Una exit strategy in Afghanistan?

Afghanistan
@Sgt. David E. Alvarado (U.S. armed forces) - Wikimedia Commons - Licenza: pubblico dominio

Le superpotenze internazionali si distinguono dalle potenze di primo livello e dalle forze regionali in quanto sono in grado di gestire più crisi su vari scenari. Gli USA per molto tempo hanno risposto a questa condizione in modo ampiamente soddisfacente. Per anni, hanno gestito l’Afghanistan e l’Iraq, due scenari altamente conflittuali, inserendosi allo stesso tempo in vari altri punti di conflitto geopolitico.

Nonostante Washington abbia ancora questa capacità, in molteplici situazioni la sua efficienza si è molto indebolita rispetto al passato, e l’Afghanistan ne è l’esempio perfetto. Sono anni che di fatto gli Stati Uniti cercano di smarcarsi da questo scenario, sia attravero un ritiro diretto, sia attraverso dei passaggi di mano di responsabilità. Inutile dire che tutto questi tentativi sono falliti costringendo poi Washington a ritornare massicciamente.

Oggi Trump sta cercando in tutti i modi di uscire da questa situazione. L’idea è quella di dialogare con qualsiasi interprete e attore nella regione, anche con i Talebani. Questi, a partire dal 2001, sono considerati dal Pentagono e dalla Casa Bianca, oltre che dei terroristi, i nemici numero uno nel Paese.

La situazione attuale

Circa un anno fa, secondo i media nazionali e internazionali, l’Afghanistan sembrava destinato a finire nuovamente nelle mani dei Talebani. Il gruppo aveva infatti lanciato una massiccia offensiva su scala nazionale: ma se aveva inizialmente messo in grande difficoltà le forze di sicurezza di Kabul, una volta raggiunte le green zones le forze occidentali avevano spento ogni sogno di gloria.

Le forze dei Talebani sono difatti consistenti e permettono loro di controllare alcune grandi parti del territorio; tuttavia, restano nettamente inferiori a quelle della coalizione internazionale, che ha dalla sua il controllo totale dei cieli.

Come riporta il report sul conflitto del Center for Strategic and International Studies, la guerra sembra essere attualmente ferma. I combattimenti sono praticamente cessati, tranne in alcune zone; ma vi sono pareri contrastanti sulla natura di questi scontri. Gli osservatori internazionali non riescono a definire esattamente le motivazioni dietro alle violenze, che spesso nascono per il controllo delle linee di contrabbando degli oppiacei più che per motivi inerenti al conflitto.

Ciò aggiunge un altro fattore nello scacchiere afghano: la coalizione internazionale non può fare alcun affidamento sul governo di Kabul. La corruzione è infatti endemica a tutti i livelli, e questo fattore incide duramente sulle capacità di azione sia delle forze armate sia della pubblica amministrazione. Le prime, infatti, si ritrovano spesso a dover aspettare le forze della coalizione per portare a termine una qualsiasi azione, mentre la burocrazia risulta totalmente incapace di svolgere anche le funzioni più basilari.

La maledizione del Vietnam e le opzioni sul tavolo

Gli Stati Uniti, dopo George W. Bush, hanno sempre voluto ritirarsi dallo scenario afghano in quanto consapevoli che non vi è un ritorno mediatico in patria, e in quanto tutti gli americani considerano l’Afghanistan una guerra sbagliata. Per questo motivo, a Washington ci sono tre opzioni sul tavolo: trovare un accordo di pace a tutti i costi, vincere la guerra a tutti i costi o lasciare il Paese senza trovare un accordo.

Per il primo scenario, l’immagine dell’Iraq è quella che ci può tornare in mente per calcolare i possibili costi. Gli Stati Uniti se ne andarono dopo la famosa Anbar Awakening, lasciando il Paese sulle fragili gambe di un accordo Sciiti-Sunniti. Quella situazione portò alla nascita dell’ISIS.

Per il secondo scenario, è impossibile trovare un evento storico che lo richiami. Gli Stati Uniti non hanno mai vinto una guerra così complessa in uno scenario così multiforme come l’Afghanistan.

Il caso più famoso nella storia dei conflitti americani, invece, ricalca il terzo scenario. Il Vietnam infatti è il conflitto che più si allineerebbe alle vicende afghane in caso di ritiro seza accordo. Sicuramente il Vietnam del Nord era un avversario più considerevole dei Talebani, quantomeno perché era supportato da potenze internazionali di primo livello come la Cina. Gli Stati Uniti in Vietnam non si ritirarono se non all’ultimo minuto, e in questo modo lasciarono moltissimi alleati al massacro e distrussero la propria credibilità. È difficile immaginarsi una scena simile alla caduta di Saigon, con gli elicotteri dei Marines in fuga, ma questo potrebbe essere allo stesso modo distruttivo per la credibilità americana.

Il Vietnam, l’Iraq, e tutti i fantasmi del passato ci dicono quanto la decisione sarà cruciale. Una guerra in Afghanistan può essere persa, ma ci sono solo alcuni modi accettabili per questa eventualità onde evitare futuri coinvolgimenti o smacchi internazionali indigeribili.

L’attuale situazione scelta alla Casa Bianca

Nei primi due anni dell’aministrazione, i consiglieri di Trump, Mattis e McMaster, avevano convinto il presidente a mantenere e anzi aumentare le truppe in campo. A partire dal 2019, nonostante l’opposizione del Pentagono, la Casa Bianca, grazie ai consigli di Bolton, ha deciso invece di trovare un accordo con i Talebani.

Sono mesi che membri di delegazioni americane e talebane si incontrano negli Emirati Arabi. L’obiettivo è convincere i ribelli a interrompere totalmente i rapporti con Al Qaeda e ISIS, accettare di non imporre la shaaria e fornire un salvacondotto per gli alleati degli Stati Uniti.

Gli interrogativi dietro questo accordo sono però molti di più di questi tre punti. La questione della droga come potrebbe essere affrontata? Gli Stati Uniti, accettando un cessate il fuoco, riconoscerebbero di fatto la nascita di un narco-Stato, un qualcosa che assomiglia molto alla nascita del Sudan di Bashir (che negli ultimi anni ha creato non pochi problemi).

Quella del narcotraffico è solo una delle criticità. Va infatti ricordato che i Talebani non hanno la forza per controllare l’intero Paese. Lo scenario più probabile sarebbe di fatto simile al pre-2001, con i Talebani a Kabul e centinaia di war lords che controllano piccoli governatorati in tutto il Paese: praticamente un caos feudale.

Conclusioni

La situazione in Afghanistan non pare avere una soluzione a breve termine. Il conflitto non è una priorità, il contingente americano è guardingo, subisce poche vittime e di conseguenza nessuno ha la fretta di spostarlo da lì.

Una pace con i Talebani non è sicuramente un obiettivo da raggiungere in campagna elettorale, ma se Trump dovesse essere rieletto, potrebbe essere la prima misura in campo internazionale.

Fonti e approfondimenti:

Anthony H Cordesman, A war in crisis Afghanistan in mid 2019, Center for strategy and International studies, 17 giugno 2019

Anthony H Cordesman, Afghanistan as Vietnam Redux: Bomb, Declare Peace, and Leave?, Center for strategy and International studies, 15 gennaio 2019

George C. Herring, Lessons From Vietnam on Leaving Afghanistan, Foreign Affairs, 15 aprile 2019

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