“Una gloria di ceneri, per Beirut” recita in un suo celebre brano la cantante libanese Fairouz, riferendosi alle tragedie che hanno colpito la capitale nel corso della sua storia. Negli ultimi decenni, infatti, la città di Beirut è stata distrutta e poi ricostruita sui resti che la guerra civile e i conflitti del 2006 si sono lasciati alle spalle. Oggi, a diversi mesi dall’esplosione che ad agosto 2020 ha coinvolto il porto e i distretti adiacenti della città, alcuni quartieri stanno cercando di rinascere nuovamente da ceneri e macerie. Questi tre momenti storici, in una sorta di déjà vu, hanno visto l’alternarsi di numerosi attori nazionali e internazionali e sono considerati esempi paradigmatici dell’eterna ricostruzione di Beirut.
La ricostruzione post guerra civile: i progetti Solidere ed Elyssar
Dal 1975 al 1989, il Libano è stato il terreno di scontro di una violenta guerra civile. Gli attacchi armati sferrati dalle numerose fazioni in campo e dalle ingerenze straniere hanno lasciato una ferita profonda nel Paese. All’alba degli anni ’90, quando gli accordi di Ta’if posero fine ai conflitti, diverse aree e città del Libano si ritrovarono completamente rase al suolo. Il centro di Beirut non venne risparmiato e fu anzi la zona in cui si verificarono alcuni fra gli scontri più violenti. Ricostruire la capitale, il fulcro politico, culturale ed economico di quella che era stata la “Svizzera del Medio Oriente” degli anni ’70, divenne imperativo e impellente.
Poco dopo lo scoppio della guerra, nel 1977, venne fondato il Consiglio libanese per lo sviluppo e la ricostruzione (CDR). Si trattava di un organo governativo incaricato della ricostruzione delle infrastrutture libanesi e posto sotto il diretto controllo del Primo ministro. A causa di una cattiva gestione, il CDR non riuscì però a raccogliere i fondi necessari e fu totalmente ininfluente nel processo di ripresa. Tuttavia, dopo la fine della guerra civile, l’organizzazione venne rifondata, i suoi poteri furono allargati e venne modificata la legge libanese (L. 117/1991) sull’istituzione delle Real Estate Companies. La nuova legge permetteva la creazione di compagnie private per la ricostruzione di zone distrutte dal conflitto. In questo modo, l’allora Primo ministro libanese Rafiq Hariri riuscì ad accentrare su di sé i poteri politici e gli interessi economici della ripresa. Si diede così il via a quello che lo studioso Saree Makdisi definisce “harirismo”, il processo politico che segnò il graduale retrocedere dello Stato nella gestione dello spazio pubblico a favore di iniziative e programmi commerciali privati.
Il Central Business District e il progetto Solidere
Dopo quindici anni di scontri interni, il governo libanese non era in grado di gestire autonomamente l’intera ripresa del Paese. Il 5 maggio 1994 venne fondata quindi la Société Libanaise pour le Développement et la Reconstruction du Centre-ville de Beyrouth (Solidere s.a.l.). Questa società privata incarnò le ambizioni personali del Primo ministro Hariri che ne fu il fondatore. Tramite Solidere egli cercò infatti di attuare la propria visione di rinascita economica del Paese: Beirut doveva ritornare il centro del commercio e del transito fra Oriente e Occidente. Per fare ciò, la società si avvalse di ingenti finanziamenti provenienti dai Paesi del Golfo, alleati del Primo ministro. Inoltre, Hariri sfruttò la propria posizione al governo per allocare anche fondi nazionali a Solidere scendendo a patti con le controparti druse e sciite del governo.
(Fonte: Beirut Urban Lab. Rielaborazione grafica: Manuel Mezzadra)
La compagnia decise che si sarebbe concentrata esclusivamente sulla zona centrale della città: il Central Business District (CBD) o Downtown (Wasat al-madina in arabo). Quest’area di circa 1,9 chilometri quadrati rappresentava, secondo alcune stime, solo un decimo dell’intera area distrutta della capitale. In periodo di guerra civile l’area del CBD era considerata terra di nessuno e fu frequentemente arena di scontro tra milizie di fazioni opposte. Era quindi tra i punti più devastati della città e il terreno perfetto per le mire di ricostruzione dei business privati. Focalizzando gli sforzi per la ripresa esclusivamente nel CBD, Solidere finì per escludere la maggior parte della città dal piano di ricostruzione.
Sebbene il progetto venisse venduto al pubblico con il motto “Una città antica per il futuro”, Solidere non partecipò ad alcun processo di ripresa sostenibile che lavorasse sulle dinamiche sociali e sulle cause primarie della guerra. Il tutto venne gestito a favore di grandi interessi di capitali nazionali ed esteri, senza tenere in considerazione i veri protagonisti della città: i cittadini di Beirut.
Solidere si avvalse di pratiche eticamente e legalmente discutibili. È ormai di dominio pubblico il ricorso a sussidi statali, esenzioni fiscali ed espropriazioni. Non mancarono anche l’abbattimento di edifici, la noncuranza per monumenti o siti d’interesse culturale e liquidazioni irrisorie per sfrattare proprietari di terreni e strutture. Il piano venne semplicemente imposto senza l’inclusione di chi era toccato in prima persona dalla ricostruzione: inquilini, proprietari, architetti, ingegneri e addirittura vari gruppi politici locali furono completamente esclusi dal processo. Furono sostituiti invece da uomini d’affari, investitori, amici di Hariri o conoscenti del suo entourage. L’unico scopo dell’intero progetto Solidere fu quello di generare profitto per le élite libanesi e del Golfo vicine al Primo ministro, attraverso la costruzione di negozi, centri commerciali, edifici esclusivi e appartamenti lussuosi. Anche i suggerimenti giunti dall’estero furono perlopiù ignorati. Circa 350 progetti proposti da 51 Paesi diversi, alcuni firmati da nomi illustri quali Zaha Hadid e Aldo Rossi, non vennero mai neppure vagliati.
Un’occasione persa
Il Central Business District ha rappresentato per secoli il cuore pulsante della città di Beirut. Il suo valore non è solo materiale ma soprattutto simbolico. Il CBD è situato in una zona di confine tra Beirut est e Beirut ovest, ovvero due aree della città a maggioranza cristiana e musulmana, delimitate durante la guerra dalla green line.
La ricostruzione di tale zona poteva essere un’ottima occasione per cercare di ricostruire il tessuto sociale e culturale eroso da quindici anni di conflitti. Un piano urbano e strategico di ampio respiro avrebbe aiutato a rimarginare divari sociali, a stabilire interconnessioni, costruire spazi di incontro per comunità all’epoca più lontane che mai. Tutti gli sforzi vennero però concentrati nella creazione di una zona esclusiva percepita come estranea dalla maggioranza della popolazione.
Dal 2005, dopo l’assassinio di Rafiq Hariri, la zona di Downtown ha attraversato una serie di crisi politiche, economiche e di sicurezza ancora irrisolte. Il mandato di Solidere doveva terminare nel 2019, si è però deciso di estenderlo per altri dieci anni, fino al 2029.
Dahiyeh, il sobborgo a sud di Beirut e il progetto Elyssar
Sebbene il progetto portato avanti da Solidere sia il più discusso degli anni post guerra civile, non fu l’unico a coinvolgere ampie zone della capitale. All’inizio degli anni ’90, furono infatti finanziati numerosi progetti su piccola scala, sia pubblici che privati. Tuttavia, solo altri due avevano ambizioni simili a quelle della compagnia di Hariri: Linord ed Elyssar.
Il primo intendeva occuparsi della costa a nord-est della città, il secondo aveva come obiettivo la ricostruzione del sobborgo a sud di Beirut, Dahiyeh. Il progetto Littoral Nord de Beirut (Linord), sebbene tornato recentemente in auge nell’opinione pubblica libanese, fu ben presto accantonato. A parte la riabilitazione di qualche strada costiera, non riuscì mai a trovare i fondi necessari per iniziare la costruzione di infrastrutture ed edifici. Molto più interessante è invece la storia di Elyssar.
Dahiyeh è una zona molto estesa situata nella parte sud di Beirut. Nonostante abbia avuto una storia complessa e caratterizzata dall’alternarsi di diversi gruppi etnici e religiosi, è oggi principalmente conosciuta come la zona sciita della città. Durante la guerra civile, infatti, diversi sfollati di religione sciita si rifugiarono a Dahiyeh. Il sobborgo è stato spesso al centro di scontri, attacchi terroristici e viene comunemente considerato un’area pericolosa e poco sviluppata. Inoltre, ricorre spesso nel dibattito politico e mediatico come il “quartiere di Hezbollah”, il primo partito sciita libanese, in quanto considerato roccaforte del movimento. Fu proprio il “Partito di Dio” a giocare un ruolo preponderante nel destino del progetto Elyssar.
Un progetto a supporto della popolazione più povera?
Fondata nell’agosto 1996 grazie alla legge sulle Real Estate Companies del ‘91, Elyssar è una compagnia pubblica gestita dal governo libanese e fino al 1998 sotto il diretto controllo del Primo ministro Rafiq Hariri. Quest’ultimo, seguendo lo stesso modus operandi adottato per il Central Business District, cercò inizialmente di fondare un’altra compagnia privata a cui affidare il progetto di ricostruzione. Tuttavia, Hezbollah e Amal, un altro influente partito sciita, fecero pressione affinché Elyssar fosse creata come società pubblica. Entrambi molto critici nei confronti del progetto Solidere, vedevano di buon occhio l’opportunità di infiltrarsi ulteriormente nel tessuto sociale di Dahiyeh. Fu così che nacque Elyssar, presieduta dai sei membri del direttivo: quattro esponenti vicini al governo, divisi per confessione, un esponente di Hezbollah e uno di Amal.
La zona di competenza del progetto Elyssar copriva circa 5,8 chilometri quadrati, che si estendevano dalla costa ovest di Beirut fino alle zone più interne di Dahiyeh. Il piano prevedeva la ricostruzione di infrastrutture, strade, siti religiosi e numerosi altri edifici. Il cuore del progetto, invece, era la creazione di circa 7500 unità abitative da destinare a famiglie a basso reddito. Fin dall’inizio, però, si favorì la costruzione di infrastrutture e vie di comunicazione alle componenti sociali del progetto. Con il benestare di Hezbollah e Amal, gli abitanti del quartiere vennero pagati per cedere case e terreni, riconvertiti in strutture che potessero avere una qualche rilevanza economica o turistica. In pochissimo tempo venne costruita l’autostrada che congiunge l’aeroporto di Beirut al centro città e iniziarono i lavori nella zona costiera.
Con il cambio di governo del 1998 e l’appoggio assente dell’ormai ex Primo ministro Hariri, il progetto Elyssar venne bloccato e mai concluso. Quello che era nato come un piano di ricostruzione sociale per le fasce più povere della popolazione, si avvicinò sempre più al modello elitario ed escludente di Solidere. Nonostante Elyssar ambisse a garantire una governance condivisa fra più gruppi politici e religiosi, ancora una volta gli interessi economici di Hariri prima e di Hezbollah e Amal poi ebbero la meglio.
Il 2006 e la ricostruzione di Haret Hreik: il progetto Wa’ad
Il 14 agosto 2006, il Libano si ritrovò devastato dall’ennesimo conflitto (seconda guerra israelo-libanese). Israele iniziò l’attacco il 12 luglio nel tentativo di vendicare una serie di azioni ostili perpetrate da Hezbollah e la cattura di due soldati israeliani. Dopo circa 34 giorni di bombardamenti, intere aree del Paese vennero rase al suolo, tra cui circa 125.000 abitazioni, più di 600 scuole, un centinaio di ponti e circa 900 attività. Furono colpiti anche punti strategici come l’aeroporto di Beirut e diverse autostrade. Human Rights Watch stima circa 1100 morti, più di 4000 feriti e quasi un milione di sfollati. Senza aver superato a pieno la fase di ripresa post guerra civile, interi quartieri e città erano nuovamente da ricostruire. Nel panorama dei progetti di ricostruzione post 2006, spicca quello del quartiere Haret Hreik a sud di Beirut.

(Fonte: Beirut Urban Lab. Rielaborazione grafica: Manuel Mezzadra)
Tra i vari obiettivi strategici, l’esercito israeliano colpì anche la sede di Hezbollah e i suoi principali mezzi di comunicazione (stazioni radio e televisive) situati proprio ad Haret Hreik. Hezbollah riuscì ad avere la gestione esclusiva della ricostruzione dell’intero quartiere. La risposta del partito fu quindi immediata e la ricostruzione del quartiere iniziò subito. ll governo del Primo ministro Fouad Siniora non impose nessuna limitazione, ma legalmente Hezbollah non fu legittimato a utilizzare le compagnie a esso affiliate per la ricostruzione. Per ovviare al problema, venne fondata la ONG Mashrou’ Wa’ad al-Sadiq (Il progetto della promessa solenne), incaricata dell’intero piano. Il nome Wa’ad (“promessa” in arabo) prendeva spunto dalla “promessa solenne” fatta dal Segretario generale del partito Hassan Nasrallah: “ricostruiremo il quartiere meglio di com’era in precedenza”, diventato poi il motto stesso del progetto.
Tutto il processo di ripresa doveva rappresentare una sorta di prova di forza della Resistenza Islamica (Muqawama islamiyya) supportata da Hezbollah in opposizione all’“entità sionista”. Ricostruire l’intero quartiere doveva servire da monito per Israele e i suoi alleati e per rinfrancare la presenza del partito nella zona. Riportare nelle proprie abitazioni gli sfollati era infatti in linea con la volontà di rafforzare e allargare la base dell’elettorato. Si cercò così di promuovere la resistenza della società civile rispetto a uno Stato centrale percepito come non rappresentativo e corrotto.
Il progetto Wa’ad, la “Promessa”: ricostruire la società
Subito dopo la fine degli attacchi israeliani, Hezbollah stimò innanzitutto i danni causati dalle ostilità. L’incarico venne affidato a Jihad al-Bina’ (il jihad della ricostruzione), un’organizzazione vicina al partito, in coordinamento con l’Ordine libanese degli ingegneri. In una settimana di lavori, i tecnici riuscirono ad analizzare le condizioni dell’intero quartiere e delle zone limitrofe. Il progetto Wa’ad fu gestito amministrativamente da Hezbollah e tecnicamente da Jihad al-Bina’. I vari contratti per mezzi e materiali impiegati vennero invece affidati a diverse compagnie, indipendentemente dalla confessione religiosa. Il tutto in un’ottica di ristrutturazione sociale prima ancora che materiale.
In cinque anni Hezbollah riuscì a ricostruire circa 300 edifici contenenti più di 3000 appartamenti, rilocando approssimativamente 20.000 persone: la maggior parte degli sfollati tornò nelle rispettive abitazioni. Al contrario del modello neoliberale di Solidere, il progetto Wa’ad riuscì a ricostituire prima di tutto il tessuto sociale del quartiere. Fu raggiunto anche l’obiettivo politico del partito di diventare ancora più influente nel quartiere di Haret Hreik. La riuscita del progetto fu accompagnata anche da un’intensa attività propagandistica. Video, locandine, cartelloni pubblicitari e programmi radio e televisivi erano all’ordine del giorno. L’idea era quella di mettere in evidenza l’imponenza di tale progetto, e allo stesso tempo far leva sulle emozioni di chi aveva vissuto gli attacchi.
Un altro punto di forza del progetto fu la totale indipendenza economica dallo Stato. Il governo di Siniora si limitò infatti a concedere qualche forma di compensazione monetaria per chi non aveva più una casa, ma non partecipò mai al progetto. Wa’ad poté infatti contare sul supporto economico dell’Iran, principale alleato di Hezbollah. La costituzione della ONG garantì anche l’arrivo di fondi da altri Paesi arabi e da Stati alleati del Libano.
Il partito sciita riuscì laddove Solidere e altri progetti statali avevano fallito. Ancora una volta la ricostruzione veniva usata come strumento non neutrale, che affermava la presenza di Hezbollah ad Haret Hreik in una sorta di “Stato nello Stato”: un’entità autonoma ed espressione di un chiaro riequilibrio dei poteri. Venne tutto ricostruito esattamente com’era e dov’era prima degli attacchi del 2006. Nessun accenno modernista o di miglioramento urbanistico venne messo in pratica. Nulla fu quindi ricostruito “meglio di com’era in precedenza”, secondo la promessa di Nasrallah. La ricostruzione voleva essere una chiara dichiarazione politica e di intenti più che un vero piano di ripresa economica.
Nuovamente sotto ceneri e macerie: l’esplosione al porto di Beirut e il piano 3RF
Il 4 agosto 2020 Beirut è stata nuovamente sconvolta da un disastro inaspettato. Una serie di esplosioni causate dallo stoccaggio di nitrato d’ammonio senza adeguate misure di sicurezza ha causato centinaia di morti, migliaia di feriti e più di 300.000 sfollati. L’evento ha aggravato ulteriormente un quadro già fragile per il Paese. Nel pieno di una lunga crisi economica, della pandemia da Covid-19 e dell’annosa e irrisolta questione dei rifugiati siriani, l’esplosione ha distrutto diversi quartieri della città e portato il Libano nel pieno di una crisi politica.
(Fonte: UN OCHA. Rielaborazione grafica: Manuel Mezzadra)
Sotto l’egida del presidente francese Emmanuel Macron, la comunità internazionale si è subito mobilitata per raccogliere i fondi necessari alla ricostruzione. A seguito della richiesta di solidarietà lanciata dalle Nazioni Unite (UN) e supportata dalla Francia, ad oggi sono stati raccolti circa 158,7 milioni di dollari. A questi si vanno ad aggiungere altri 137,6 milioni di dollari non gestiti direttamente dalle UN ma affidati a numerose organizzazioni nazionali e internazionali.
Dei circa 80.000 appartamenti danneggiati o distrutti, non ci sono fondi per circa il 20% del totale. La mancanza di risorse pone seri problemi a una ripresa sia sul breve che sul lungo periodo. A livello di gestione pubblica, il governo è ancora una volta poco trasparente sull’utilizzo dei fondi (stimati attorno ai 46,5 milioni di dollari). Sono stati stanziati pochissimi aiuti per le famiglie colpite e rimane poco chiara la strategia di allocazione delle risorse, che paiono essere adibite ad agenzie pubbliche non di prioritaria importanza o addirittura non funzionanti. Altre decisioni, quali quella di tassare gli aiuti ricevuti per la ricostruzione o sostituire il giudice a capo delle indagini sull’esplosione, non hanno fatto altro che aumentare il malcontento sociale e lo stallo politico del governo che dovrebbe essere guidato da Saad Hariri.
Il piano di ricostruzione gestito dalle Nazioni Unite
I fondi delle UN sono gestiti direttamente dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA). È stato messo in pratica l’approccio Build Back Better, che mira a un piano di ripresa sostenibile e all’inclusione di tutti gli attori coinvolti. Basandosi su tale principio, Unione europea, Banca Mondiale e le UN hanno sviluppato una strategia in risposta all’esplosione: il Lebanon Reform, Recovery and Reconstruction Framework (3RF).
Il 3RF si basa su quattro principi: promuovere un governo trasparente, responsabile e inclusivo delle risorse economiche e finanziarie; riabilitare nel breve termine le opportunità economiche e i mezzi di sostentamento; promuovere il benessere, la dignità e la sicurezza delle persone; e infine rafforzare i servizi essenziali e ricostruire le infrastrutture di base. Nonostante le critiche e la mancanza di fondi, rimane a oggi l’unico grande piano organico, coerente e funzionante per la ricostruzione di Beirut post esplosione.
Chi ricostruirà la società libanese?
In un Paese instabile e vulnerabile come il Libano, si è vista l’importanza strategica e politica della ricostruzione di spazi distrutti. Ancora una volta, come in passato, il vero obiettivo sarà quello di ricostruire un tessuto sociale diviso, stremato da crisi continue e sull’orlo del baratro. Il piano 3RF punta all’inclusione della società civile e dei vari gruppi che compongono il variegato panorama libanese. Le problematiche sociali sono però più profonde e complesse. Ci si sta ora occupando degli edifici, ma chi penserà alla ricostruzione dell’intera società libanese? O sarà forse vero, come affermava il poeta libanese Khalil Gibran, che “dalla sofferenza sono emerse le anime più forti, i caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici”?
Fonti e approfondimenti
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Fawaz, I. Peillen, Urban Slums Reports: The case of Beirut, Lebanon, 2003.
Fawaz, M. Ghandour, Spatial Erasure: Reconstruction Projects in Beirut, ArtEast Quarterly, 2001.
Harb, Urban Governance in Post-War Beirut: Resources, Negotiations, and Contestations in the Elyssar Project, Toronto University Press, 2001.
B. Hourani, Post-conflict reconstruction and citizenship agendas: lessons from Beirut, 8 maggio 2015.
Kabbani, Prospects for Lebanon: The Reconstruction of Beirut, Center for Lebanese Studies, settembre 1991.
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Makdisi, Laying Claim to Beirut: Urban narrative and spatial identity in the age of Solidere, The University of Chicago Press, 1997.
Nasr, É. Verdeil, The reconstructions of Beirut in The City in the Islamic World, Handbook of Oriental Studies, Brill, 2008.
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Sawalha, Reconstructing Beirut: Memory and Space in a Postwar Arab City, University of Texas Press, maggio 2010.
Sewell, Beirut has rebuilt before. Here’s how the city will do it again, National Geographic, 4 settembre 2020.
Sewell, More than a ‘Hezbollah stronghold’: The complicated past and present of Haret Hreik, L’Orient Le Jour, 6 marzo 2021.
The New Humanitarian, Four months on, Beirut blast survivors struggle to rebuild, 9 dicembre 2020.
UNHABITAT, Rebuilding homes, not just houses, after the Beirut Port blast: What comes next?, 26 ottobre 2020.
Editing a cura di Elena Noventa
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