Sono passati cento anni dall’arresto degli italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. I due italiani, emigrati negli Stati Uniti all’inizio del Novecento in cerca di lavoro e fortuna, finirono nel vortice del caos creatosi in seguito alla fine della Prima guerra mondiale. Caos derivato dalla Rivoluzione d’Ottobre che portò i bolscevichi al potere in Russia e alla nascita dell’Unione Sovietica. In questo contesto storico, nacque il timore che l’onda della rivoluzione potesse arrivare anche in Occidente, minando l’ordine interno dei vari Paesi. La storia dei due immigrati italiani finì così per intrecciarsi al contesto storico, diventando un caso negli Stati Uniti e non solo.
Sacco e Vanzetti
Nicola Sacco arrivò a Boston il 12 aprile 1909 pochi giorni prima di compiere 18 anni a bordo della nave Romanic. Trovò lavoro in calzaturificio di Milford per dieci ore al giorno, sei giorni alla settimana. Fu in quel periodo che si avvicinò all’anarchismo e a quegli ideali, iniziando a partecipare alle manifestazioni operaie dove si chiedevano condizioni di lavoro migliori e salari più alti, tenendo spesso dei discorsi.
Bartolomeo Vanzetti arrivò in Massachusetts a bordo della nave La Provence il 19 giugno 1908 all’età di 20 anni. Trovato lavoro alla Plymouth, una fabbrica di cordami, nel 1916 guidò uno sciopero e in virtù di questo fu allontanato e nessuno in seguito volle più assumerlo. Nel 1919, fino all’arresto, si mise in proprio vendendo pesce.
Allo scoppio della Grande Guerra Sacco e Vanzetti, assieme al collettivo di anarchici italoamericani di cui facevano parte, andarono in Messico per evitare la chiamata alle armi che certamente li avrebbe raggiunti. Gli anarchici non potevano accettare di combattere e uccidere in nome di uno Stato, o anche peggio di morire per esso. Tornarono nel Massachusetts a guerra finita, ma i due non sapevano che erano già stati inseriti in una lista di personalità ritenute sovversive e pericolose.
Il Red Scare
I fatti avvenuti in Russia influenzarono fortemente le politiche di sicurezza interna in molti Paesi occidentali, estremizzandole. Negli Stati Uniti, questo fervore anticomunista, prese il nome di Red Scare (“paura rossa”), un fenomeno contemporaneo a quello che in Europa divenne poi noto come il Biennio rosso. Un periodo compreso appunto fra la fine del 1917 e il 1920. Le paure di un piano comunista atto a rovesciare il governo degli Stati Uniti, innescate da una serie di attentati anarchici nel giugno 1919, divennero quindi motivo di grande attenzione da parte delle autorità.
In quel periodo il Procuratore Generale degli Stati Uniti, sotto la presidenza di Woodrow Wilson, era Alexander Mitchell Palmer, il quale decise di affrontare duramente la questione. Il procuratore Palmer, sfruttando leggi come l’Atto sullo spionaggio del 1917 e l’Atto sulla sedizione del 1918, si scagliò contro associazioni anarchiche, comuniste, socialiste e sindacali dando avvio ai cosiddetti Palmer Raids. Questi consistevano in arresti indiscriminati, processi sommari ed espulsioni forzate contro gli individui definiti pericolosi, spesso calpestando le più elementari libertà individuali e i principi di giustizia.
Nel corso di queste operazioni di polizia vennero arrestate più di 10.000 persone considerate sospette, che furono deportate e allontanate forzatamente dal Paese. Un fattore di forza della repressione politica fu la disomogeneità delle associazioni politiche e sindacali, spesso formate da immigrati di varia nazionalità (italiani, polacchi, irlandesi) che spesso non parlavano e non capivano la lingua inglese, giocando anche sul razzismo che contraddistingueva molti lavoratori statunitensi.
Fu in questo clima di intolleranza e xenofobia che fu intentato il processo contro Sacco e Vanzetti, i quali vennero arrestati poiché implicati nell’organizzazione di un comizio di protesta per la morte dell’anarchico e tipografo Andrea Salsedo, schiantatosi al suolo in seguito a una caduta dal quattordicesimo piano di un grattacielo di New York dove aveva sede il Bureau of Investigation.
Il processo a Sacco e Vanzetti
La vicenda Sacco e Vanzetti nacque e venne influenzata proprio da questo clima generatosi dopo la fine della guerra. Una volta fermati e arrestati i due vennero trovati in possesso di appunti per del materiale tipografico con cui pubblicizzare la protesta e soprattutto di una pistola semiautomatica e una rivoltella. Al posto di polizia vennero interrogati da Michael Stewart, capo del distretto di polizia, al quale risposero evasivamente. Successivamente vennero interrogati anche dal procuratore Katzman, al quale continuarono a dare risposte evasive, contraddittorie e, in alcuni casi, false.
Per due giorni vennero trattenuti senza assistenza legale, convinti di essere stati arrestati per possesso illegale di armi e motivi politici. Mentirono poiché sapevano che potevano essere espulsi. Solamente qualche giorno dopo venne loro comunicato il motivo dell’arresto: aver partecipato alla rapina di South Braintree, un sobborgo di Boston, avvenuta al calzaturificio Slater and Morrill. Nella rapina vennero uccisi due uomini: il cassiere della ditta Frederick Parmenter e Alessandro Berardelli, una guardia giurata. Sacco e Vanzetti a quel punto presentarono subito i loro alibi. Sacco quel 15 aprile era al consolato italiano per richiedere il passaporto per rimpatriare; Vanzetti in entrambe le occasioni vendeva pesce a Plymouth. I due vennero quindi mostrati a testimoni chiamati a identificarli, senza la procedura di confronto; furono perfino costretti a simulare i comportamenti dei banditi. Una procedura fortemente voluta da Katzman, ma illegale.
Pur tra mille incertezze e contraddizioni, alcuni testimoni affermarono di riconoscerli. Sacco e Vanzetti vennero quindi incriminati. Vanzetti venne anche accusato di un’altra rapina avvenuta in precedenza a Bridgewater.
L’istruttoria durò un anno e non fu priva di ambiguità e contraddizioni da parte dei testi dell’accusa. La difesa puntò infatti sulla credibilità dei testimoni i quali fecero dichiarazioni fin troppo precise, ricche di particolari e prive di dubbi; nel caso delle molte incongruenze, rimarcate dalla difesa, il procuratore soprassedette, incitando la corte a tenere conto della buona fede dei testi. La difesa portò come testimoni per Sacco un funzionario del consolato e i conoscenti lì incontrati nelle stesse ore della rapina; per Vanzetti i suoi stessi clienti. Tutti vennero però ritenuti poco credibili dal procuratore, il quale li additò come amici e conoscenti dei due imputati, tutti italiani, e quindi tendenzialmente portati a mentire per proteggerli.
Nella seconda fase del processo la discussione si spostò sulla morte della guardia. Il procuratore intendeva dimostrare che la pistola di Sacco fosse stata usata per ucciderla e che la seconda pistola trovata in possesso degli imputati fosse stata sottratta alla vittima dopo la morte. Le prove a carico vennero fornite da periti balistici del tribunale. Uno di essi sostenne in modo molto ambiguo che il proiettile fatale venne sparato dall’arma in esame, senza però specificare se si riferisse alla pistola che materialmente venne citata come prova o al modello della stessa. La difesa si limitò a opporre a queste vaghe dichiarazioni due suoi periti, che non riuscirono però ad essere sufficientemente convincenti. Per smontare l’impianto accusatorio, la difesa decise di interrogare gli stessi imputati sulla loro fede politica per sottolineare come essi fossero intimoriti soprattutto dalla prospettiva dell’arresto per motivi politici. L’accusa riuscì tuttavia ad aizzare i sentimenti patriottici e i pregiudizi politici della giuria, illustrando le idee sovversive dei due anarchici, la loro renitenza alla leva e le loro critiche al sistema capitalistico statunitense.
Al momento della requisitoria il procuratore fece un appello contro gli stranieri. Sotto questo aspetto, Sacco e Vanzetti erano considerati due agnelli sacrificali, utili per testare la nuova linea di condotta contro gli avversari del governo fortemente suggerita dal Procuratore Generale Palmer. Erano immigrati italiani con una comprensione imperfetta della lingua inglese e noti per le loro idee politiche radicali. Il giudice Webster Thayer li definì senza mezze parole “due bastardi anarchici”. Il processo venne quindi anche e fortemente contrassegnato da elementi e opinioni razziste. I due, il 14 luglio 1921, furono condannati a morte.
L’affaire Sacco e Vanzetti
Il caso scosse molto anche l’opinione pubblica italiana. A partire dal 1923 fino all’esecuzione della condanna a morte nel 1927, i funzionari del ministero degli Esteri, l’ambasciatore italiano a Washington e il console italiano a Boston operarono presso le autorità degli Stati Uniti per ottenere prima una revisione del processo e poi la grazia per i due italiani. Anche molti famosi intellettuali come George Bernard Shaw, Bertrand Russell e Albert Einstein si spesero in favore di Nick e Bart. La loro condanna, in Francia, venne paragonata a quello che subì Alfred Dreyfus alla fine dell’800. Il governatore del Massachusetts Alvan T. Fuller, che avrebbe potuto impedire l’esecuzione, rifiutò infine di farlo, dopo che un’apposita commissione da lui istituita per riesaminare il caso riaffermò le motivazioni della sentenza di condanna. Sacco e Vanzetti vennero infine giustiziati il 23 agosto del 1927.
Solo 50 anni dopo l’esecuzione, il 23 agosto 1977, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis emanò un proclama che assolveva i due uomini dal crimine, affermando: “Io dichiaro che ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti”.
Fonti e approfondimenti
Sabbatucci, V. Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, Bari, Editori Laterza
Tudini, Sacco e Vanzetti: caso giudiziario o affaire?, Diacronie Studi di Storia Contemporanea, 2013
Marta Bellavia – Instagram: illustrazioninutili_