Integrazione e terrorismo: le colpe europee

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

di Enrico La Forgia

Sono passati 22 anni da quando fu elaborata la teoria dello “Scontro delle civiltà”, celebre espressione ripresa dall’omonimo saggio di Huntington, politologo statunitense che nella sua opera sostenne come le principali fonti di conflitti nel mondo post-Guerra Fredda sarebbero state le culture e in particolar modo le religioni.

Complici gli attentati terroristici di matrice islamica che negli ultimi anni hanno colpito l’Europa, la teoria di Huntington ha raggiunto un certo livello di notorietà anche all’interno delle classi politiche europee che hanno iniziato a farne un efficace strumento di propaganda per campagne elettorali incentrate sulla lotta al terrorismo e alla radicalizzazione islamica.

 

La teoria di Huntington appare subito una risposta semplice a un problema decisamente più complesso come quello della radicalizzazione, le cui cause vengono purtroppo ricercate in una presunta incompatibilità della religione islamica col “nostro modello di democrazia”  o in una sorta di mitica raffigurazione dell’Islam come religione della morte e della violenza per eccellenza. Ovviamente, non c’è nulla di più falso. Antropologi e sociologi moderni sono unanimemente d’accordo sul fatto che il difficile dialogo tra l’Occidente e le proprie comunità islamiche non sia frutto di una guerra ideologica di medievale memoria che contrappone due religioni, ma un prodotto fallimentare delle politiche integrative europee: dal modello assimilazionista francese a quello multiculturale inglese, il Vecchio Continente ha dimostrato di non essere in grado di amalgamare etnie, culture e religioni differenti in un unico dinamico tessuto sociale.

E’ con il fallimento dei modelli di integrazione europei che nascono i fenomeni di radicalizzazione islamica che tanto spaventano l’Europa, ne è una prova empirica il fatto che le cellule jihadiste che hanno colpito varie città europee nell’ultimo periodo, siano composte da soggetti provenienti dalle classi sociali con un’alta incidenza percentuale di immigrati di seconda generazione: individui nati in Europa da genitori stranieri, quindi cittadini europei.

Abdelmalek Sayad e il fallimento del modello assimilazionista francese

Le minacce della radicalizzazione e del fondamentalismo islamico sono quindi interne alle nostre società, non esterne, e di conseguenza non vanno combattute con la difesa dei confini ma con il raggiungimento di un buon livello d’integrazione. Nonostante questo termine (“integrazione”) abbia raccolto negli anni diverse critiche da parte della comunità scientifica, è ancora utilizzato nel senso comune per indicare il raggiungimento di uno stabile livello di sicurezza economica e sociale e la conseguente acquisizione di diritti civili da parte di individui immigrati. Ovviamente il processo di integrazione non è privo di rischi.

Come fu notato per la prima volta da Abdelmalek Sayad, i vari percorsi atti a raggiungere la “piena integrazione” di un individuo sono lunghi e poco efficienti; l’obiettivo finale, individuabile nell’ottenimento della cittadinanza, non sempre è raggiungibile tramite percorsi d’inserimento socio-culturale: emblematico è il caso della Francia, Paese che dalla seconda metà del XX secolo in poi ha concesso a milioni d’immigrati la cittadinanza francese nella speranza di favorirne l’ingresso nel mondo del lavoro e nella vita sociale.

Questa particolare strategia non ha sortito gli effetti sperati: le svariate migliaia di neo-cittadini di origini prevalentemente maghrebine e mediorientali, si sono visti riconosciuti diritti civili basilari come il voto e la possibilità di fare a meno del permesso di soggiorno, iniziative però inutili se non affiancate da più lungimiranti politiche di welfare indirizzate a risolvere problematiche altrettanto importanti come quelle legate alle abitazioni, al lavoro e all’istruzione.

Tra nichilismo generazionale e crisi identitarie un terreno fertile per il fondamentalismo islamico.

A distanza di anni, come osserva il celebre orientalista francese Olivier Roy, il risultato delle politiche integrative francesi, e più in generale europee, è disastroso: milioni di cittadini francesi immigrati di seconda o addirittura di terza generazione si ritrovano confinati nelle periferie delle metropoli francesi, quartieri-dormitori mal collegati con i centri delle città e quasi totalmente privi di servizi quali ospedali e scuole. In luoghi come questi proliferano criminalità e risentimento sociale, insomma un ambiente idoneo alla radicalizzazione.

 

Negli studi del Professor Roy, si può notare come i soggetti più vulnerabili ai processi di radicalizzazione siano giovani ragazzi in crisi identitaria pronti a sfogare il nichilismo tipico delle nuove generazioni nella negazione più diretta di quella società che gli ha voltato le spalle. In questo modo si riscoprono più arabi che europei e di conseguenza iniziano un rapido, pericoloso e distorto approccio a tutto ciò che di violento ha l’Islam.

Va precisato che secondo le ultime ricerche, i jihadisti che hanno colpito in Europa negli ultimi anni si sono avvicinati alla religione nei mesi immediatamente precedenti all’azione, quindi parliamo di neofiti religiosi che privi di una precedente cultura spirituale si sentono attratti più dal lato violento della religione che dal contenuto, in una mistica esaltazione della violenza che vede nella morte un fine e non un mezzo.

Tutt’al più, a sottolineare che il problema della radicalizzazione è più sociale che culturale/religioso, i giovani terroristi che hanno insanguinato l’Europa, hanno seguito processi di radicalizzazione religiosa ben lontano da moschee e centri culturali, ovvero in privato, o in piccoli gruppi formati da coetanei, accedendo tramite internet al materiale di propaganda qaedista o dell’Isis.

Se poi si volesse indagare sul passato di questi individui, noteremmo come i problemi che li hanno contraddistinti sono comuni a tutti i quartieri disagiati e quindi ricollegabili, ancora una volta, al fallimento delle politiche integrative: si tratta per lo più di soggetti dal passato burrascoso con famiglie instabili, un’alta percentuale di abbandono scolastico e azioni legate alla micro criminalità (risse, scippi, droghe, guida in stato d’ebbrezza) che in alcuni casi hanno portato a periodi di detenzione (tra l’altro tutti comportamenti vietati per un fervente musulmano).

Radicalizzazione e terrorismo come prodotto delle fallimentari politiche integrative europee

In conclusione si può affermare che, soprattutto per quanto riguarda l’ultima ondata di azioni jihadiste in Europa, le cause vanno ricercate non nella cultura e nella religione islamica in quanto tale, ma in tutte quelle fallimentari politiche d’integrazione europee che piuttosto che favorire l’inserimento di individui nelle nostre società non hanno fatto altro che allontanarli. Relegare questi individui nelle periferie permettendogli di coltivare un risentimento sociale che di generazione in generazione ha allontanato soggetti giovani e fragili dai valori europei ha avuto come solo risultato quello di spingerli nelle braccia del fondamentalismo islamico, una risposta semplice a crisi identitarie profonde e ben radicate.

Fonti e approfondimenti:

https://www.cesi-italia.org/articoli/programmi/terrorismo

www.analisidifesa.it

www.istitutoeuroarabo.it

Roy, O., 2017, Generazione Isis, Milano, Feltrinelli Editore.

Sayad, A., 2002, La doppia assenza, Milano, Raffaello Cortina Editore.

Guolo, R., 2002, Il fondamentalismo islamico, Bari, Laterza.

Be the first to comment on "Integrazione e terrorismo: le colpe europee"

Leave a comment

Your email address will not be published.


*


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: