Nel 2015, i 193 Stati dell’Assemblea Generale dell’ONU hanno adottato l’Agenda 2030, composta da 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, per porre fine alla povertà, migliorare la vita e le prospettive di tutti nella salvaguardia del pianeta. La grande sfida posta da questi obiettivi ai governi di tutto il mondo ha acceso un dibattito sulla possibilità di conciliare il raggiungimento di uno sviluppo sostenibile con il paradigma economico attuale, quello dell’economia politica, di tipo capitalistico. Per “paradigma”, in questo caso, si intende il modo con cui si guarda al problema economico e si individuano le soluzioni adatte a risolvere i problemi di una comunità, grande o piccola che sia. Da questo dibattito è (ri)emerso un concetto messo da parte per quasi due secoli, quello dell’economia civile, ovvero un modello di sviluppo inclusivo, partecipato, che mira al bene comune.
Riflettere oggi su quale paradigma economico sia più adatto a rispondere alle esigenze del nostro tempo non ha importanza solamente da un punto di vista teorico. Prendere coscienza delle caratteristiche di un modo d’intendere l’economia completamente diverso rispetto a quello che abbiamo sempre conosciuto, conoscere i presupposti su cui si basano paradigmi diversi, può cambiare concretamente il nostro modo di agire e reagire in ambito economico nelle scelte, anche le più piccole, che prendiamo ogni giorno.
I due paradigmi a confronto
L’economia civile nasce nel 1753, anno in cui nell’Università di Napoli Federico II venne istituita la prima cattedra al mondo di economia, battezzata come cattedra di economia civile, espandendosi poi nelle università di Milano, Bologna e Modena. Alcuni decenni dopo, nel 1776 Adam Smith in Scozia pubblicò la sua opera “La ricchezza delle nazioni” dove si trova il distillato di un altro paradigma, quello dell’economia politica. Quest’ultimo, a causa della supremazia economica del Regno Unito nell’Europa del ‘700 e all’egemonia culturale che ne conseguì, si diffuse come paradigma economico predominante, oscurando quello dell’economia civile, rimasto in silenzio fino a oggi. Nonostante questi due paradigmi siano nati nello stesso periodo, essi rappresentano due visioni del mondo profondamente diverse.
Una prima differenza la troviamo già a livello etimologico: in “economia politica”, il termine greco pòlis si riferisce alla pòlis greca, un modello di città non inclusivo che tendeva a escludere donne, analfabeti e i più poveri. Al contrario, in “economia civile”, il termine latino civitas si riferisce alla civitas romana, modello di inclusione culturale. L’idea di base dell’economia civile è infatti che tutti, indistintamente, debbano poter partecipare all’attività economica, adeguando le condizioni alle capacità e alle possibilità di ogni attore che vi partecipi. Nel caso dell’economia politica, al contrario, l’attività economica è per i più “capaci”, ovvero i più produttivi.
Anche i presupposti antropologici dei due paradigmi sono molto differenti. Il presupposto antropologico dell’economia politica è “homo homini lupus”, ovvero che “ogni uomo è un lupo nei confronti degli altri uomini”. L’assunto è quello di un’antropologia negativista in cui gli uomini agiscono gli uni contro gli altri, perciò ogni uomo deve diffidare degli altri e cercare di proteggersi. Al contrario, l’assunto antropologico dell’economia civile è quello di “homo homini natura amicus”, ovvero che “ogni uomo è per natura amico di un altro uomo”.
Questo comporta che anche il fine dei due paradigmi sia diverso: per l’economia politica quello della massimizzazione del bene totale, per l’economia civile quello di massimizzazione del bene comune. Due concetti, quello del bene totale e del bene comune, che possono apparentemente sembrare simili. In realtà, anche in questo caso, la differenza è sostanziale. Il bene totale può essere considerato infatti come una sommatoria, per cui il risultato finale, totale, di bene comune, può essere raggiunto e rimanere positivo anche nel momento in cui un addendo (ovvero un gruppo sociale, o un particolare attore nel sistema economico) venga annullato. Per “bene”, in questo caso, si intende quindi esclusivamente quello delle preferenze individuali. Il bene comune è invece inteso come una produttoria, in cui se anche un solo fattore si annulla, il risultato finale si annulla a sua volta. Nella prospettiva del bene comune non è quindi possibile lasciare indietro nessuno, poiché anche nel caso in cui si escluda dal bene comune il più piccolo dei gruppi sociali, esso si annulla per tutti.
Le caratteristiche di queste due visioni del mondo possono quindi dare qualche indizio sul perché proprio oggi, dopo quasi due secoli di silenzio, l’economia civile sia riemersa nel dibattito economico. Tornare a parlare di economia civile ha un valore particolare in un momento storico caratterizzato da crisi climatica e ambientale, aumento delle disuguaglianze a livello globale e calo della felicità, problemi a cui il vecchio paradigma dell’economia politica, capitalistica, non ha saputo ancora trovare risposte adeguate. Concentrandosi esclusivamente sulla crescita e sulla massimizzazione del PIL è venuta meno la protezione dell’ambiente (tra le cause dell’attuale crisi sanitaria) e si sono messe da parte le relazioni interpersonali per cui le persone sono sempre più infelici, sole e insoddisfatte.
“Il regno dei fini e il regno dei mezzi”
Secondo i nuovi padri dell’economia civile (Stefano Zamagni e Luigino Bruni), dall’inizio della globalizzazione, economia e politica hanno subito un vero e proprio scambio di ruoli. Se una volta era la politica a indicare alla società i fini, chiedendo al mercato – l’istituzione principe della sfera economica – i mezzi per realizzarli, oggi è il mercato stesso a essere il regolatore della vita politica. Prima di prendere qualsiasi decisione, la politica deve molto spesso accertarsi che queste saranno ben accolte dai mercati, ponendosi perciò in una posizione di sudditanza rispetto all’economia. Questa inversione di ruoli ha avuto tre effetti principali: il primo è quello di aver reso il principio di efficienza l’unico criterio sulla cui base si possano valutare le performance dei diversi soggetti economici; il secondo è quello di aver istituito un trade-off tra eguaglianza, libertà ed efficienza; il terzo è quello di aver contribuito ad aumentare le disuguaglianze.
Con questi presupposti, il discorso dell’economia civile viene presentato come chiave per aprire nuove strade e soluzioni a questi problemi, cambiando i rapporti di forza all’interno del mercato.
Per farlo, l’economia civile indica i principi di collaborazione e cooperazione – a livello di imprese, ma anche in altri ambiti come quello della pubblica amministrazione – come necessari per avviare la trasformazione del mercato da capitalistico, escludente, a civile, includente.
Nuove direzioni
L’accordo raggiunto lo scorso 21 luglio a Bruxelles sul Recovery Fund e le quote italiane di sussidi e prestiti (rispettivamente di 82 e 127 miliardi) costituiscono un’importante opportunità per applicare nuove logiche di distribuzione e cambiare i rapporti di forza tradizionali all’interno del mercato. È necessario inoltre che i piani di spesa che l’Italia dovrà presentare rispettino le linee guida europee, dando la priorità a progetti che favoriscano la transizione ecologica, l’inclusione sociale e la digitalizzazione. In questa prospettiva l’economia civile, grazie ai suoi modelli collaborativi che mettono al centro la persona e il benessere di tutti gli stakeholder nel rispetto delle caratteristiche dei territori in cui operano, può essere considerata come nuovo modello a cui far riferimento nella cosiddetta “ripartenza” post-Covid-19, ma non solo. La valorizzazione dei progetti legati all’economia civile infatti, incentrati sullo sviluppo e non solamente sulla crescita, permette anche di dare una spinta verso gli obiettivi dettati dall’Agenda 2030.
È importante però ricordare che ogni cittadino, svolgendo un ruolo attivo nello scenario economico, ha l’opportunità e la responsabilità di partecipare alla transizione ecologica e sociale oggi necessaria. Scegliere di premiare con il proprio portafoglio imprese attente all’inclusione sociale e al rispetto del territorio è infatti un gesto semplice, ma potentissimo. Scegliere individualmente modalità di organizzazione di tipo cooperativo e collaborativo, che valorizzino le persone e le risorse del territorio in maniera sostenibile, è anche questo un gesto potentissimo. Questi gesti sono inneschi fondamentali per trasformare un sistema nel bene di tutti, indistintamente, e a lungo termine.
Fonti e approfondimenti
Becchetti, L., & Cermelli, M. (2018). Civil economy: definition and strategies for sustainable well-living. International Review of Economics, 65(3), 329-357.
Genovesi, A. (1852). Lezioni di economia civile (Vol. 3). Cugini Pomba e Comp edit.
Venturi, P., & Rago, S. (2017). Teoria e modelli delle organizzazioni ibride. Quaderni dell’Economia Civile, 4.
Zamagni, S. (2011). Lavoro, disoccupazione, economia civile. Frey L., Marcozzi S.(a cura di), Economia.
Zamagni, S. (2015). Beni comuni e economia civile. Beni comuni e cooperazione.
Grafica: Matilde Contessi