Scrivo di Africa subsahariana per Lo Spiegone da quattro anni. Non ho mai visitato un Paese africano e, purtroppo, non ci ho mai vissuto. In questi quattro anni però ho fatto quello che ho potuto per allontanarmi dall’immagine dell’Africa – da qui inteso come Africa subsahariana – tipica di giornalismo, accademia e narrativa occidentale.
Per farlo ho provato a fare riferimento a chi in Africa ci è nato, ci ha vissuto, a chi dall’Africa magari si è allontanato e a chi poi, alla fine, ci è ritornato. Adeola Fayehun, giornalista nigeriana, specializzata in satira politica, consiglia a noi occidentali di ascoltare il nostro amico africano o la nostra amica africana, mentre gli africani provano a svegliare il “gigante dormiente”, il potenziale del continente. Per avere un’immagine meno distorta, dovremmo studiare le loro ricerche, leggere i loro libri, ascoltare la loro musica, comprendere la loro arte figurativa.
Un problema di immagine e di pensiero
“L’Africa ha un problema di immagine. Oppure, messa in un altro modo, l’Occidente ha un problema di percezione”, scrive Arit John in un articolo del 2013 per The Wire. Arit John evidenzia due errori molto comuni della narrativa e del giornalismo che parlano di Africa.
Il primo errore è la tendenza a intendere l’Africa come un tutt’uno uniforme, omogeneo, con dinamiche economiche e socio-politiche simili – fino addirittura a considerarlo un Paese e non un continente. È vero, abbiamo bisogno di modelli per poter descrivere e comprendere il mondo, ma dobbiamo delineare e delimitare questi modelli in modo che non alterino la percezione della realtà. Alla base di questo errore, a volte, c’è ignoranza geografica: quante volte ci è capitato di sentirci dire che qualcuno è stato in Africa? Ma in Africa dove? Silenzio. E allora anche l’africano ti dice che viene dall’Africa, tranne per qualche Paese un po’ più conosciuto, e solo se glielo chiedi restringe il campo. A me non è mai capitato di dover dire che vengo dall’Europa.
Il secondo errore è la visione catastrofica che abbiamo dell’Africa: non è solo fame, non è solo guerra, non è solo morte. Abbiamo stereotipato quasi unicamente al negativo la descrizione di un continente che non può più essere rappresentato dalle immagini del Darfur, dal genocidio del Ruanda o dalla carestia in Etiopia. Molti degli africani di oggi, giovanissimi, non conoscono questi contesti e nemmeno distinguono i Paesi raffigurati in quelle immagini, come ci ricorda Dayo Ogunyemi, produttore cinematografico e imprenditore nigeriano.
Felwin Sarr – accademico e scrittore senegalese – in Afrotopia amplia il problema di percezione portato alla luce da Arit John. Se consideriamo la visione del futuro, l’Africa per l’Occidente è il fiore che deve sbocciare in una terra attualmente fertile, ma incolta. L’Africa per l’Occidente sarà, ma non è ancora, dice Sarr. La prospettiva di un futuro migliore è però fondata su concetti e modelli utilizzati dall’Occidente per costruire se stesso, modelli che i decenni successivi alle indipendenze dei Paesi africani hanno dimostrato non essere adatti per molti dei contesti del continente. Come dice Sarr, però, c’è un “deficit di pensiero”: l’Africa non ha ancora costruito la sua visione del futuro, il suo Afrotopos, “un luogo altro dell’Africa […] uno spazio del reale a cui giungere attraverso il pensiero e l’azione”.
Da una parte, quindi, gli africani dovranno liberarsi di quello che Valentin Yves Mudimbe, filosofo e scrittore congolese, chiama “odore del padre”, cioè lo strascico della cultura, della scienza e della ricerca di derivazione occidentale, e costruire un sistema nuovo che si adatti alla loro cultura, al loro modo di concepire la società. Dall’altra parte, noi dovremo accettare che di quel padre non hanno bisogno e probabilmente non ne hanno mai avuto. Che abbiamo avuto la sfacciata presunzione di credere che un modello – che in fin dei conti nemmeno per noi funziona più – fosse valido per tutti.
Non dobbiamo insegnare niente
Staccarsi dall’approccio occidentale non solo non è facile, ma forse non è ancora possibile. Come scrive Sarr, non esiste una visione africana dell’Africa. Il processo di creazione di nuovi sistemi di lettura e di analisi, di costruzione e rinnovamento sociale, politico, economico, accademico, architettonico è in corso, ma non è ancora concluso. Il compito dell’Occidente è “lasciare spazio”.
“Lasciare spazio” significa raccontare e descrivere l’Africa con fonti africane, per quanto possibile, evitando i luoghi comuni che in How to write about Africa Binyavanga Wainaina suggerisce con sarcasmo di utilizzare.
“Lasciare spazio” significa anche far decidere all’Africa cosa è offensivo per gli africani. Nonostante la discussione in merito al termine “nero” sia molto vasta e caratterizzata da opinioni differenti, si tende a considerarlo offensivo perché noi continuiamo a intenderlo tale. Invece, molti africani – o persone di origini africane – lo preferiscono a “di colore”, espressione che ci siamo inventati per lenire un po’ quel senso di disagio che proviamo nel dire “nero”. A “nero” abbiamo dato tempo fa un’accezione negativa, che ci fa ancora sentire in colpa ogni volta che lo pronunciamo. Un po’ perché riconosciamo l’esistenza della supremazia bianca nella maggior parte dei contesti in cui viviamo, un po’ perché involontariamente quel senso di superiorità lo sentiamo ancora.
Proprio per questo, “lasciare spazio” significa anche fare i conti con il nostro senso di colpa e sforzarci di farlo diventare uno strumento per supportare i modi e i mezzi che l’Africa deciderà di utilizzare per risolvere le proprie problematiche. “Lasciare spazio” significa, quindi, non appropriarci di battaglie che non sono nostre e lasciarle combattere a chi sarà protagonista del processo di cambiamento che si innescherà in caso di vittoria. Non dobbiamo insegnare niente.
Editing a cura di Carolina Venco
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