Gli antichi palazzi nobiliari del centro di Mosca, San Pietroburgo e altre grandi città russe non sono solo patrimonio storico e artistico. Questi maestosi edifici, oggi spesso lasciati all’incuria del tempo, raccontano un importante pezzo di storia della Russia, saldamente intrecciata al presente. In molti casi si tratta, infatti, di kommunalki, abbreviazione di kommunal’nye kvartiry, “appartamenti in comune”.
Oggi ripercorriamo questo importante fenomeno urbanistico e sociale che, dall’inizio degli anni Venti, ha condizionato la vita quotidiana di molti cittadini sovietici, e continua a farlo nella Russia di oggi.
Il 1918 e l’esproprio degli alloggi
Per risalire all’origine delle kommunalki, bisogna ritornare al 1917. Dopo la presa del Palazzo d’inverno, il potere bolscevico abolì la proprietà privata con un decreto poi ratificato nella Costituzione del 1918. A partire dal 1917, il neonato regime sovietico si impegnò in una ridefinizione della vita politica, sociale, civile e privata dei suoi cittadini.
La dimensione spaziale fu protagonista indiscussa di questa rivoluzione: dalle toponimie (San Pietroburgo diventa Leningrado) alla progettazione architettonica di ispirazione collettivista, come la dom-kommuna costruttivista.
Lo sconvolgimento della spazialità dei cittadini sovietici ebbe ripercussioni notevoli soprattutto nella quotidianità. Dal 1917, di pari passo con la Nuova politica economica (NEP) di Lenin, le abitazioni vennero mano a mano espropriate ai privati più abbienti, e redistribuite fra la popolazione. Nel 1929, parallelamente alla brusca interruzione della NEP e all’avvio dei Piani quinquennali di Stalin, le proprietà immobiliari vennero definitivamente dichiarate statali. A ciascun cittadino si assegnò una superficie abitativa pari a 9 m2. La misura andò progressivamente a ridursi, fino a raggiungere i soffocanti 4,97 m2 alla fine degli anni Cinquanta.
Gli appartamenti espropriati vennero trasformati in complessi abitativi ripartiti fra più famiglie, che ne pagavano l’affitto allo Stato. Nelle ampie stanze nobiliari vennero eretti muri e tramezzi: i grandi ambienti venivano normalmente divisi in due, talvolta tre stanze a uso di mini-appartamenti, ognuno dei quali poteva ospitare un nucleo famigliare di anche cinque persone. Si trattava della politica della cosiddetta “condensazione”, dal russo utoplenie.
Ripensare la socialità
Così come vennero riprogettate la toponimia, l’architettura e la sistemazione abitativa, allo stesso modo fu stravolto il tessuto sociale urbano. Le grandi stanze dei palazzi storici, un tempo rifugio di letterati, scienziati e artisti, vennero assegnate a famiglie di più modesta estrazione, spesso e volentieri estranee fra loro, in un grande rimodellamento politico e sociale. Nelle stanzette ricavate dagli eleganti appartamenti del centro si insediarono famiglie perlopiù operaie.
A pochi ex proprietari privilegiati veniva talvolta concessa qualche settimana per trovare autonomamente i nuovi inquilini, e dunque vivere con persone conosciute e fidate. Al fine di adattarsi alla nuova politica di “condensazione” imposta dalle autorità sovietiche, gli inquilini potevano anche unirsi spontaneamente in “associazioni cooperative abitative” di vario tipo, sostanzialmente autogestite. Queste associazioni scomparvero a metà degli anni Trenta, con l’irrigidirsi del regime stalinista.
Parallelamente all’esproprio degli alloggi di proprietà, dalla seconda metà degli anni Venti vennero costruiti ex novo nuovi complessi abitativi a uso comune, la cui struttura seguiva la medesima logica delle kommunalki: una serie di stanze adibite ad appartamenti per famiglie, a cui corrispondevano cucina, bagno e lavanderia in comune.
Le kommunalki divennero così la tipologia abitativa più frequente, dove almeno cinque o sei famiglie si ritrovavano a condividere cucina, bagno, lavanderia e telefono. Questa nuova politica abitativa contribuì a ridisegnare il rapporto fra pubblico e privato. Scriveva il celebre autore Mikhail Bulgakov: “I caseggiati comunali sono senza pareti e hanno mille occhi”. Non era raro, infatti, che a rendere ancora più angusto il clima delle kommunalki vi fossero meccanismi di delazione fra conviventi. Lo Stato trovava facilmente informatori fra i coinquilini, soprattutto laddove abitavano cittadini considerati “sospetti”.
Anche in scenari più rosei, la condivisione assoluta degli spazi estendeva l’abolizione del privato agli aspetti più intimi della vita personale degli individui. Vi era infatti totale assenza di privacy: diverse famiglie erano costrette a condividere un appartamento, e membri della stessa famiglia vivevano insieme in una sola stanza. Ogni aspetto della vita quotidiana degli inquilini, dagli odori della cucina ai panni stesi, cessava di essere privato e diventava pubblico. Questo “annullamento dell’io” ha reso le kommunalki protagoniste indiscusse di numerose opere letterarie sovietiche e post-sovietiche, spesso come metafora del controllo sociale del regime stalinista.
Il tentativo di liquidazione
A fine anni Trenta le politiche abitative cominciarono ad allentarsi, e si iniziarono a costruire alloggi statali composti da appartamenti separati, riservati a individui considerati particolarmente meritevoli per i servizi svolti allo Stato. Nel 1948, la proprietà privata fu parzialmente reintegrata, con un decreto che dava ai cittadini e alle cittadine il diritto di comprare o costruire un’abitazione privata.
Alla fine degli anni Cinquanta, il governo sovietico iniziò a intensificare la costruzione di grandi condomini e complessi residenziali per i cittadini. Si tentò di superare il modello delle kommunalki con nuove politiche pubbliche, incentrate sull’idea di assegnare a ogni famiglia un appartamento privato.
Le kommunalki lasciano così spazio alle khrushchevki, palazzine prefabbricate di cinque piani con appartamenti identici ma indipendenti. Vennero così soprannominate perché ideate dall’allora presidente Nikita Khrushchev: il suo piano abitativo del 1957 era volto alla liquidazione della kommunalka, ormai considerata alla base di un netto peggioramento della qualità della vita degli inquilini, causato dalla convivenza forzata e dal ristretto spazio personale.
Tuttavia, le kommunalki sono rimaste abitate durante tutto il periodo sovietico e oltre, resistendo allo scorrere del tempo e al mutare del quadro legislativo.
Le kommunalki post-sovietiche
Dopo il 1991 e la reintroduzione della proprietà privata tramite il sistema dei voucher, le kommunalki vennero privatizzate pressoché gratuitamente. Gli assegnatari e inquilini delle stanze poterono diventarne i legittimi proprietari, e acquistarne di nuove. In alcuni casi, più rari, le stanze rimasero di proprietà dello Stato.
È importante sottolineare che, vista la redistribuzione operata durante l’URSS, gli ex palazzi nobiliari non furono privatizzati secondo il disegno dei grandi appartamenti originali, bensì secondo quello delle piccole stanze ricavate tramite la politica della “condensazione”.
Si è giunti perciò a una situazione paradossale in cui cittadini e cittadine sono proprietari di una o più stanze all’interno dei grandi appartamenti. Di conseguenza, nella maggior parte dei casi, gli appartamenti non appartengono a un unico individuo. Il problema principale, quindi, è che bagno, cucina, lavanderia e altri spazi comuni non appartengono, di fatto, a nessuno, essendo impossibili da spartire fra i proprietari delle singole stanze. A fine anni Novanta si tentò di porre rimedio alla scomoda situazione con la riabilitazione delle “cooperative abitative”, con scarsi risultati.
Le kommunalki continuano pertanto a esistere, in modalità privata. San Pietroburgo ospita il più alto numero di kommunalki in Russia, grazie anche alla densità altissima di antichi edifici residenziali nobiliari nel centro della città. In esse oggi vivono perlopiù giovani studenti e lavoratori, e persone appartenenti alle fasce di reddito più basse, come gli immigrati delle ex repubbliche sovietiche meridionali e orientali. Si tratta, infatti, degli alloggi più economici e convenienti in termini di posizione geografica.
Le kommunalki sono spesso romanticizzate dalla cultura di massa, e dal generale ritorno all’estetica sovietica degli ultimi anni, intriso di nostalgia. La realtà è, però, ben diversa: con servizi, strutture e impianti vecchi ormai più di cent’anni, spesso in queste abitazioni le persone vivono in condizioni precarie, specialmente quando le singole stanze sono abitate da intere famiglie. Non mancano i casi di stanze interamente ristrutturate in appartamenti con gli spazi comuni rimasti immutati dall’inizio del Novecento, e dunque molto malmessi.
Nella maggior parte dei casi, i proprietari delle stanze in affitto non si conoscono e non hanno interesse a investire in onerosi lavori di ristrutturazione di antichi immobili di pregio, poiché riescono ad affittare le stanze nonostante le condizioni precarie degli spazi comuni della kommunalka.
Nel 2008, le kommunalki di San Pietroburgo erano più di centomila. Coerentemente con gli obiettivi di modernizzazione dell’allora neo-presidente Dmitriy Medvedev, la città autonoma lanciò quello stesso anno un piano di liquidazione delle kommunalki e di riallocazione degli inquilini entro il 2016, per migliorare sensibilmente la qualità della vita della popolazione. Il piano prevedeva il trasferimento degli inquilini delle kommunalki in appartamenti singoli di nuova costruzione, spesso in zone periferiche della città.
Il piano si è rivelato di difficile attuazione, ed è tuttora rimasto incompleto. Innanzitutto, per entrare nelle “liste di idoneità”, gli inquilini devono soddisfare numerosi criteri, tra i quali vi sono un numero minimo di membri del nucleo famigliare e l’aver vissuto in kommunalka per un determinato periodo. Tra i criteri più difficili da soddisfare vi è sicuramente quello di raggiungere l’accordo fra tutti gli inquilini della kommunalka: il piano prevede la logica del “tutti o nessuno”, per cui gli appartamenti devono essere svuotati per intero. Questo rende il trasferimento difficile, poiché molti inquilini potrebbero rifiutare l’opportunità di trasferirsi a causa di esigenze diverse (come il non volersi allontanare dal centro).
Inoltre, per poter presentare la domanda di trasferimento, la kommunalka deve essere riconosciuta come tale a livello burocratico. Tuttavia, alcune kommunalki non hanno mai ottenuto il riconoscimento ufficiale del loro status di appartamenti a uso comune, probabilmente a causa del turbolento riassetto burocratico seguito al crollo dell’URSS.
Il risultato di queste complicazioni burocratiche è che, nel 2018, solo 44.000 appartamenti singoli di nuova costruzione risultavano assegnati a ex inquilini delle kommunalki. A San Pietroburgo si stimavano ancora 71.000 kommunalki, ospitanti circa 233.000 famiglie. Di esse, solo 83.000 erano registrate nelle liste d’attesa per il trasferimento nei nuovi appartamenti.
Le kommunalki del presente
Nelle parole di Svetlana Boym, scrittrice, drammaturga e professoressa di Harvard:
“L’appartamento in comune era la pietra miliare della civilizzazione sovietica, che ora sta scomparendo. Era una forma di vita urbana specificamente sovietica, un ricordo di un’utopia comunista mai realizzata, un’istituzione di controllo sociale, e un terreno fertile per gli informatori della polizia segreta fra gli anni Venti e gli anni Ottanta. È un posto in cui nacquero molte battaglie per la ricostruzione della quotidianità, molte delle quali vennero perse.”
La kommunalka è stata il fulcro delle politiche abitative sovietiche. È stata la prima pietra miliare per il ripensamento della società in senso collettivista, ha stravolto le abitudini quotidiane e la concezione di pubblico e privato dei cittadini russi. Ad oggi, di questa pratica rivoluzionaria sono rimasti strascichi dalle diverse sfaccettature.
C’è la meno drammatica, ma comunque problematica, gentrificazione delle kommunalki, per cui le vecchie stanze malridotte dei palazzi in rovina diventano l’equivalente dei loft di design più esclusivi e costosi – il centro nevralgico della riscoperta dell’identità post-sovietica. Ci sono le gravi condizioni di indigenza in cui versa una parte significativa degli inquilini delle kommunalki, a cui le recenti politiche abitative non hanno saputo porre rimedio. C’è poi la retorica nostalgica, idealizzata e romanticizzata, per cui le kommunalki sono l’ultimo avamposto di un mondo sempre più lontano, spesso considerato migliore.
Al di là delle molteplici sfaccettature e ripercussioni del fenomeno, rimane il fatto che le kommunalki sono state tra i veicoli principali del collettivismo forzato dell’URSS, e un importante punto di partenza per il rimodellamento della società sovietica. Oggi, sono uno dei tanti ponti che legano indissolubilmente la Russia al proprio passato sovietico. Conoscere e comprendere questo legame è fondamentale per capire la società post-sovietica, le sue caratteristiche e le sue mancanze strutturali.
Fonti e approfondimenti
Правительство Санкт-Петербурга, Жилищный комитет, Санкт-Петербургское государственное бюджетное учреждение, Горжилобмен. Расселение коммунальных квартир
Maria Chiara Franceschelli, La nostalgia dell’Unione Sovietica in una Russia stremata, Lo Spiegone, 7.06.2019
Ol’ga Shtraus, Кто крайний в очереди?, Rossiyskaja Gazeta, 11.12.2018
Ilya Utekhin e Aleksandra Dadasheva, Краткая история жилищного вопроса, Arzamas
Laura Piccolo, Riscritture dello spazio urbano: l’appartamento in coabitazione (kommunal’naja kvartira) in Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture, a cura di F. Fiorentino e C. Solivetti, Macerata, Quodlibet, 2012. pp 187-200.
Svetlana Boym, Living in common places: the communal apartment. Chapter 2 in ‘Common places: mythologies of everyday life in Russia’ (Cambridge MA & London, 1994), pp. 121-167.
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