Il diritto internazionale islamico, cui si fa riferimento con il termine Siyar, è nato prima del diritto internazionale “occidentale” per rispondere alle esigenze dettate dalla rapida diffusione dell’Islam a partire dal VII secolo. Esso si sofferma sulla condotta e sul modo di agire dei musulmani nei confronti dei non musulmani. Due elementi fondamentali da tenere a mente, che differenziano il diritto internazionale islamico da quello tradizionale sono che il primo non costituisce un sistema di leggi separato, ma è un’estensione della legge sacra. In rispetto a ciò, infatti, le fonti sono le stesse della Shari’a . Inoltre, basandosi su fonti di diritto islamico, il Siyar ha carattere vincolante non solo per gli Stati ma anche per gli individui. Tuttavia, nel corso del tempo, anche i Paesi musulmani che hanno adottato la Shari’a in altri ambiti del diritto si sono conformati, con alcune eccezioni, al diritto internazionale tradizionale.
Siyar: principi cardine
La parola Siyar in arabo è il plurale di sira (condotta o modo di percorrere) e, basandosi sulla legge divina, delinea le relazioni tra Islam e mondo non islamico. All’interno del Siyar, quattro sono i concetti che meritano particolare attenzione:
- jihād (conflitto/guerra)
- dār al-Islam (territorio dell’Islam)
- dār al-‘ahd (territorio della tregua)
- dār al-harb (territorio della guerra)
Dunque, per alcuni secoli a partire dalla diffusione dell’Islam, la suddivisione del mondo dal punto vista del diritto islamico si è basata sulla sovranità religiosa più che sulla delimitazione statale. Da una parte vi era la “casa dell’Islam”, sottoposta al controllo politico e giuridico della religione islamica, in cui tuttavia potevano risiedere anche non musulmani; dall’altra vi era “la dimora della guerra”, cioè non governata dalla Shari’a. I rapporti con quest’ultima potevano essere – e in molti casi lo erano – mitigati da accordi di non aggressione o trattati di pace.
Non a caso, ai quattro concetti già evidenziati si affiancano una serie di altri termini fondamentali, come hudna or muwāda‘ah (tregua), sulh (armistizio), aman (tragitto sicuro), mithaq (patto). I dhimmi erano invece i sudditi di uno Stato governato dalla shari’a appartenenti alle cosiddette “religioni del Libro” – cristianesimo ed ebraismo – a cui era garantita una certa protezione e libertà di culto in cambio della jizya, un’imposta di capitazione.
Tuttavia, a partire dal XIX secolo, con il consolidamento dei diversi Stati nazione, anche nel mondo islamico sono stati introdotti sistemi, leggi e concetti giuridici, come cittadinanza e nazionalità, propri dell’Occidente. Dunque, seppur con qualche particolarità, ad esempio l’Arabia Saudita che applica la legge islamica per il commercio internazionale (a eccezione dell’industria petrolifera), la maggior parte degli Stati musulmani contemporanei ha adottato il diritto internazionale di matrice occidentale. Ciò è stato giustificato evidenziando come i principi promossi dall’Islam e dal suo diritto internazionale, tra i quali la fratellanza, il rispetto, l’uguaglianza e la giustizia, corrispondano o siano complementari a quelli promossi dalla carta delle Nazioni Unite.
In altre parole, ciò che ha reso possibile questa scelta da parte dei Paesi musulmani risiede nel fatto che, pur facendo formalmente e giuridicamente riferimento al diritto internazionale “occidentale”, questo non contraddice i valori dell’Islam. Molti Stati, infatti, hanno ratificato nel corso dei decenni trattati e accordi internazionali, facendo, al massimo, ricorso allo strumento della riserva (escamotage comunemente usato, per altri motivi, anche dagli Stati occidentali) per specifiche disposizioni ritenute in disaccordo con la Shari’a. È interessante a questo punto soffermarsi sul rapporto tra diritto islamico, uso della forza e diritto internazionale umanitario, mettendo in evidenza come e perché questi temi siano tornati al centro del dibattito pubblico negli ultimi decenni. Un approfondimento a parte, invece, merita il campo dei diritti umani, che rimane uno dei terreni più controversi e dibattuti tra Paesi occidentali e mondo islamico.
Guerra e pace
Se da una parte l’Islam abbraccia i principi del diritto internazionale tradizionale, dall’altra va ricordato che il Siyar è nato in un periodo storico in cui l’utilizzo della jihad in senso militare era funzionale a garantire ai musulmani la propria sopravvivenza e a diffondere i valori islamici tra i popoli di tutto il mondo. Tre erano le circostanze che legittimavano la guerra:
- aggressione contro i musulmani
- assistenza alle vittime di ingiustizie
- autodifesa
Il nemico aveva due possibilità per evitare che venisse dichiarata guerra: convertirsi all’Islam, o porre fine allo scontro per mezzo della riconciliazione o della stipulazione di un trattato. In ogni caso, le norme inerenti alla guerra e alla pace sono rimaste oggetto di interpretazioni diverse nel corso del tempo e ancora oggi vengono applicate diverse letture. Motivo per cui rappresentano una materia di forte dibattito. Il termine stesso jihad merita una precisazione linguistica dal momento che, come abbiamo approfondito in questo articolo, non ha necessariamente una connotazione violenta.
In particolare, a partire dall’ultimo ventennio del XX secolo, si è assistito a una tendenza sempre maggiore a utilizzare argomentazioni islamiche in merito a questioni internazionali inerenti alla guerra e alla pace. L’Egitto è stato il primo Paese musulmano a dichiarare guerra, invocando l’Islam, nel 1973 contro Israele. L’allora presidente egiziano Anwar Sadat, con il supporto degli studiosi islamici, riuscì a far emettere una fatwa, opinione giuridica, che legittimasse l’attacco nei confronti dello Stato israeliano. Dopo sei anni di conflitto, fu proprio un’altra opinione giuridica a permettere di stipulare un trattato di pace. Decenni dopo, l’Arabia Saudita ricorse alle fatwas nel caso della guerra del Golfo del 1990 per giustificare la presenza delle truppe “infedeli” statunitensi sul proprio territorio e l’attacco contro un altro Stato musulmano.
Anche gruppi non statali come Hamas, Hezbollah e Al-Qaeda, già dagli anni ’80 del secolo scorso, si sono rifatti a una propria interpretazione di termini e concetti del diritto islamico. Hamas, ad esempio, ha varie volte invocato i precetti islamici relativi all’hudna, vale a dire un “cessate il fuoco”, per giustificare la tregua con Israele nel contesto del conflitto israelo-palestinese. All’interno di questo panorama, Al-Qaeda e Isis incarnano gli interpreti più estremisti, sponsorizzando l’uso indiscriminato della forza nei confronti di chiunque si opponga all’Islam, o, anche se musulmano, collabori con potenze occidentali. All’interno della propaganda di questi gruppi, il termine jihad è utilizzato per sponsorizzare atti di terrorismo come una guerra necessaria a proteggere la propria fede e la propria terra.
Il terrorismo e la visione estremista di questi ultimi gruppi sono stati largamente condannati nel mondo islamico. Secondo l’interpretazione maggioritaria della Shari’a, infatti, nel momento in cui si dichiara guerra, il rispetto del diritto internazionale umanitario è fondamentale perché concede la possibilità di ridimensionare, per quanto possibile, il grado di distruzione e introdurre un certo livello di umanità all’interno del conflitto armato. La Shari’a regola, infatti, sulla base del principio di necessità e umanità, alcune restrizioni nel caso si ricorra all’uso della forza:
- I civili, non prendendo parte al conflitto, non devono essere attaccati
- La distruzione della proprietà è vietata, a meno che non sia necessario per scopi militari
- Alcune armi non possono essere utilizzate, perché il ricorso a esse violerebbe il punto 1
- È sancito il divieto di scudi umani e attacchi notturni
- È necessaria una gestione dei cadaveri che non violi il principio della dignità umana
Il diritto internazionale tradizionale tutela l’Islam?
Nonostante attori statali e non abbiano, dagli anni ’70, invocato la Shari’a in ambito internazionale, si può, tuttavia, concludere che l’applicazione del diritto internazionale islamico nel mondo contemporaneo rimane molto limitata. Il diritto internazionale, che per almeno tre secoli è stato un insieme di leggi che regolavano i rapporti tra Paesi europei e cristiani, è riuscito, in particolar modo con la nascita delle Nazioni Unite, a includere il complesso delle norme e dei principi che regolano i rapporti tra i soggetti di diritto, senza limitazione religiosa o territoriale. Dunque, le prerogative auspicate dall’Assemblea generale nella Carta Onu, nonostante le implementazioni ancora necessarie, non sono state del tutto disattese, e l’Islam ne è un esempio importante.
Fonti e approfondimenti
Ahmed Al-Dawoody, Islamic Law and International Humanitarian Law: An Introduction to the mail principles, International Review of the Red Cross (2017), 99 (3), 995–1018
Sheikh Wahbeh al-Zuhili, Islam and International Law, in International Review of the Red Cross (2015), Volume 87 No 858
Muhammed Munir, Islamic International Law (Siyar): An Introduction, in Hamdard Islamicus, Vol. XXXX, No. 4, (October-December 2012), pp. 37-60
Maurits Berger, Islamic views on International Law, Hague Academic Coalition, The Hague,2008
Labeeb Ahmed Bsoul, Historical Evolution of Islamic Law of Nations/Siyar: Between Memory and Desire, Digest of Middle East Studies, 2008
Chiara Guerrieri, il diritto umanitario nell’Islam, Centro Studi per la Pace, 2004
Carta delle Nazioni Unite, 26 giugno 1945
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