Lo Spiegone intervista: Joan C. Tronto

Foto di Francesca Leonardi Photographer/CONTRASTO data dall'ufficio stampa del festival di Internazionale

Durante il festival di Internazionale, dal 31 settembre al 2 ottobre a Ferrara, abbiamo incontrato la politologa statunitense Joan Tronto, ospite del festival. Joan Tronto ha insegnato scienze politiche all’Università del Minnesota e all’Università di New York. Si occupa di teorie politiche, dell’ampia prospettiva di genere e più in particolare dell’etica della cura.

In un articolo del 1990, “Towards a feminist theory of care”, scritto con Berenice Fisher, Joan Tronto definisce così l’etica della cura: «è una specie di attività che include ogni cosa che noi facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro “mondo”, così che possiamo continuare ad abitarlo nel modo migliore possibile. Questo mondo include il nostro corpo, noi stessi e il nostro ambiente, tutti elementi che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa e vitale».

Come e perché è nata la teoria dell’etica della cura? Come mai ha scelto di dedicarsi a questo argomento?

Sono una femminista da sempre, ma presto ho iniziato a pormi la domanda: cosa vogliamo? Per esempio, negli Stati Uniti, l’Organizzazione Nazionale delle Donne ne ha parlato nel suo primo manifesto e cito: «vogliamo essere uguali agli uomini in tutto e per tutto ed entrare a far parte del corpo sociale». Ok, cosa significa questo?

Quando ho iniziato a insegnare  teoria femminista e politica all’universtià, ho parlato agli studenti di quello che io chiamo “l’incubo femminista”. Ciò che le femministe sono riuscite e continuano a fare è abolire la barriera di casta che tiene le donne fuori da alcune posizioni. In passato, se eri una donna ambiziosa, saresti diventata una bibliotecaria, un’insegnante, un’infermiera o una cuoca, ma mai una professoressa o un’ingegnera. Ma una volta eliminato questo problema, tutte le donne hanno potuto intraprendere carriere professionali che rientrano in specifiche categorie. Questo significa che nel tempo si è formata una classe professionale mista di uomini e donne, mentre tutto il lavoro di cura è stato fatto ricadere soprattutto sulle donne e sulle persone che sono più in basso nelle classi economiche della società.

Tutto il lavoro di cura è stato quindi organizzato non per genere, ma per classe. Io lo definisco l’incubo femminista. Abbiamo vinto, ma al tempo stesso abbiamo perso, peggiorando la situazione. Una volta, negli Stati Uniti, persone di classi diverse si sposavano tra loro. Ora, invece, si tende a sposarsi con persone di classi sociali uguali e così il sistema di classi cresce: le famiglie con due redditi diventano più ricche e più sane, mentre le persone senza due redditi professionali perdono terreno.

Ora, perché non abbiamo pensato all’assistenza, alla cura dell’altro mentre creavamo questo tipo di società? Alcuni studiosi si sono occupati della cura: ad esempio i marxisti parlavano già di salari per quella della casa. Quello che dovevamo fare però, era pensare sistematicamente all’assistenza. Poi ho letto il libro di Carol Gilligan (“Con voce di donna”, ndr) e mi sono detta: credo che abbia ragione. Ma non credo che si tratti di un problema di genere. Penso che si tratti di qualcosa di più grande. Altre femministe hanno avanzato argomentazioni simili.

Ogni pensatore, ogni teoria, ogni società ha una teoria della cura, ma nelle moderne società occidentali, la teoria della cura è stata per lo più sessuata, resa in termini di classe e privatizzata. La cura è vista come ciò che accade nella sfera privata, dove vivono le donne e le persone al di sotto degli uomini. È questo che mi ha spinto a iniziare. Come possiamo iniziare a pensare in modo più sistematico a un altro modo di prendersi cura? Non mi aspettavo di passare tutta la vita a pensare a questo, ma l’ho fatto e continuo a farlo.

Perché la maggioranza della società occidentale, soprattutto la sfera politica, fatica a comprendere e a prendere coscienza dell’importanza della cura?

Perché viviamo in una società che è governata da un’economia politica basata sulla continua crescita della ricchezza. Il presupposto di questo modello di società è che se c’è più ricchezza questa sarà poi distribuita da chi la detiene, ma la realtà non mostra questo. Chi detiene la ricchezza ha creato un mondo tale per cui la ricchezza resta nelle sue mani. Lo scopo di alcuni lavori, penso a chi si occupa di finanza, a chi lavora nelle banche è quello di mantenere questo modello di ricchezza in una condizione di felicità. Il fine ultimo di questi lavori non è quello di rendere i lavoratori felici, ma di rendere la ricchezza felice. Questo è il primo problema della nostra società.

Il secondo problema è che la nostra società è stata divisa sullo schema del genere per molto tempo. Il lavoro della cura è sempre stato affidato solo alla donna. Da un punto di vista democratico poi, perché dovremmo pensare che solo una parte della nostra società debba vedersi affidato il compito del prendersi cura?

Penso al primo periodo della pandemia di Covid-19 nel 2020, alla riscoperta della cura da parte della maggioranza di noi in quel momento. Secondo lei abbiamo già dimenticato le nostre vulnerabilità e perché?

È stato un momento incredibile. Si avvertiva così tanto un sentimento di solidarietà, anche di paura, ma c’era la sensazione di potercela fare insieme. Poi abbiamo dimenticato: è molto difficile per le persone sentirsi vulnerabili, quindi le persone iniziano a prendere le distanze da un problema credendo che non le riguardi.

Un altro fattore è che siamo stati subito portati a pensare in quel periodo che ci fosse un’opposizione tra il prendersi cura e l’economia. Questa idea che l’economia sia più necessaria del valore umano è sbagliata. Siamo noi a creare l’economia, l’umanità ha sempre creato economie per soddisfare i propri bisogni. Ora soddisfiamo invece i bisogni dell’industria, delle grandi compagnie che investono per produrre sempre più ricchezza e detenerla. Per questo dobbiamo tornare a lavorare, per far sì che tutto torni come era prima: tornare a lavorare, a produrre, a viaggiare. Questo invece, sarebbe davvero un momento d’oro per rivedere il nostro modello di società, soprattutto per i danni che provoca all’ambiente. Pensiamo ai viaggi in crociera: molte persone credono che siano favolosi perché è un modo economico di viaggiare, ma quanto inquinano l’ambiente?

In un passaggio di un suo articolo, “An Ethic of care”, scrive: «(Almeno) In parte, la non volontà del riconoscere il ruolo della cura nelle nostre vite, deriva forse dalla nostra incapacità di comprendere la morte». Ci aiuta a riflettere su questo passaggio?

Di nuovo al centro c’è la nostra cultura che è così orientata sul vivere, sul produrre, sul fare sempre di più, che abbiamo perso di vista che parte del ciclo naturale della vita stessa è la morte. La morte è un tabù nella nostra società, un argomento che spaventa molto le persone. La cosa più difficile da comprendere è che imparare a prendersi cura dell’altro significa anche accompagnarlo nel modo più degno possibile fino al momento della morte. Alcuni medici mi hanno raccontato che spesso si trovano davanti a pazienti che non hanno speranze di vita e quello che le famiglie chiedono sempre è: «per favore faccia il possibile per tenere in vita mio padre, o mia madre». Molte persone credono che questo accanimento significhi prendersi cura. Ma non è così, è la nostra cultura che ci insegna il mantra del tenere duro a tutti i costi, come se ogni cosa ci appartenesse, dovremmo invece imparare a lasciare andare.

Lei scrive che l’etica della cura deve integrare quella della giustizia. Una teoria della giustizia basata esclusivamente sui diritti è inadeguata perché presuppone che tutti ne abbiano accesso, ma nella realtà questo non avviene. Ci può spiegare meglio?

Non sono ostile all’idea dei diritti, credo che avere dei diritti sia meraviglioso, ma dobbiamo riconoscere che non tutti vi abbiamo accesso. Altrimenti ci illudiamo ed entriamo in una prospettiva che non corrisponde alla realtà. Se pensiamo ai diritti come a qualcosa che possediamo restiamo in un’ottica molto stretta, mentre se pensiamo ai diritti come a delle opportunità da rivendicare affinchè queste siano ascoltate, avremmo una percezione totalmente diversa. Credo sia meglio pensare ai diritti come a delle attività, non a delle cose. I diritti sono uno strumento politico straordinario che dà potere alle persone che non ne hanno, ma non è garantito in modo assoluto che queste possano esercitarlo. Ecco perché l’etica della cura è centrale, ci aiuta ad attivare l’attenzione all’esercizio dei diritti.

Cosa possiamo fare nella nostra quotidianità per mettere in pratica l’etica della cura?

Nella nostra quotidianità possiamo fare tantissimo, ad esempio interessarci. Io e Berenice Fisher circa trent’anni fa scrivemmo un articolo sul quale riportiamo le quattro fasi dell’interessamento: essere attenti, assumersi delle responsabilità, prenderci cura ed essere responsabili delle cure che diamo. È molto difficile mettere in pratica tutto questo nella nostra quotidianità. Ancora più difficile è vedere, rendersi conto dei bisogni delle altre persone e osservare i problemi dal loro punto di vista, non dal nostro. È molto pericoloso quando le persone sostituiscono le idee degli altri con le proprie, credendo di sapere di cosa una persona abbia bisogno, senza domandarglielo. C’è una sola cosa che possiamo fare: praticare l’interesse. Come per ogni cosa: lo sport, la guida, l’arte, più ci esercitiamo, meglio riusciamo. Se tutti praticassimo l’etica della cura di più, insieme, uomini e donne, saremmo in grado di vedere quanto bisogno c’è della cura, diventeremo più sensibili a questo bisogno.

Le pratiche del prestare cura sono vettori di una formazione democratica. La democrazia è un processo, un impegno costante, non un qualcosa di automatico, che arriva dall’alto. Perché spesso tendiamo a dimenticarlo?

È parte del processo che ci porta a guardare a noi stessi come soggetti economici e non come soggetti politici, dimenticando di essere cittadini, ci ricordiamo solo di essere lavoratori e consumatori.

Il giorno dopo la caduta delle torri gemelle a New York, il presidente George W. Bush disse alle persone: “Andate a fare shopping!”. Avremmo avuto bisogno di sentirci dire molte cose, ma egli scelse di dirci di tornare alla nostra normalità, di andare a fare shopping. Questo è un esempio, ma mi è utile per spiegare a cosa è relegato oggi il concetto di cittadinanza: essere cittadini oggi vuol dire essere consumatori. La classe politica è così distaccata dal concetto di cittadinanza, così impegnata nella sfera economica, che non riconosce l’importanza della cura, dell’impegno civico. Siamo molto distanti da quella che è la pratica della democrazia: anziché dare giudizi dovremmo pensare, riflettere, ascoltare, argomentare, confrontarci con gli altri e se non possiamo fare nulla di tutte queste cose allora l’alternativa non è disinteressarsi, lamentarsi del sistema corrotto. La democrazia non funziona senza l’impegno e la cura di ognuno di noi.

 

 

Editing a cura di Matilde Mosca

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