E-waste: Sodoma e Gomorra 2.0

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Secondo gli ultimi dati dell’International Telecommunication Union (ITU), l’organizzazione internazionale che si occupa di definire gli standard nelle telecomunicazioni, nel 2016 sono stati prodotti 44,7 milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici, comunemente chiamati electronic waste o “e-waste”. Per dare un’idea delle cifre di cui si parla, basti pensare che la quantità prodotta corrisponde a 4500 volte il peso della Torre Eiffel, ma questo non stupisce data la vorticosa evoluzione tecnologica e delle apparecchiature hi-tech.

Ad oggi non esiste ancora una definizione unica per “eletronic waste”, tuttavia secondo StEP (Solving the E-waste Problem) un’iniziativa internazionale nata dalla cooperazione tra United Nations University e i governi locali, l’e-waste è un termine che copre “tutti i tipi di attrezzatura elettrica ed elettronica e i singoli pezzi che sono stati gettati via dal loro proprietario con l’intenzione di non farne un uso futuro”. Si può dunque intendere che il rifiuto non dovrebbe avere seconda vita in alcun modo né tanto meno diventare di proprietà di altri, perché considerato come inutile od obsoleto.

 

La Convenzione di Basilea

Per questo motivo si è da subito reso necessario un intervento legislativo, che trova la sua sede nella Convenzione di Basilea del 22 marzo 1989 sul controllo dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e sulla loro eliminazione. La materia è molto ampia e la legislazione è ancora scarna e ciò apre troppe vie di fuga da un corretto smaltimento dei rifiuti. La Convenzione si basa su alcuni punti fondamentali, quali la responsabilizzazione dei paesi produttori di rifiuti, lo sviluppo di un sistema di riciclaggio e di smaltimento sostenibile dal punto di vista ecologico e dal punto di vista economico, soprattutto nel rapporto con i paesi in via di sviluppo e, infine, un sistema di tutela dell’ambiente, ultimo soggetto che viene colpito dallo smaltimento criminale degli e-waste.

Per quanto la Convenzione stessa stabilisca già nel suo preambolo che viene “riconosciuta parimenti la crescente tendenza a voler vietare i movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e la loro eliminazione in altri Stati, in particolare nei Paesi in via di sviluppo”, questo fenomeno dello smaltimento transfrontaliero ed illegittimo è ancora oggi molto diffuso.

I paesi che sono diventai ormai destinatari per lo più unici degli e-waste sono situati in Africa e in Asia, dove sussistono legislazioni ancora poco stabili in materia.

 

Agbogbloshie

Una situazione preoccupante si presenta in Ghana, nella zona urbana di Agbogbloshie, sorta come appendice del quartiere periferico della capitale Accra chiamato Old Fadama a seguito delle migrazioni interne degli anni ’60 del secolo scorso, che hanno portato numerosi abitanti delle zone rurali a spostarsi nella capitale.

Ritenuta una delle zone più povere e malfamate della città, a seguito della creazione della discarica, prende il nome di Sodoma e Gomorra per i tetri scenari a cui si assiste giornalmente e per la desolazione del paesaggio. Qui arrivano container pieni di e-waste da ogni parte del mondo e, una volta giunti nella discarica, i dispositivi vengono divisi in due macro categorie: quelli che possono essere utilizzati nuovamente, che saranno quindi venduti nel mercato interno, e quelli che invece sono ormai inservibili. Questi ultimi vengono smembrati e i pezzi ricavati possono avere doppia sorte: o possono essere venduti come tali, come per esempio pezzi di rame, argento e oro, oppure sono dati alle fiamme, che risulta essere la pratica di smaltimento ormai consolidata. Peraltro la precisa quantificazione degli e-waste rimane oscura perché spesso i carichi di rifiuti sono etichettati con il nome di “donazioni” o “apparecchiature di seconda mano”.

 

Altro punto controverso è il numero di lavoratori nella discarica: si stima, ma sono dati incerti, che almeno 35.000 persone lavorino nella “e-waste dump”, con giornate lavorative che possono arrivare anche a 12 ore e una paga misera , ovviamente, che può variare tra i 300 e i 1000 Cedi, valuta locale, che corrispondono a 55-180 Euro. Non è così difficile intuire la gravità umanitaria della situazione in cui versano questi soggetti. A ciò si aggiungono le numerose problematiche di salute a cui vanno incontro a causa dell’aria satura dei fumi derivanti dagli incendi in cui si smaltiscono i rifiuti. Le persone che lavorano in discarica sviluppano da subito numerose malattie delle vie aeree, problemi respiratori, forti cefalee e tumori, ma non per questo smettono di lavorare, perché è l’unico modo per poter avere uno stipendio più o meno fisso.

Ad Agbogbloshie lavorano anche tanti giovani e giovanissimi, che non possono frequentare la scuola o sono ritenuti già grandi per trovarsi un lavoro, e ciò non fa che provocare altre situazioni insostenibili dal punto di vista strettamente umanitario. Bisogna ricordare che esistono fiumi d’inchiostro sui diritti dei minori, tra cui la Dichiarazione Universale dei Diritti del Fanciullo del 1959 che riporta come 4° principio il diritto alla salute del bambino, e al 9° dispone che “Il fanciullo non deve essere inserito nell’attività produttiva prima di aver raggiunto un’età minima adatta. In nessun caso deve essere costretto o autorizzato ad assumere un occupazione o un impiego che nuocciano alla sua salute o che ostacolino il suo sviluppo fisico, mentale, o morale”.

Inoltre la Convenzione Sui Diritti dell’Infanzia, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, riporta all’Art 24 che “ Gli Stati parte adottano ogni misura efficace atta ad abolire le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute dei minori”.

Peraltro questa indicazione è rinforzata da una disposizione de “The African Charter on the Rights and Welfare of the Child”, dove si legge, all’Art 14, che “ogni bambino ha il diritto di godere del più alto livello di salute fisica mentale e spirituale. Ciò include la somministrazione di cibo nutriente e di acqua potabile e sana, così come un’adeguata assistenza sanitaria.”

 

La Convenzione di Basilea ricorda che i capisaldi della trattazione e smaltimento dei rifiuti devono essere il diritto alla salute dell’uomo e anche la tutela dell’ambiente, riportando che “[..] gli Stati dovrebbero prendere le misure necessarie per fare in modo che la gestione dei rifiuti pericolosi e di altri rifiuti, compresi i loro movimenti oltre frontiera e la loro eliminazione, sia compatibile con la protezione della salute umana e dell’ambiente, qualunque sia il luogo nel quale tali rifiuti vengono eliminati”. 

Essa fa riferimento ai materiali considerati nocivi e tossici nei suoi allegati in cui spiccano elementi che si trovano in grande quantità negli e-waste, come il piombo e il rame e i loro composti nonché le soluzioni acide o acidi sotto forma solida. Non sorprende che i dati forniti da Greenpeace già nel 2014, quindi piuttosto risalenti e per questo preoccupanti, sull’analisi della composizione del suolo, evidenziano livelli di contaminazione da sostanze tossiche 100 volte superiori a quelli ritenuti innocui. L’inquinamento del suolo e delle falde acquifere ha portato alla distruzione di qualsiasi forma di vegetazione e di esseri viventi, decimando soprattutto la fauna marina della laguna Korle, situata proprio dove sorge la discarica.

 

Interventi legislativi regionali e conclusioni

Questa situazione in cui versa non solo il Ghana, ma anche altri Paesi dell’Africa come la Nigeria, ha indotto gli Stati del continente a prendere provvedimenti a livello regionale, dando vita nel 1998 alla Convenzione di Bamako, che proibisce l’importazione in Africa di qualsiasi tipo di rifiuto pericoloso,compresi i rifiuti tossici, di cui non era stata fatta menzione nella Convenzione di Basilea. La Convenzione nasce fondamentalmente dal fallimento della Convenzione di Basilea sul divieto di esportare i rifiuti pericolosi nei Paesi in via di sviluppo e, anche se utilizza la falsariga e il linguaggio di quest’ultima, riesce a portare in rilievo con maggiore incisività il divieto di importazione e l’importanza della tutela dell’ambiente, anche grazie all’ampia lista di materiali proibiti, più esauriente rispetto a quella prospettata nell’altra Convenzione. Il problema è che, nonostante queste novità legislative, la situazione non accenna a cambiare perché il risparmio che i Paesi esportatori hanno grazie a queste pratiche e’ sempre più conveniente di eventuali sanzioni e, paradossalmente, c’è chi, nei Paesi importatori, spera che questa situazione non venga del tutto abolita. Essa rappresenta infatti un accesso alle moderne apparecchiature tecnologiche, che sarebbero impossibili da reperire nel mercato “ordinario”. Ma questo non può bastare per giustificare uno stillicidio tale, perché il costo che sopportano i lavoratori, gli abitanti e l’ambiente sarà sempre troppo elevato per poter parlare di un equo do ut des.

 

 

Fonti e Approfondimenti

http://web.unep.org/environmentalgovernance/bamako-convention

https://www.unicef.it/doc/599/convenzione-diritti-infanzia-adolescenza.html

https://www.unenvironment.org/

https://www.greenpeace.org/archive-international/en/news/features/poisoning-the-poor-electroni/

https://theecologist.org/2014/aug/07/e-waste-ghana-where-death-price-living-another-day

Fai clic per accedere a itn.pdf

Leave a comment

Your email address will not be published.


*