy9qzt3zQgsjJ0Lwl5-6KfAX7rw9OBU9SB8XXUYyFk

UN Environment, “Sustainable Consumption and Production: an operational approach to sustainability”,
http://www.oneplanetnetwork.org/sites/default/files/briefings_on_scp.pdf

Wageningen Food and Biobased Research, “Bio-based and biodegradable plastics – Facts and Figures”, Aprile 2017,
https://www.kidv.nl/7491/biobased-facts-and-figures-wur.pdf?ch=DEF

Life Cycle Initiative, “What is Life Cycle Thinking?”, 2018,
https://www.lifecycleinitiative.org/starting-life-cycle-thinking/what-is-life-cycle-thinking/

TED-Ed, “The life cycle of a t-shirt”, 5 Settembre 2017
https://www.youtube.com/watch?v=BiSYoeqb_VY

The Guardian, “The rise of electric cars could leave us with a big battery waste problem” 10 Agosto 2017
https://www.theguardian.com/sustainable-business/2017/aug/10/electric-cars-big-battery-waste-problem-lithium-recycling

GreenBiz, “How batteries could charge up the fight against climate change”, 5 Gennaio 2018,
https://www.greenbiz.com/article/how-batteries-could-charge-fight-against-climate-change

TED, “Leyla Acaroglu: Paper Beats plastic? How to rethink environmental folklore”, 11 Febbraio 2014
https://www.youtube.com/watch?v=2L4B-Vpvx1A&fbclid=IwAR3Gqqv0i3G8BMv3zwYERDYMpfb-9iIoBcGVkqWhIxGMZVPu_aY3HmFZHBI

 

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