Il verdetto della giuria è arrivato alle 23:05 italiane del 20 aprile: guilty, guilty, guilty – colpevole, colpevole, colpevole. Di omicidio di secondo e terzo grado e di omicidio colposo, per avere schiacciato per nove minuti e ventinove secondi il collo di George Floyd il 25 maggio scorso, uccidendolo. Derek Chauvin – in attesa dell’appello – finirà in carcere, in teoria giustizia è stata fatta. Eppure, in molte discussioni con amici e colleghi, è emersa subito un’amarezza che domina qualsiasi percezione di vittoria o senso di liberazione.
Il caso George Floyd è stato unico nel suo genere. C’è voluta tutta la potenza mediatica e organizzativa degli ultimi 11 mesi affinché si creassero le condizioni perfette per questa condanna. Senza il video della 17enne Darnella Frazier, che ha ripreso Chauvin uccidere Floyd, probabilmente non avremmo questo verdetto: tante volte la polizia statunitense ha ucciso impunemente anche grazie alla mancanza di documentazione dei fatti. Senza le manifestazioni del movimento Black Lives Matter che per tre mesi hanno inondato tutte le città del Paese, non ci sarebbe stato quel percorso di sensibilizzazione che ha sbattuto il problema del razzismo sistemico e della brutalità poliziesca su tutti i media statunitensi, ogni giorno, costringendo la popolazione a farci i conti. Senza tutto questo, non ci sarebbe stata una pressione incredibile sugli attori coinvolti nel processo per l’omicidio di George Floyd. Sul procuratore distrettuale, che ha lavorato incessantemente per arrivare a delle condanne; sulla giuria, che sapeva di avere tra le proprie mani un verdetto pesantissimo e che un’assoluzione avrebbe acuito la rabbia di comunità sempre più in tensione; sui rappresentanti politici, che nella loro inadeguatezza mostrata negli ultimi mesi non hanno comunque potuto sottrarsi al condannare senza appello il poliziotto di Minneapolis. Persino i colleghi di Chauvin gli hanno voltato le spalle, in un caso più unico che raro per un’istituzione corporativista come la polizia statunitense, che tende a difendere i propri agenti e a escludere chi, tra le proprie fila, osa criticarla. Un voltafaccia necessario, per non sporcare troppo l’immagine di un corpo di polizia che mai come ora, nella storia contemporanea statunitense, è sotto la lente d’ingrandimento della popolazione e per cui Chauvin è stato un capro espiatorio.
Il verdetto di colpevolezza, per un omicidio che l’agente di polizia aveva inequivocabilmente commesso, non è stato reso possibile da un sistema che ha ritrovato sé stesso dopo decenni di impunità garantita alle forze dell’ordine. Solo la spinta fortissima data da Black Lives Matter, un movimento sociale come non se ne vedevano da decenni negli Stati Uniti, lo ha reso quasi inevitabile.
Al contempo, però, altri casi mettono in mostra come le pressioni della società civile non sempre siano abbastanza per controbilanciare le ingiustizie insite nel sistema giudiziario statunitense. Se Chauvin è stato condannato, non è stato lo stesso, ad esempio, per i responsabili dell’omicidio di Breonna Taylor, altro nome al centro delle proteste del 2020: nessuno degli agenti è stato anche solo accusato del fatto. Il problema quindi è evidente: se per condannare un poliziotto omicida serve una tempesta perfetta, il rischio che questo processo rimarrà un caso isolato rimane altissimo.
C’è poi una questione ancor più fondamentale che acuisce il senso di inadeguatezza di fronte al verdetto. Questa sentenza non riporterà in vita George Floyd, non restituirà pace alla sua famiglia, né alla comunità che lo ha perso. E oltre questa dimensione più privata, c’è quella sistemica, della brutalità poliziesca: Derek Chauvin non era una “mela marcia”, un caso fuori scala. La polizia statunitense è un’istituzione che agisce in modo violento, spesso impunemente, e questo verdetto non ne cambierà le attitudini o i comportamenti. Le forze dell’ordine continueranno a uccidere le minoranze – come d’altronde hanno fatto senza remore nei giorni e nelle ore precedenti e successive al verdetto – e risponderanno al dolore delle comunità con altra violenza. Nulla di ciò che è stato deliberato nel processo Chauvin cambierà i rapporti quotidiani tra la polizia da un lato e le comunità nere e latine dall’altro, né cambierà le condizioni materiali che ogni giorno creano decine di possibilità perché un altro caso George Floyd possa verificarsi.
Letta attraverso questa prospettiva, gli spazi per festeggiare liberamente si restringono e sopraggiunge un senso di amarezza. Col verdetto Chauvin è stato scritto un pezzo di storia, certo, ma il tracciato di questa non è cambiato. Rimane lo stesso che ha dato a un poliziotto il potere di uccidere George Floyd soffocandolo, nonostante le richieste sempre più veementi della popolazione per un cambiamento radicale che invece stenta a mostrarsi all’orizzonte.
Niente di questo verdetto dà fiducia, né può fare stare meglio chi desidera veramente un mondo senza violenza. Un omicida come Derek Chauvin non potrà più essere nelle condizioni di uccidere un nero con la certezza che, come mostrano le statistiche, verrà assolto 99 volte su 100: questa è un’ottima cosa. Ma i suoi colleghi potranno. Il processo per l’omicidio di George Floyd ha avuto un esito positivo, ma non ha cambiato nulla della realtà al di fuori dell’aula di tribunale. Ignorare ciò significa voltare le spalle alle migliaia di persone che sono state uccise dalla polizia e che ancora lo saranno. Significa, anche, voltare le spalle alle comunità e ai movimenti che riconoscono quanto la loro oppressione e la loro sofferenza non derivino dalle azioni isolate di pochi poliziotti. Loro sanno che il problema è strutturale e che la soluzione non arriverà da un sistema, quello giudiziario, che è stato costruito per marginalizzarli. Se si vuole parlare di giustizia e di vittoria, è necessario creare le condizioni affinché le forze dell’ordine non siano più nelle condizioni di uccidere ogni giorno neri o latini. È necessario ascoltare le richieste dei movimenti sociali come Black Lives Matter, togliendo potere e fondi alla polizia e reinvestendo nei quartieri più poveri e segregati delle città statunitensi. Altrimenti, questo verdetto rimarrà una vittoria di Pirro sulla strada per la liberazione della società statunitense dalla brutalità poliziesca.
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