di Flavia Cervelli e Fiorella Spizzuoco
Alessandro Morelli è Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Messina. Componente della Direzione della rivista Le Regioni, è fondatore e direttore responsabile della rivista Diritti regionali. Rivista di diritto delle autonomie territoriali e co-direttore della rivista Ordines. Per un sapere interdisciplinare sulle istituzioni europee. Nel corso della sua carriera ha partecipato come relatore a numerosi convegni nazionali e internazionali, ed è autore di tre monografie e coautore di un manuale di diritto regionale. Ha pubblicato, inoltre, più di cento articoli su riviste scientifiche, volumi, enciclopedie e dizionari giuridici. Intervistato da Lo Spiegone, ci spiega le ragioni del suo “no” al referendum costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari.
Lei è tra i promotori del documento “Le ragioni del nostro No al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari”. Quali sono le principali motivazioni della sua posizione?
Le motivazioni sono diverse, ma la principale è che questa riforma, comportando una riduzione drastica del numero dei parlamentari, provocherebbe un sensibile ridimensionamento della rappresentatività delle Camere, causando oltretutto notevoli problemi alla funzionalità delle stesse.
Non si comprendono, peraltro, le ragioni che giustificherebbero la revisione. Il motivo fondamentale per i suoi primi fautori – quello del risparmio di spesa – è, infatti, inaccettabile, sia per l’entità irrisoria del risparmio stesso (pari allo 0,007% della spesa pubblica), sia perché stiamo parlando dell’istituzione fondamentale della democrazia rappresentativa e, pertanto, l’esigenza del risparmio non può essere ritenuta prevalente in assoluto. I promotori della riforma sostengono poi che la riduzione dei parlamentari gioverebbe all’efficienza delle Camere, ma è del tutto indimostrato che sia così. La verità è che gran parte degli effetti di questo intervento sono imprevedibili. Insomma, direi che il gioco non vale la candela.
Il taglio del numero di senatori rischia di concretizzarsi in una riduzione della rappresentanza delle minoranze a Palazzo Madama. Come potrebbero essere tutelate queste ultime in un Senato composto da 200 membri?
Il taglio del numero dei senatori comporterà certamente una riduzione della rappresentanza delle minoranze ma anche delle Regioni più piccole. Occorrerebbe intervenire sulla legge elettorale e sulla normativa di contorno, oltre che sui regolamenti parlamentari. Non nutro alcuna speranza che ciò possa avvenire in tempi rapidi e nel modo più adeguato alle esigenze di funzionamento delle Camere, dopo l’approvazione referendaria della legge di revisione costituzionale.
Del resto, se guardiamo alle esperienze passate, fatichiamo a trovare esempi positivi. La legge costituzionale 3 del 2001, che ha integralmente modificato il Titolo V della Parte II della Costituzione, era ispirata dalla medesima logica della “riforma a tappe” (altri interventi, incidenti sulla forma di governo regionale e sulla potestà statutaria delle Regioni, erano stati fatti con le precedenti leggi costituzionali 1 del 1999 e 2 del 2001 e altri se ne attendevano): gran parte di tale riforma è rimasta sulla carta. E in tempi più recenti si sono approvate leggi ordinarie di riforma – come la legge Delrio sull’assetto degli enti locali – in vista di un’ampia riforma costituzionale (Renzi-Boschi), poi bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016.
Il problema, peraltro, non è soltanto che le riforme rimangono incompiute e inattuate, ma anche che ogni maggioranza di governo ha una propria idea dello Stato e della forma di governo e pretende di tradurre in norme della Costituzione quell’idea, per cui progetti di riforma costituzionale di segno opposto si susseguono, rischiando di introdurre nel testo della legge fondamentale previsioni del tutto incoerenti tra loro. Servirebbe revisionare l’articolo 138, potenziando la stessa procedura di revisione per salvaguardare la rigidità costituzionale.
Alcuni sostenitori del Sì considerano questa riforma costituzionale come un primo passo per successive modifiche. Quali soluzioni proporrebbe per tutelare questa funzione di rappresentanza del Parlamento?
Per quanto riguarda la riforma di cui ci stiamo occupando, trovo sorprendente l’argomento, sostenuto da alcuni fautori del “sì” al referendum, secondo cui, pur non trattandosi di una buona riforma, essa andrebbe comunque approvata perché, in questo modo, si costringerebbero i partiti a fare le riforme che servono davvero (a cominciare da quella della legge elettorale). Per usare un’immagine, è come se qualcuno mi proponesse di chiudere qualche stanza di casa mia, portandosi via la chiave, per costringermi a fare le ristrutturazioni che egli ritiene siano necessarie al mio appartamento. Gli risponderei che non ho intenzione di cogliere un’occasione del genere e che sulle ristrutturazioni di casa mia vorrei decidere senza costrizioni.
Il punto è che, come ha recentemente chiarito Gaetano Silvestri, presidente dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, a essere urgente oggi è la riforma del sistema partitico: occorrerebbe soprattutto introdurre forme di controllo della democraticità interna dei partiti, affidate ad autorità terze e imparziali.
Oltre alla tematica della rappresentanza, quale impatto negativo potrebbe avere il taglio dei parlamentari sul lavoro delle Camere?
Questo taglio lineare di un terzo dei parlamentari, che non tiene conto delle differenze dei due rami del Parlamento, renderebbe più difficile il lavoro di deputati e senatori, imponendo una riorganizzazione delle commissioni che non è affatto agevole e che non è detto venga fatta in modo adeguato alle effettive esigenze di funzionalità dell’istituzione parlamentare.
Ritiene opportuno che, in un momento delicato come quello della riforma costituzionale, il legislatore abbia dimostrato poco coraggio proponendo una riforma così limitata?
Sul punto credo che si faccia confusione. I sostenitori del Sì spesso affermano che quella in discussione sarebbe una revisione “puntuale”, e per questo non avrebbe nessun effetto collaterale negativo, al contrario delle ampie riforme di intere parti della Costituzione, bocciate dai voti referendari del 2006 e del 2016. Non mi sembra, però, un ragionamento convincente.
Non sottovaluterei, innanzitutto, il potenziale di una revisione “puntuale”. Se togliamo una ruota a un’automobile, effettuiamo un intervento “puntuale”, che però compromette la funzionalità della macchina, la quale ovviamente non potrà circolare. Ecco, un taglio lineare, come quello prospettato dalla riforma, rischia di produrre un effetto analogo alla “macchina parlamentare”.
Il problema non è il carattere puntuale o ampio della riforma, ma la sostenibilità costituzionale della stessa. Un taglio di un terzo dei parlamentari, come hanno rilevato in molti, non è in astratto inammissibile, ma è insostenibile per l’attuale sistema istituzionale, nel contesto ordinamentale odierno, in riferimento alla rappresentatività delle assemblee legislative e ai vari quorum previsti per l’elezione degli organi di garanzia e per la stessa procedura di revisione costituzionale. Per quanto riguarda poi la legge elettorale, come ha rilevato ancora il presidente Silvestri, la combinazione tra la stessa e il taglio del numero dei parlamentari produrrebbe un effetto “ipermaggioritario” che determinerebbe, soprattutto al Senato, una forte riduzione del pluralismo politico.
Questo significa che la legge elettorale – che, come sappiamo, è una legge ordinaria – condiziona la possibilità di revisionare la Costituzione? Ovviamente no. Tuttavia, essa è un elemento importante del contesto normativo sul quale inciderebbe la riforma, di cui non si può non tenere conto nel valutare l’impatto di quest’ultima.
Il fatto, dunque, che si tratti di una revisione “puntuale” non fuga ogni dubbio e preoccupazione. Peraltro, l’asserita “puntualità” non fa venir meno tutti i problemi che in passato sono stati riscontrati nelle riforme ampie come quella del 2016. Il carattere lineare dell’intervento, che ne determina l’irragionevolezza, toglie, infatti, univocità anche al quesito referendario: il cittadino, ad esempio, potrebbe essere d’accordo sulla riduzione dei deputati e contrario a quella dei senatori, visto che l’impatto del taglio è diverso per i due rami del Parlamento.
Rimanendo su questo punto, al di là del referendum e del suo esito, la legge elettorale è un problema cronico del Paese, che dovrà essere affrontato anche in caso di vittoria del No. Che tipo di riforma elettorale auspicherebbe per il Paese?
Nel caso in cui dovesse essere approvato in via definitiva il taglio del numero dei parlamentari, concordo con chi, come Lorenza Carlassare, pur sostenitrice del Sì al referendum, ha affermato che andrebbe approvato un sistema proporzionale, con una soglia di sbarramento non superiore al 3 per cento e senza liste bloccate. Non è, tuttavia, una soluzione pacifica.
Non si sa se, quando e come la legge elettorale sarà adeguata alla nuova composizione delle Camere, secondo modalità in grado di salvaguardare la rappresentatività delle stesse, anche alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia (sentenze 1 del 2014 e 35 del 2017). Né può certo confortare il fatto che la questione potrebbe comunque essere portata, ancora una volta, davanti alla Corte: una simile eventualità, oltre a delegittimare nuovamente il ruolo del Parlamento, alimenterebbe l’esposizione politica dell’organo di giustizia costituzionale, aggravando le patologie che affliggono il nostro sistema istituzionale.
L’Italia è tra i Paesi con il più alto numero di parlamentari al mondo. Il ministro Di Maio ha definito la riduzione come un adeguamento ai numeri europei. Per fare un confronto con altri Paesi europei basta solo il dato numerico o ci sono altri elementi da considerare?
Ovviamente il solo dato numerico, che peraltro deve essere colto correttamente, non è di per sé sufficiente. Paragonare, ad esempio, il numero dei parlamentari italiani con quelli del Congresso statunitense non ha molto senso, trattandosi di due ordinamenti molto diversi per tipo di Stato (gli Stati Uniti sono, infatti, uno Stato federale, mentre l’Italia è uno Stato regionale) e forma di governo (l’uno ha una forma presidenziale, l’altro una parlamentare). Se non si vuole cadere in un uso retorico dell’argomento comparativo, occorre evitare indebiti accostamenti.
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