Nel voto del 6 novembre in America non ci sarà in gioco soltanto il destino dell’amministrazione Trump e il futuro di tanti provvedimenti, ma quei voti in qualche modo definiranno anche il volto del futuro Partito Democratico.
I sondaggi, come vediamo qui sotto, ci dicono che tendenzialmente i Democratici hanno 6 possibilità su 7 di portarsi a casa la Camera dei Rappresentanti, mentre i Repubblicani hanno 5 possibilità su 6 di difendere la propria maggioranza al Senato.
Immaginando che questo risultato sia poi quello reale, cerchiamo di delinearne le conseguenze più immediate. I Democratici potranno fare un’opposizione molto più tenace, avendo in mano la Camera, e molti provvedimenti trumpiani non vedranno mai la luce. Allo stesso modo i Repubblicani tenendo la maggioranza al Senato (tendenzialmente con un’unità di vantaggio) potranno continuare il lavoro che hanno fatto fino ad adesso (riforma fiscale, immigrazione etc), ma con molta più difficoltà.
Per rispondere alla prima domanda, I Democratici arrivano a questo voto sull’onda della spinta dell’opposizione di Trump e del malcontento di una parte grossa della popolazione. La sconfitta del 2016 sembra aver lasciato ancora delle scorie, soprattutto nelle divisioni interne. Allo stesso tempo quella sconfitta può avere anche insegnato molto ad un partito che sicuramente ha delle potenzialità politiche ed elettorali enormi, legate alla natura della società americana.
Qualcosa è cambiato nell’elettorato dem
Il Partito Democratico va incontro ad una profonda conta interna tra quello che è l’establishment del Partito, legato a personaggi come Joe Biden e Obama, e i cosidetti progressives, simboleggiati in questa tornata da Ocasio Cortes o dal canonico volto di di Bernies Sanders.
Le primarie del 2018, che ci hanno portato al voto del 6 novembre, ci hanno consegnato un Partito Democratico in grande fermento. In tutti gli stati in cui Trump ha trionfato nelle scorse elezioni abbiamo visto crescere il livello di attivismo di giovani e di persone nuove rispetto al mondo della politica e abbiamo visto anche crescere il peso della componente più radicale all’interno dei caucus.
Con questa idea di rinnovamento si è iniziato a parlare della cosidetta “Blue Wave”. Questo termine coniato da vari giornali negli scorsi mesi va ad indicare un’onda che avrebbe dovuto travolgere i Repubblicani, ma anche i Democratici ancora disposti a proteggere il partito pre-2016. In alcune zone (come il Michigan nella zona di Flint e molte altre) “Medicaid for all”, “Abolishing ICE” e slogan sulla redistribuzioni della ricchezza sono diventati gli unici cavalli di battaglia con cui il Partito Democratico riesce a guadagnare consensi.
Allo stesso tempo l’ostilità di una fetta importante del Paese verso il sistema di lobby che infanga la politica americana è cresciuta tantissimo. Molti deputati e senatori democratici per garantirsi un minimo di credibilità hanno dovuto abbandonare le PAC (metodi di finanziamento attraverso cui lobby e company possono favorire un candidato). Questo si è riversato anche sul modo di fare campagna, dagli spot pubblicitari in tv si è passati ad un massiccio utilizzo della campagna porta a porta e delle donazioni dei cittadini.
Alexandra Ocasio Cortes è un utile simbolo di questa tendenza. La giovane attivista ha guadagnato il suo posto per competere per il seggio contro i Repubblicani con un’organizzazione strada per strada e casa per casa. Un’idea che inevitabilmente è arrivata anche per l’incredibile distanza che si era creata tra l’establishment e la popolazione.
Questa che abbiamo appena descritto resta però una parte dell’elettorato. In alcuni stati la base dem è rimasta molto simile. In stati come il Tennessee o come il North Dakota, la base è rimasta schierata ampiamente sulle posizioni classiche: profondamente liberal. Il candidato al Senato in Tennessee Phil Bredesen rispetta a pieno queste linee classiche, essendo un uomo legato al mondo della finanza e del capitale con delle tendenze fortemente libertarie.
Ci dobbiamo aspettare una Camera o un Senato di Ocasio Cortes?
Come abbiamo appena detto, prima di immaginarci le bandiere rosse sventolare tra gli scranni di Washington e il sistema sanitario gratuito votato il 7 movembre è necessario fare un bagno di realtà e prendere un grosso respiro.
Nonostante i candidati più radicali siano sulla cresta dell’onda e siano molto più presenti nei media locali e nazionali, la maggior parte dei candidati alla Camera e al Senato provengono ancora in larga parte dall’establishment. Come si vede dalla mappa sotto, dei candidati usciti dalle primarie, 139 dei nuovi democratici che corrono per la Camera dei Rappresentanti sono ancora degli “Establishment democrats”, mentre solo 101 appartengono ai cosidetti “Progressive Democrats”.
A tutto questo c’è da aggiungere il fatto che la maggior parte dei candidati radicali sono inseriti in delle tornate elettorali molto difficili. Tendenzialmente li troviamo in scenari in cui i Repubblicani da anni portano a casa degli ottimi risultati. Alcuni di loro riusciranno a strappare una vittoria, ma molti vedranno le loro possibilità infrangersi contro un elettorato fortemente repubblicano, più abituato a votare e storicamente radicato in queste zone.
La conta interna in vista del 2020
A partire dal 8 novembre si aprirà ufficialmente la campagna per il 2020. Le elezioni di mediotermine serviranno per farsi un’idea chiara e per capire quale dei due partiti democratici è quello vincente.
Questo è quello che all’interno dell’establishment sperano tutti e due i gruppi. Bernie Sanders e Elizabeth Warren sperano che i candidati radicali possano portare a casa il miglior risultato dimostrando ai Biden e agli Obama che il destino dell’asinello è quello tracciato dalle loro idee.
Dall’altra parte l’establishment guarda ad alcune sfide e spera che alcuni candidati radicali non abbiano un così grande successo. La sfida tra Ted Cruz e Beto O’Rurke è una di quelle al centro delle attenzioni dell’establishment. Se il giovane liberal moderato, sul modello di Kennedy, dovesse riuscire nell’impresa di mettere in difficoltà, o addirittura vincere, su l’esperto senatore repubblicano allora potrebbe disegnare una traiettoria politica interessante per tutti i Democratici. Anche in questa evenienza difficilmente sarà lui il candidato per una futura corsa del 2020, ma potrebbe giocare un ruolo di primo piano.
In tutto questo sarà importante capire anche quale parti della società decideranno di accettare il ruolo politico che gli spetta o meno. Le comunità afroamericane, latine e asiatiche dovranno lasciare il termine che le contraddistingue da anni (ossia quello di minoranze) e capire che ormai costituiscono la maggioranza della popolazione. I tentativi di tenerli fuori dal voto, come con i trucchetti repubblicani negli stati centrali o come in North dakota con i nativi americani, sono soltanto delle motivazioni in più per farsi sentire. L’unico fattore che ancora crea dubbi sul loro ruolo è quello psicologico: dopo anni di sudditanza accettaranno di essere gli azionisti di maggioranza?
A partire dall’8 novembre si apriranno anche i calcoli dei cosiddetti outsider presidenziali che potranno capire, alla luce dei risultati delle midterm, quale spazio di manovra potranno godere nei due anni che li separano dalle presidenziali. Personaggi dello spettacolo, amministratori delegati sull’onda del successo e attivisti storici, tutti proveranno a lanciarsi in una campagna che, unita a quella di quest’anno, sarà centrale per capire quale volto avranno i democratici nei prossimi vent’anni.
Fonti e approfondimenti:
https://www.vox.com/policy-and-politics/2018/11/3/18058850/obama-trump-dueling-rallies-midterms
https://newrepublic.com/article/151907/democratic-party-progressive-enough-muslims
https://newrepublic.com/article/151871/essential-difference-bernie-sanders-elizabeth-warren
https://newrepublic.com/article/151806/beto-orourke-isnt-running-senate-anymore