A ottobre 2020 i cittadini della Nuova Zelanda sono stati chiamati a votare per un referendum, che chiedeva loro di pronunciarsi sulla legalizzazione della cannabis e sull’introduzione dell’eutanasia. Sul primo quesito, il 50,7% dei voti si è espresso negativamente, mentre l’approvazione dell’eutanasia è stata votata con il 65,1% dei voti favorevoli. Questo enorme traguardo raggiunto, cioè l’approvazione dell’End of Life Choice Act, costituisce il riconoscimento della natura di diritto umano anche all’eutanasia.
Le valutazioni scientifiche
Dal punto di vista scientifico, l’eutanasia terapeutica consiste nel determinare la morte di soggetti richiedenti, la cui condizione clinica appare incurabile o senza prospettiva di miglioramento apprezzabile. Nella letteratura scientifica, si riscontrano 3 tipologie di eutanasia terapeutica, in base al modo in cui viene raggiunta la volontà del paziente. Si distinguono, quindi, l’eutanasia volontaria, involontaria, diretta e indiretta, attiva e passiva. L’eutanasia volontaria si riferisce alla situazione in cui il soggetto esprime volontariamente la propria richiesta di essere sottoposto a eutanasia, mentre quella involontaria indica la situazione in cui tale decisione è demandata ad altri poiché il paziente non è cosciente o non è nelle facoltà di poter decidere della propria vita. L’eutanasia diretta si registra nel caso della somministrazione di un farmaco letale, quella indiretta si ha nel caso della somministrazione di farmaci che non comportano la morte diretta, ma la fanno arrivare più in fretta. Infine, l’eutanasia attiva si caratterizza per una attività del personale disposto, quella passiva o omissiva si concretizza nella sospensione delle cure.
È bene distinguere questa pratica dal suicidio assistito, una sua diramazione più facilmente accettata dagli ordinamenti nazionali, che consiste invece nella prescrizione del farmaco letale da parte del medico, la cui assunzione sarà però dovuta alla volontaria scelta del soggetto. Sia l’eutanasia attiva sia il suicidio assistito vengono ricompresi nell’espressione “morte assistita”, dal momento che la morte è provocata da un’azione con la finalità specifica di porre fine alla vita.
I buchi neri degli ordinamenti nazionali
La presenza dell’eutanasia negli ordinamenti statali è da sempre problematica. Ridotta all’osso la questione si può riassumere così: da una parte, ci si interroga sul valore da assegnare alla volontà di terminare la propria vita espressa da un soggetto in fase terminale o inguaribile; dall’altra, invece, ci si interroga sulle conseguenze giuridiche e penali che riguardano il medico che effettua il trattamento richiesto. In un’altra lettura, ci si deve chiedere perché un ordinamento statale non dovrebbe riconoscere il principio di libera disposizione del proprio essere e quindi la dignità umana, quale elemento fondamentale di ogni ordinamento nazionale.
In Europa al momento è presente tale situazione: Belgio, Olanda, Lussemburgo e Germania hanno legalizzato l’eutanasia, comprendendo anche la modalità attiva.
La Svizzera prevede la presenza del suicidio assistito nonché della eutanasia passiva ovvero indiretta; la sua situazione è ben nota all’Italia per importanti vicende di cronaca, quale ad esempio il caso di Dj Fabo e il processo a Marco Cappato.
La Spagna ammette la sospensione terapeutica in casi di particolare gravità; Francia, Svezia, Gran Bretagna, Austria, Norvegia e Danimarca ammettono l’eutanasia passiva; Ungheria e Repubblica Ceca permettono il rifiuto di terapie salvavita.
Le risposte degli ordinamenti non sono affatto univoche e questa situazione costellata di diversità può essere ricondotta, oltre che al grado di avanzamento in tema di diritti umani dello Stato, anche agli spazi di libertà riconosciuti ai propri cittadini.
I criteri giustificativi indicati dai singoli Stati sono molto differenti tra loro e restituiscono una sorta di “limite di sopportazione” che l’ordinamento mostra nei confronti dell’eutanasia: il punto di partenza per tutti è la dichiarazione libera e intenzionale del paziente, che esprime la propria volontà di porre fine alla propria vita. Tale situazione è accompagnata dalla possibilità che siano i familiari a richiedere l’intervento, nel caso in cui il paziente sia incosciente o inabile. Dunque, lo Stato può richiedere la presenza di una diagnosi di malattia incurabile o di impossibile miglioramento; dolore cronico che può essere solo contenuto attraverso farmaci; un periodo di osservazione da parte di un’equipe di specialisti incaricati di valutare le condizioni psicofisiche del paziente e dei suoi cari, per assicurarsi della totale consapevolezza dell’azione richiesta e delle sue conseguenze; infine, i parametri clinici, raccolti dal medico curante ma valutati da una figura indipendente. Come preannunciato, questi criteri esistono sparsi negli ordinamenti che consentono l’eutanasia e le forme di assistenza assimilate, ma il punto in comune rimane il riconoscimento, più o meno esteso, della libera volontà del paziente.
La situazione attuale a livello mondiale non è migliore: Canada, Colombia, Stato di Victoria in Australia, e in alcuni Stati USA riconoscono l’eutanasia quale espressione della dignità umana e si sommano agli Stati europei già menzionati. Per i restanti Paesi la situazione è ancora complessa, ma in un momento storico in cui si reclama a gran voce il rispetto dei diritti sarebbe forse il caso di riattivare l’interesse sul diritto delle “persone morenti”.
La dignità dell’essere umano
Già nel 1999, il Consiglio d’Europa aveva emanato una Raccomandazione (R.1418/1999) nella quale si preoccupava di richiamare l’attenzione sul rispetto dei diritti umani e della dignità da riservare alle persone in terminazione di vita. Le indicazioni esposte non avevano alcuna efficacia vincolante, come tutte le Raccomandazioni, ma servono ancora oggi a richiamare concetti basilari. Tutte le persone, i cittadini, sono dotate di una dignità inviolabile, di cui non devono essere private nemmeno nel momento peggiore della loro esistenza, e qualsiasi atto che potrebbe comprimerla o violarla deve essere condannato. Di certo la Raccomandazione è datata, sia dal punto di vista scientifico che culturale, e infatti si limita a invitare all’utilizzo di palliativi contro il dolore e a evitare di prolungare “ingiustamente” la vita di chi non sia più in condizioni per goderne.
Dal momento che sono trascorsi 20 anni dalla Raccomandazione, ci si deve chiedere se gli obiettivi di rispetto e di dignità siano stati effettivamente raggiunti e la risposta non è scontata. Il “diritto di morire” soffre di limitazioni pesanti di cui i vuoti normativi sono la cassa di risonanza di un problema socio-culturale più profondo. Se la dignità costituisce il principio innegabile della vita, allora ci si deve chiedere se questa abbia una data di scadenza, dopo la quale smette di essere la guida delle azioni del singolo e della comunità o se, invece, possa resistere sempre, anche in momenti delicati, nello sforzo di coerenza e di rispetto dei diritti inviolabili.
Fonti e approfondimenti
Hannah Martin,”Euthanasia referendum: End of Life Choice Act officially passes with 65% majority”, 06/11/2020, Stuff.co.nz;
The Guardian, “New Zealand votes to legalise euthanasia in referendum”, 30/10/2020;
Nicola Davis, “Euthanasia and assisted dying rates are soaring. But where are they legal?”, 15/07/2019, The Guardian;
Medical xpress, “Euthanasia’s legal status in Europe”, 20/02/2020;
Consiglio d’Europa, Recommendation 1418 (1999) Protection of the human rights and dignity of the terminally ill and the dying, Testo adottato dell’Assemblea in data 25/06/1999;
Vinod Srivastava, “Euthanasia: a regional perspective”, 23/07/2014, National Center for Biotechnology Information.
Editing a cura di Francesco Bertoldi