Il Djibouti è un piccolissimo paese del Corno d’Africa, povero di risorse minerarie e con una popolazione piuttosto limitata, non superiore ai 900.000 abitanti. La sua storia, in epoca coloniale, è stata piuttosto dissimile da quella degli altri stati africani e il Paese ha mantenuto relazioni importanti con la Francia sino al 1977, anno della proclamazione di indipendenza. Per quale ragione, allora, il Djibouti è recentemente salito agli onori delle cronache?
La risposta è nella costruzione di una nuova base militare dal rilevante peso geopolitico. Il Paese, a ben vedere, non è nuovo a tali progetti, come testimonia la presenza di una importantissima base militare italiana di spicco nel fornire supporto logistico ai militari impegnati in missioni africane, o l’americana Camp Lemonnier. L’elemento di novità, piuttosto, deve essere rintracciato nella paternità cinese della struttura. Un elemento, questo, che a primo acchito sembra stridere con la strategia soft da sempre adottata da Pechino nei confronti dei paesi africani, con cui ha intessuto rilevanti accordi di natura economica e commerciale.
L’annuncio della realizzazione è giunto il 21 Gennaio 2016: la Cina, con un costo di circa 590 milioni di dollari e con il benestare del Presidente Ismail Omar Guelleh, si impegnava nel primo progetto di una base militare sostanzialmente lontana dal suo territorio, precisamente nei pressi del porto di Doraleh. La costruzione della struttura, come prevedibile, è iniziata il mese successivo e si è conclusa pochi mesi fa, per essere inaugurata il primo Agosto di questo anno. Sotto il comando di Liang Yang, a settembre, sono iniziate le prime esercitazioni, anche se a regime ridotto, data la necessità di realizzare ulteriori aree di supporto.
Fin dalle primissime fasi, Pechino ha sostenuto che la base rappresenterà semplicemente un avamposto logistico; ciononostante i suoi più immediati vicini e rivali hanno espresso perplessità. Taiwan, di fatto, ritiene che la Cina si stia preparando ad una stagione di più aggressiva presenza militare e l’Arabia Saudita ha immediatamente risposto concludendo un proprio accordo con il Djibouti, per non perdere la leadership nella regione. Tali convinzioni, a ben vedere, hanno anche trovato sostegno nel corso dell’annuale conferenza del dodicesimo Congresso popolare nazionale. In questa occasione è infatti stato sottolineato come la Cina, in quanto potenza in crescita, ha necessità di estendere i proprio interessi, anche militari, al di là dei propri confini naturali. Ciò, ad ogni modo, non ha cambiato la normale postura di Pechino che, per convincere il Djibouti ad ospitare la propria base militare, ha promesso importanti investimenti nel Paese.
A convincere la Cina ad impegnarsi economicamente per la realizzazione dell’avamposto vi sono certamente diversi fattori. Il primo di essi è la posizione strategica del Djibouti, che si situa sulla rotta del Canale di Suez, all’ingresso del Mar Rosso.
A seguire, già sette paesi godono di una importante presenza militare sul territorio e Pechino, che certamente ambisce ad essere una nuova grande potenza, non può essere da meno.
Ma, soprattutto, la Cina appare più che mai interessata alle operazioni di controllo della pirateria lungo le coste della Somalia e dello Yemen. In gioco non c’è, o almeno non solamente, la volontà di Pechino di essere coinvolta nelle operazioni di peacekeeping ma, piuttosto, (in piena linea con la strategia One Belt One Road e la String of Pearls Strategy) garantire i propri interessi commerciali e favorire l’arrivo dei prodotti cinesi nel bacino mediterraneo. Il Djibouti è, difatti, molto vicino al Golfo di Aden, attraverso il quale transita annualmente il 40% delle esportazioni cinesi.
Il recente intervento in videochiamata del leader Xi Jinping ha, per altro, inasprito le preoccupazioni dell’India che, date le esistenti alleanze con il Myanmar il Bangladesh e lo Sri Lanka, si sente sempre più accerchiata dall’incombente forza marittima cinese. A conclusione del discorso, Xi, complimentandosi per la modernizzazione del programma militare in occasione del novantesimo anno dall’istituzione dell’Esercito popolare di Liberazione cinese, ha chiesto ai suoi soldati di mantenere alto l’onore della Cina, di giocare un ruolo fondamentale nel panorama della sicurezza regionale ed internazionale e di sviluppare tutte le necessarie capacità per operare lontano dai confini. Secondo l’istituto di ricerca no-profit CNA, però, tra i principali usi della base figurerebbero anche operazioni di intelligence, guardate con un certo sospetto dagli Stati Uniti. Lo stesso think thank avrebbe la certezza che la base possieda quattro diversi sistemi di difesa, due ingressi, un eliporto in grado di ospitare almeno dodici elicotteri, un hangar per sette aerei, dieci strutture sotterranee medio-piccole per le munizioni e ampi serbatoi per il carburante. E’, invece, ancora in costruzione il larghissimo porto, il fiore all’occhiello della base che, una volta completato, potrà alloggiare le navi di nuova generazione per le operazioni di anti-pirateria, le fregate e navi di assalto per missioni umanitarie e di combattimento. Ancora oscuro, invece, il numero di truppe che, a regime, popoleranno la base. Al momento e fino al 2026, diecimila sarebbero, secondo indiscrezioni, i militari di stanza.
Quanto agli Stati Uniti, in una lettera all’ ex Segretario di Stato Kerry, alcuni membri della Camera dei Rappresentanti hanno espresso grande preoccupazione per le attività cinesi in Djibouti. Ma, a destare paura, sono anche i possibili rapporti di collaborazione che Riyadh e Pechino potrebbero creare, a spese di Washington, per sottrarre il monopolio del controllo delle rotte commerciali alla storica potenza americana. Proprio in tal senso gli Stati Uniti sono chiamati più che mai, in questo contesto, a cimentarsi in una convivenza o, meglio, in una collaborazione con leaders, popoli ed eserciti diversi, al fine di non incrinare il già fragile ordine geopolitico della zona.
Restano, infine, da comprendere le conseguenze sul fronte del principio di non interferenza. La Cina ha sempre giocato il ruolo del paladino della non interferenza negli affari interni degli stati, adducendo questa come motivazione principale per non realizzare basi in territori stranieri. Aver accettato, invece, una deroga a tale principio è questione assai problematica, che si è, infatti, immediatamente riverberata nella scelta del Giappone di rafforzare la propria presenza di Djibouti per contrastare l’omologa cinese.
E’ certo, dunque, che la Cina, con la nuova base di Doraleh, si stia certamente candidando a divenire una potenza rilevante nell’Oceano indiano e nel Golfo di Aden, sostituendosi, nel primato, a quanti tradizionalmente hanno dominato l’area.
Fonti e Approfondimenti:
https://www.huffingtonpost.com/joseph-braude/why-china-and-saudi-arabi_b_12194702.html
https://thediplomat.com/2016/01/china-has-reached-consensus-with-djibouti-on-military-base/
https://thediplomat.com/2017/07/china-officially-sets-up-its-first-overseas-base-in-djibouti/
https://www.theatlantic.com/news/archive/2017/07/china-djibouti/533385/
https://www.shephardmedia.com/news/defence-notes/clarity-emerges-chinas-djibouti-base/