La storia del Medio Oriente del ‘900 è costellata di trattati firmati o scritti da potenze europee che hanno influenzato profondamente le vicende regionali. Centinaia di fili rossi hanno legato le peripezie vissute dai Paesi dell’area per decenni e partono proprio da questi documenti, che rimangono pietre miliari da seguire una dopo l’altra per ricostruire e comprendere le vicende attuali.
Sykes Picot è forse il trattato che viene ricordato di più in questa ottica. Nel suo libro “A line in the sand“, James Barr spiega come la divisione della regione tra zone di influenza britannica e zone di influenza francese abbia caratterizzato buona parte del Novecento e ancora oggi continui a influenzare dinamiche geopolitiche e identitarie nell’area. Ma se l’accordo del 1916 è l’esempio più famoso, molti altri trattati sono stati altrettanto cruciali: dalla dichiarazione Balfour del 1917 al primo trattato tra Arabia Saudita e Stati Uniti del 1945 fino al trattato di Sèvres del 1920, che forse più di tutti ha segnato i rapporti tra Europa e Medio Oriente, come afferma Nick Danforth su Foreign Policy.
Le firme del trattato di Sevrés hanno infatti messo fine all’epopea quasi millenaria dell’impero ottomano che, nato nel 1453 dalle ceneri dell’impero bizantino, ha dominato lunga parte dell’epoca medioevale e moderna. Dalle ceneri dell’impero ottomano sorse però la nuova Turchia, la quale vide emergere il proprio nazionalismo proprio tra le righe del trattato di Sèvres.
Il trattato
Il trattato di Sèvres di fatto rappresentò l’ultimo effetto della Prima guerra mondiale e sancì la definitiva spartizione del regno della Sublime Porta. L’impero era in ginocchio ormai da molti anni e durante la Prima guerra mondiale mostrò al mondo tutta la propria debolezza. Tolta infatti la sconfitta inferta agli inglesi a Gallipoli, l’impero cedette praticamente su tutti i fronti: l’esercito russo, nonostante le sue difficoltà, mise in fuga i Turchi al confine est e Lawrence d’Arabia con la guerriglia araba espose le difficoltà di gestione dell’immenso impero da parte del sultano.
L’impero ottomano prima della guerra è perfettamente rappresentato dall’immagine del gigante dai piedi di argilla. Il territorio sconfinato, le grandi risorse naturali e la grandissima disponibilità di uomini lo facevano sembrare un vero e proprio gigante, rallentato e indebolito però dalle profonde debolezze strutturali. Corruzione e malgoverno erano patologie endemiche nel territorio, mentre l’esercito era gestito in modo antiquato da generali poco aggiornati e poco motivati.
All’indomani del conflitto, Istanbul fu obbligata a lasciare larga parte dei suoi territori alle forze straniere vincitrici, che ne rivendicarono il diritto in base a vecchi titoli. Il trattato di Versailles del 1919 fece sì che la penisola araba e il Levante fossero spartiti tra Francia e Inghilterra, mentre l’Italia si assicurò il controllo sulle isole dell’Egeo. Se la perdita di questi territori fu un duro colpo per il Paese, quello che rese inaccettabile il Trattato di Sèvres dell’anno seguente fu la volontà europea di allungare il braccio coloniale fino al territorio stesso dell’Anatolia, cuore dell’impero.
L’impero fu infatti strappato di quasi tutti i suoi punti di forza e orgoglio: alla Grecia passarono le città di Smirne e di Adrianopoli, mentre lo stretto del Bosforo e dei Dardanelli furono dichiarati zona internazionale smilitarizzata. Istanbul fu anche obbligata a riconoscere la Repubblica armena, dopo il genocidio perpetrato dalle forze ottomane durante la Prima guerra mondiale, e venne aperta una discussione sulla creazione di uno Stato curdo.
Le potenze europee si dimostrarono cieche davanti alle possibili conseguenze dell’umiliazione che stavano infliggendo a una nazione che negli ultimi mille anni aveva dominato il cuore di due grandi continenti: Europa e Asia. Un errore, quello di Francia e Inghilterra, che ricorda l’umiliazione inflitta alla Germania nel trattato di Versailles.
La sindrome di Sèvres
La spoliazione del territorio di una parte dell’Anatolia e le altre umiliazioni inflitte alle forze ottomane gettarono le basi del nuovo nazionalismo turco di Mustafa Kemal e della cosiddetta “Sindrome di Sèvres”. La narrativa racconta questo evento come cruciale, una macchia nella storia della Turchia. Nella mentalità e nell’immaginario turco questo momento si è lentamente trasformato in una continua paura che forze straniere vogliano smembrare il cuore della nazione, la culla della sua identità: l’Anatolia.
Gli errori europei furono centrali nel favorire lo sviluppo di questa mentalità che ancora oggi aleggia sul Paese. Il trattato infatti non fu mai ratificato dal Parlamento turco, sciolto dalle potenze europee prima che potesse pronunciarsi; le potenze continentali cercarono in seguito di far legittimare il trattato – ormai visto da tutta la nazione come ingiusto e iniquo – dal Sultano Mehmed IV. Questi, forse l’unica istituzione ancora capace di guidare un Paese sull’orlo del collasso, dovette appoggiarlo e per questo fu totalmente delegittimato, lasciando spazio all’uomo che forgerà nel sangue la nuova identità turca: Mustafa Kemal.
Kemal, che già raccoglieva grandi consensi tra la popolazione come l’eroe di Gallipoli che aveva schiacciato le forze britanniche nella Prima guerra mondiale, si erse contro il trattato. Alla testa del nuovo esercito, il quale rappresentava la continuità e rappresenterà per molto tempo l’istituzione più stabile della nazione, sconfisse i greci e le potenze europee nella guerra di indipendenza (1920-1923) e forgiò il nuovo pantheon del nazionalismo turco.
Gli effetti della sindrome di Sèvres oggi
Questo pantheon di miti e leggende ha le sue radici profonde nel trattato di Sèvres e continua a influenzare il discorso e le scelte politiche della Turchia. È proprio attraverso il trattato e la sindrome che si può capire per quale motivo la Turchia non accetta di riconoscere di aver commesso un genocidio verso il popolo armeno, nonostante i fautori materiali siano gli ottomani e non i turchi attuali. La minoranza armena fu infatti la principale sostenitrice del trattato di Sèvres. La stessa lettura si può fare per la questione curda: i curdi infatti sostennero le potenze estere nella divisione dell’Anatolia per la promessa futura di un proprio Stato e da quel momento furono identificati dal nazionalismo turco come un popolo di traditori. Stessa sorte per i greci, identificati a partire dal 1920 come gli autori di una dolorosa pugnalata alle spalle, l’invasione del territorio turco. Proprio questo elemento inasprisce ancora oggi le relazioni tra i due Paesi, dall’isola di Cipro al controllo delle risorse del Mediterraneo orientale.
Il trattato di Sèvres è dunque un punto di partenza fondamentale per capire la traiettoria della politica e del nazionalismo turco. Erdogan infatti nella sua propaganda ha giocato proprio con i miti e i timori che popolano l’immaginario collettivo turco. Armeni, curdi e greci, dipinti più volte come nemici interni ed esterni, proprio alla luce della sindrome di Sèvres si sono rivelati un perfetto escamotage per mobilitare una popolazione a volte restia a seguire Erdogan. Allo stesso tempo, l’uso dell’immagine del nuovo sultanato, un sultanato orgoglioso e audace volto a riconquistare l’onore perso a Sèvres, è stato funzionale tanto a giustificare l’interventismo turco dalla Libia alla Siria, quanto gesti più recenti, come la recente riconversione in moschea di Santa Sofia.
Fonti e approfondimenti:
Nick Danforth, Forget Sykes-Picot. It’s the Treaty of Sèvres That Explains the Modern Middle East, Foreign Policy, August 2015
James Barr, A line in the sand, Simon & Schuster, 2012
Robert Kaplan, The Ruins of Empire in the Middle East, Foreign Policy, August 2015 Marta Bellavia – Instagram: illustrazioninutili_