Dopo le dimissioni di Theresa May, annunciate il 24 maggio e ufficializzate il 7 giugno, ha inizio il leadership contest: il partito conservatore britannico si prepara a eleggere il suo successore, che diventerà leader del partito e primo ministro.
La sfida per il successore di May non è facile: diversi i temi in gioco, dalla Brexit all’austerity, dall’istruzione alle politiche sociali.
Ma come si svolge la competizione per la leadership, e chi sono gli sfidanti?
Leadership contest: le regole del gioco
Il cosiddetto leadership contest è stato innescato dalla stessa Theresa May, dietro forti pressioni da parte del partito. Il 24 maggio, May ha consegnato una lettera al presidente del 1922 Committee, il gruppo parlamentare dei conservatori nella Camera dei Comuni, annunciando la propria intenzione di abbandonare la leadership del partito.
May, dunque, non si è dimessa dal governo; tuttavia, il sistema di premiership britannico prevede che il leader del partito sia anche il capo dell’esecutivo. Pertanto, è possibile che, a causa di vicende interne a un partito, si avvicendino più premier senza che siano convocate nuove elezioni.
Per essere ammessi, i candidati dovevano ottenere il supporto di almeno 8 parlamentari. Una volta scaduto il termine per la presentazione delle candidature, il 10 giugno, è iniziata la competizione vera e propria, che si svolge in due fasi.
Inizialmente, i parlamentari votano per i candidati in una serie di tornate a eliminazione, finché non rimangono solo i due con il maggior numero di voti.
Dopodiché, la parola passa ai circa 140.000 iscritti al partito, che hanno un mese per esprimere una preferenza tramite voto postale. Il vincitore diventa leader del partito e, in questo caso, primo ministro.
Quest’anno, con la Brexit che incombe dopo l’estate, la selezione si svolge a tappe forzate. I voti in Parlamento si sono conclusi nel giro di una settimana, tra il 13 e il 20 giugno; nei piani del partito, il vincitore dovrebbe essere proclamato il 22 luglio.
I candidati
La competizione per la leadership si presentava decisamente affollata. Undici candidati si sono presentati al primo turno di voti, tra cui spiccavano diversi membri del governo attuale: Sajid Javid, segretario agli affari interni; Jeremy Hunt, segretario agli esteri; Matt Hancock, segretario alla salute; Michael Gove, segretario all’ambiente; Rory Stewart, segretario allo sviluppo internazionale.
Non sono mancati alcuni ex ministri: Boris Johnson, ex segretario agli esteri; Dominic Raab, ex segretario alla Brexit; Esther McVey, ex segretaria al lavoro e pensioni.
A completare la lista c’erano Andrea Leadsom, ex leader of the House (responsabile dell’agenda di governo nella Camera dei Comuni) e finalista per la leadership del partito proprio contro Theresa May, nel 2016; e Mark Harper, chief whip (incaricato di assicurare la disciplina di partito nei voti e nelle presenze) nel governo Cameron dal 2015 al 2016.
Il favorito: Boris Johnson
Boris Johnson è il favorito ormai da mesi; all’ultimo round di voti parlamentari si è assicurato 160 voti.
Nel 2016, dopo aver fatto campagna a favore della Brexit, era entrato nel governo May, per poi dimettersi nell’estate del 2018, accusando il primo ministro di debolezza nei negoziati con l’Unione europea. Si può dire che la sua campagna elettorale sia iniziata già allora.
Johnson, inizialmente abbastanza moderato, si è spostato progressivamente a destra, raccogliendo consensi nell’ala più estrema del partito tra i parlamentari e tra gli iscritti. È noto per le sue posizioni oltranziste sulla Brexit; ha dichiarato che, sotto la sua leadership, il Paese uscirà dall’UE il 31 ottobre 2019, con o senza accordo. A coloro che gli ricordano l’impatto che tale evento avrebbe sull’economia, Boris risponde con un eloquente “f**k business“. Questa posizione contrasta con l’immagine del partito conservatore, tradizionalmente pro-business.
In politica interna, Johnson ha promesso una sostanziosa riduzione delle imposte sui redditi sopra le 50.000 sterline e investimenti in istruzione e sistema sanitario. Queste misure sarebbero in netto contrasto agli ultimi nove anni di governo Tory, votati all’austerità e alla prudenza fiscale.
Lo sfidante: Jeremy Hunt
Segretario alla sanità dal 2012 al 2018, Jeremy Hunt ha rimpiazzato Johnson agli esteri dopo le sue dimissioni. È generalmente considerato un moderato nel partito; nel 2016, fece campagna per rimanere nell’UE, per poi trasformarsi in un pragmatico e tra i più stretti alleati di Theresa May.
Complice probabilmente il clima di crisi nel governo, si è in parte distaccato dall’esecutivo, anche se le sue posizioni rimangono spesso ambigue. Per quanto riguarda la Brexit, è più critico che in passato: ha, ad esempio, paragonato l’UE all’Unione Sovietica e ha contemplato l’ipotesi di uscire senza un accordo, qualora Bruxelles rifiutasse termini più generosi al Regno Unito.
Anch’egli, come Johnson, vorrebbe investire in istruzione e ha di recente ammesso che i tagli alle politiche sociali degli ultimi anni potrebbero essere stati eccessivi. Come segretario alla sanità, tuttavia, ha favorito la privatizzazione del Sistema Sanitario Nazionale e non è noto per essere un grande sostenitore dell’intervento pubblico.
Proponendosi come un candidato nettamente pro-business, propone tagli alle imposte sulle imprese: la sua idea è trasformare il Regno Unito in una Silicon Valley europea.
Per Hunt, la sfida è tutt’altro che semplice: ha ottenuto 75 voti – due in più del terzo classificato, Michael Gove, e meno della metà di Boris Johnson – e la sua fama di moderato non convince troppo gli iscritti al partito.
La sorpresa: Rory Stewart
Tra le poche note di colore in una competizione abbastanza monotona, c’è stata la performance sorprendente di un candidato: Rory Stewart.
Di Stewart hanno colpito la sua – apparente – trasparenza rispetto agli altri candidati, e il suo dialogo con gli elettori, al di là della platea ristretta dei membri del partito. Si è distinto fin da subito per una campagna insolitamente pubblica e dinamica, lanciata con l’hashtag #RoryWalks: video nei quali il candidato camminava per le strade britanniche, parlando delle proprie idee e proposte.
Inoltre, si è mostrato disponibile a interagire con i giornalisti (gli altri, e in particolare Johnson, si sono dimostrati estremamente restii a rilasciare commenti e interviste).
Il leadership contest, come già evidenziato, coinvolge solo una minoranza del Paese: nonostante i dibattiti televisivi e gli incontri pubblici, i candidati stanno in realtà parlando a meno di 200.000 persone, in maggioranza uomini oltre i cinquant’anni, con reddito più alto e opinioni più conservatrici rispetto alla media nazionale.
I candidati, in misura variabile, tendono a estremizzare le proprie esternazioni e posizioni per adattarsi al proprio pubblico. Non così Stewart, che si è mantenuto molto più vicino al centro, difendendo il pragmatismo e criticando le promesse vaghe degli avversari.
È stato l’unico tra i candidati a sostenere l’accordo di Theresa May, bocciato ripetutamente dal Parlamento, come opzione più realistica per uscire dall’Unione senza ripristinare le frontiere con l’Irlanda del Nord; e mentre gli altri promettevano grandi spese e tagli alle tasse, lui si manteneva più cauto, puntualizzando che queste promesse erano irrealizzabili senza fondi.
Stewart, insomma, ha fatto una campagna da candidato di centro mentre gli avversari facevano a gara per posizionarsi sempre più a destra, e ha cercato di definirsi come candidato “dal basso”, contro i giochi di partito. La strategia non ha pagato nel leadership contest (è stato eliminato al terzo turno), ma gli ha guadagnato le simpatie del pubblico, anche non conservatore.
Le sfide del futuro primo ministro
Il caso Stewart evidenzia alcune caratteristiche, e potenziali problemi, di questo leadership contest. Nonostante, infatti, coinvolga una minoranza dell’elettorato, il futuro leader dovrà governare un Paese intero e affrontare questioni nazionali spesso controverse.
La prima data sul calendario è il 31 ottobre; dopo la pausa estiva, il nuovo esecutivo avrà poco più di due mesi di tempo per affrontare un problema irrisolto da più di due anni, ossia le condizioni per l’uscita dall’Unione europea.
Al di là della Brexit, incombono numerosi problemi economici e sociali, frutto delle politiche di austerity in atto dal 2010 e aggravati dall’incertezza degli ultimi mesi: povertà, privatizzazione dei servizi pubblici, salari stagnanti, debito studentesco sono solo alcune delle emergenze che la classe politica, stretta in una vera e propria paralisi legislativa, dovrebbe affrontare.
In una campagna dove schierarsi agli estremi paga, il nuovo leader sarà in grado di unire il partito e il Paese?
Fonti e approfondimenti:
BBC, “Tory leadership candidates compared: Johnson v Hunt“, 21/06/2019.
Blitz, James, “Rory Stewart’s legacy”, Financial Times, 20/06/2019.
Elgot, Jessica, “Conservatives slash timetable for leadership contest“, The Guardian, 05/06/2019.
Institute for Government, Conservative Party leadership contenders, giugno 2019.
Institute for Government, Conservative Party leadership contests – how do they work?, giugno 2019.
Johnston, Neil. 2019. Leadership elections: Conservative Party. Briefing Paper 01366.
Payne, Sebastian, Tilford, Cale, Kao, Joanna S, e Stabe, Martin, “UK’s next prime minister – who are the lead candidates?“, Financial Times (in aggiornamento)
Stewart, Heather, “Theresa May announces she will resign on 7 June“, The Guardian, 24/05/2019.
Smith, Matthew, “Most Conservative members would see party destroyed to achieve Brexit“, YouGov, 18/06/2019.
The Guardian, “The Guardian view on Tory leadership and the constitution: a crisis in the making“, 19/06/2019.