L’Aba Women’s Riot del 1929 fu una ribellione di due mesi scoppiata in Nigeria condotta dalle donne del mercato locale appartenenti alla tribù Igbo contro gli eccessivi poteri del governo britannico e dei suoi capi di mandato al culmine del colonialismo.
La ribellione fu innescata dall’imposizione di una politica fiscale sfruttatrice delle donne, che erano esentate dalle tasse secondo la tradizione Igbo. La trama e i risultati di questo evento forniscono solo uno tra i numerosi esempi nella lunga storia dell’Africa in cui il continente è stato spinto ad abbracciare i valori liberali classici, creando un netto contrasto con le tradizioni locali e minacciando la libertà dei popoli.
Il dominio coloniale indiretto
Apprendendo dalle carenze dell’approccio assimilatorio francese nelle sue colonie africane e tenendo conto della riluttanza del governo britannico a impegnarsi finanziariamente nei suoi protettorati, il governatore generale responsabile della Nigeria, Frederick Lugard, adottò un sistema di dominio indiretto. Questo sistema consentiva ai capi tradizionali e ai capi di mandato – ovvero le elìtes indigene scelte dagli inglesi per amministrare i territori coloniali – di servire come rappresentanti della Regina del Regno Unito piuttosto che servirsi direttamente di personale britannico. Ciò permise ai colonialisti di risparmiare una grande quantità di manodopera, che venne impiegata nelle tantissime miniere di Igboland.
Ma mentre i britannici erano impegnati a sfruttare le risorse della colonia per industrializzare la Gran Bretagna, i capi dei mandati si fecero potenti e dispotici, fino ad arrivare a estorcere denaro alle popolazioni a loro soggette imponendo multe a seguito di accuse irragionevoli. Si impadronirono di proprietà private a volontà e brutalizzarono chiunque si opponesse alla loro autorità.
Al contrario, nell’Igboland pre-coloniale, i leader venivano sempre eletti, non imposti. I loro sistemi amministrativi erano altamente decentralizzati ed egualitari. Rifiutavano qualsiasi forma di concentrazione di potere, al contrario, attuavano sistemi di decentralizzazione dell’autorità attraverso la creazione di gruppi di coetanei e clan che insieme costituivano la comunità.
Preludio e scoppio della protesta
Negli anni ’20, il governo britannico fu criticato per non aver sviluppato le colonie nonostante avesse guadagnato molto da loro. Era lo stesso periodo in cui la Gran Bretagna si stava riprendendo dalla perdita finanziaria della prima guerra mondiale.
Per raccogliere fondi, i colonialisti dovettero ricorrere a mezzi interni di generazione di reddito: tra questi, l’imposizione della tassazione diretta alle donne e il calcolo del numero di figli, di capi di bestiame e altre proprietà personali come beni tassabili.
Per essere a conoscenza dell’esatto numero della popolazione, gli inglesi organizzarono un censimento, che le popolazioni identificarono immediatamente come strettamente legato alla nuova politica fiscale. Le donne del mercato si preoccuparono dei possibili effetti della nuova normativa fiscale sulle loro attività e del modo in cui avrebbero tenuto il passo con i numerosi oneri finanziari imposti dai capi di mandato.
Decisero così di consultare il governo coloniale, per chiedere di poter preservare il loro status di esenzione fiscale, ma la loro richiesta fu respinta. Volendo difendere a tutti i costi la loro libertà, le donne si impegnarono in una protesta contro il governo britannico, continuando a non pagare le tasse ed impedendo a ogni estraneo di contare le loro proprietà.
Tuttavia, durante uno dei conteggi, un litigio tra un ufficiale del censimento e una vedova in uno dei villaggi provocò un assalto alla vedova. La notizia raggiunse un raduno di donne del mercato nella piazza della città, mentre discutevano della nuova politica fiscale. Le donne, furiose, mobilitarono le colleghe dei villaggi vicini e andarono all’ufficio del capo di mandato locale per chiederne le dimissioni.
La protesta crebbe e da un pacifico sit-in si trasformò nella più feroce resistenza che gli inglesi abbiamo mai affrontato nelle loro colonie africane.
La conseguenza fu la distruzione delle infrastrutture governative e delle fabbriche di Igboland, che le truppe coloniali e la polizia cercarono di contrastare con forza brutale. Oltre 25.000 donne furono coinvolte, decine delle quali furono uccise o picchiate duramente.
I risultati della protesta
A seguito delle proteste, la posizione delle donne nella società migliorò notevolmente e in alcune aree riuscirono addirittura a sostituire i capi di mandato. Altre donne furono nominate per servire nelle Corti native.
Dopo la protesta, i movimenti di donne furono molto forti in Ngwaland, e molti eventi degli anni ’30, ’40 e ’50 furono ispirati da esse; tra questi, le proteste fiscali del 1938, le proteste del frantoio degli anni ’40 nelle province di Owerri e Calabar e il rivolta fiscale ad Aba e Onitsha nel 1956.
In alcune occasioni ufficiali distrettuali britannici furono chiamati in causa e le forze di sicurezza furono costrette a rompere le proteste. In quelle occasioni, almeno 50 donne sono state uccise a colpi di arma da fuoco e altre 50 ferite. D’altra parte le donne stesse non hanno mai ferito gravemente nessuno contro il quale stavano protestando.
Conclusioni
In breve tempo, la notizia della resistenza si diffuse in tutto il mondo, ispirando altri gruppi minoritari in Africa. La ribellione, naturalmente, non mise fine al colonialismo, ma rafforzò le basi di sostegno di quella parte dell’amministrazione indigena tendenzialmente inclusiva e, in una certa misura, la lotta per l’indipendenza. Il coraggio di queste donne nel preservare le loro proprietà e i loro diritti tradizionali combattendo un potente sistema sottolinea lo spirito di intolleranza dell’Africa nei confronti della tirannia.
Infatti, molte tribù africane erano organizzate secondo principi anarchici e prosperavano senza una pianificazione centrale, in pratica senza un governo. Tra queste gli Igbo e gli Ijaw in Nigeria, i Tallensi in Ghana, i Logoli in Kenia, i Tonga in Zambia e i Nuer in Sud Sudan.
In misura maggiore o minore, la maggior parte delle società tradizionali africane hanno manifestato “elementi anarchici”, alcuni dei quali persistono ancora oggi.
I valori tradizionali furono messi alla prova duramente durante il colonialismo e l’Africa perse gran parte il suo modo di vivere tra la forte fusione di diversi gruppi etnici negli stati coloniali. L’Aba Women’s Rebellion è purtroppo uno degli ultimi racconti dei veri valori africani.
Sfortunatamente, l’Africa contemporanea è l’opposto di ciò che gli antenati della regione lottarono risolutamente per realizzare. Il continente si perde nella povertà mentre i tiranni e i loro compari saccheggiano le risorse senza essere ritenuti responsabili. Ma per i pochi libertari africani di oggi, il coraggio delle donne di Aba dovrebbe ispirare maggiori sforzi per combattere questo potere.
Fonti e approfondimenti
- All Africa, Premium Times, Aba Woman’s Riot comes alive in August Meeting, October 2018
- Reterdeen, The Aba Woman’s Riot: an Untold Story. February 2019
- BLACKPAST, Aba Women’s Riot, Marissa Evans, March 2009
- The Igbo Women’s War, Camilla Power, 1992
- PULSE.NG, The unforgettable story of courage, bravery, and rebellion, 2017
- PULSE.NG, The real story behind the Aba women’s riot and the list of people that died, ADAOBI ONYEAKAGBU 2018
- American Historical Association, Riot or Rebellion? The Aba Women’s Market Rebellion 1929
- African Liberty, The Aba Women’s Riots of 1929: Africa’s Great Tax Revolt
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