A cinquant’anni dall’istituzione delle regioni ordinarie e a venti dalla riforma del Titolo V, vale la pena riscoprire le origini e le evoluzioni del regionalismo nel nostro ordinamento. In particolare, l’iniziale asimmetria tra regioni a statuto speciale e il resto del territorio, dovuta alle particolari condizioni storico-politiche, si è gradualmente ridotta.
Le origini
Le radici del regionalismo asimmetrico italiano affondano nella profonda diversità regionale che si trovò a dover affrontare l’Assemblea Costituente. In particolare, il divario linguistico, dovuto alla presenza di minoranze di lingua francese, tedesca e slovena, fu il primo e più evidente fattore determinante che portò all’istituzione di cinque regioni a statuto speciale (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige/Südtirol, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna), le quali «dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia» (art. 116.1 Cost.).
All’elemento linguistico, si aggiungevano però anche altri fattori. Innanzitutto, a seguito della Seconda guerra mondiale, l’Italia era vincolata agli obblighi internazionali imposti dai Trattati di Pace di Parigi del 1947, i quali includevano l’Accordo De Gasperi – Gruber del 1946 sulla protezione della minoranza tedesca in Alto Adige/Südtirol. Inoltre, spinte secessioniste provenivano sia dalla Valle d’Aosta, con la formalizzazione nel 1943 di una proposta legislativa per l’attribuzione di maggiore autonomia, sia dalla Sicilia, che nel 1946 redasse una costituzione per un possibile Stato sovrano, poi adattato nel 1948 come Statuto speciale della regione siciliana. A questo quadro, si andarono a sommare alcune ragioni geografiche che richiedevano la garanzia di uno status differenziato rispetto al resto del territorio: l’insularità della Sardegna e la posizione transfrontaliera del Friuli-Venezia Giulia, la quale era anche soggetta a un regime internazionale speciale per la città di Trieste.
Eppure, oltre a quelle già evidenziate, le motivazioni che hanno portato alla necessità di introdurre delle asimmetrie nell’ordinamento si sono successivamente allargate anche ad altri aspetti, tra cui le differenze socioeconomiche tra Nord e Sud Italia sono le più evidenti, anche se non le sole a essere significative. Infatti, a esse si accompagnano, per esempio, le variazioni territoriali in termini di popolazione, densità, dimensioni, conformazione geomorfologica. Vi sono notevoli disparità economiche tra regioni, per esempio in termini di PIL pro capite, tasso di disoccupazione e capitale umano. Infine, non bisogna dimenticare la molteplicità di minoranze linguistiche presenti in tutto il territorio nazionale, in cui sono riconosciute 12 minoranze linguistiche storiche ufficiali, che però variano anch’esse notevolmente in numerosità al proprio interno (basti pensare ai 1.3 milioni di persone che parlano sardo contro alle 2.200 che parlano croato).
Verso uno Stato regionale
Fino all’istituzione delle regioni ordinarie nel corso degli anni Settanta, il regionalismo italiano si limitava alle cinque regioni a statuto speciale, ciascuna delle quali nel tempo ha sviluppato ed esercitato un proprio grado di autonomia. Con l’avvento delle regioni ordinarie, il crescente potere conferito alle regioni ha fatto sì che si assottigliasse la differenza tra regioni ordinarie e speciali, nonostante il percorso sia stato tutt’altro che lineare. Inoltre, tale processo è stato fortemente influenzato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che si è trovata a dover decidere su contenziosi tra Stato e regioni, in assenza di una efficace rappresentanza istituzionale degli interessi regionali a livello centrale.
Questo ha portato gradualmente all’istituzione di strumenti che migliorassero la cooperazione intergovernativa e alla redistribuzione delle competenze tra Stato e regioni, soprattutto dopo le leggi Bassanini alla fine degli anni Novanta. L’autonomia delle regioni è ulteriormente cambiata nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione, riducendo la disparità tra regioni ordinarie e speciali, pur confermando la differenziazione tra le due. Inoltre, la riforma del 2001, con il “famigerato” art. 116.3, ha introdotto la possibilità di un’altra forma di asimmetria costituzionale, in qualche modo interposta tra l’autonomia delle regioni speciali e di quelle ordinarie, con il trasferimento di ulteriori competenze legislative alle regioni che rispettino determinati requisiti economici da cui all’art. 119 della Costituzione. Come per le regioni a statuto speciale, la carta costituzionale prevede che questo tipo di asimmetria sia negoziata bilateralmente tra Stato e regioni, e che tale accordo sia approvato a maggioranza assoluta dalle Camere. Le disposizioni dell’art. 116.3 hanno fatto sì che tali requisiti economici siano potenzialmente rispettati solo dalle regioni del Nord Italia, che in questo modo avrebbero ulteriore autonomia in materie quali istruzione, ambiente, energia e trasporti. Pertanto, qualora il percorso intrapreso da alcune regioni fosse portato a termine, l’aspetto asimmetrico del regionalismo italiano aumenterebbe ulteriormente.
Dal 2001, l’ordinamento italiano ha assunto una forma “quasi federale” nella propria struttura costituzionale, ma non ha assunto un’altrettanta cultura federale. Richiamando l’immagine del pendolo tra centralizzazione (simmetria) e decentralizzazione (asimmetria), alcuni autori sostengono che tale oscillazione dipenda poco dal quadro costituzionale e molto dal contesto politico e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Infatti, l’introduzione di un sostanziale decentramento è stata soggetta alle mutevoli maggioranze politiche e alla loro capacità di realizzare delle riforme costituzionali in materia, così come da una mutevole giurisprudenza della Corte, che prima del 2001 aveva supportato fortemente il processo di decentralizzazione e l’asimmetria nel panorama regionale, per poi disincentivarlo a seguito della riforma del Titolo V.
Uno sguardo all’Europa: il caso spagnolo
Volgendo lo sguardo ad altri ordinamenti europei, è possibile notare come anche altri Stati abbiano introdotto asimmetrie nella propria struttura regionale per far fronte a particolarità non solo storico-culturali, ma anche geografiche, socio-economiche, religiose e linguistiche.
Per esempio, in Spagna la presenza di asimmetrie nell’ordinamento si intreccia inevitabilmente con la storia del Paese. Infatti, per secoli la penisola iberica fu popolata da diverse identità nazionali, idiomi, comunità, istituzioni, che hanno dato origine a profonde differenziazioni, che si sono poi tradotte in termini di popolazione, di estensione territoriale e di PIL pro-capite. Nonostante a partire dal XV secolo la monarchia spagnola fosse riuscita a unificare sotto la propria corona la gran parte dei regni che componevano la penisola, per secoli essa rimase una monarchia estremamente composita, in cui diversi regni mantennero le loro peculiarità, sia dal punto di vista legislativo che istituzionale, soprattutto in Navarra, Catalogna e Paesi Baschi. Tali particolarità furono poi revocate a seguito della Guerra di Successione spagnola con i decreti di Filippo V di Spagna, i quali posero fine alle peculiarità politico-istituzionali dei regni di Valencia, Aragona, Maiorca, Catalogna. Invece, i tratti distintivi di Navarra e Paesi Baschi furono mantenuti, in quanto questi territori nella Guerra di Successione avevano combattuto per il fronte vincente. L’idea di una Spagna centralizzata e unitaria rimase predominante per tutto il XIX secolo, periodo in cui le spinte verso la decentralizzazione venivano tacciate di conservatorismo, in quanto richiamavano l’assetto territoriale dell’ancien régime.
Qualche spiraglio verso l’attribuzione di maggiore autonomia arrivò all’inizio del XX secolo, con l’istituzione della Mancominitat de Catalunya nel 1914, esperienza che però terminò già nel 1923 con la dittatura di Primo de Rivera. Ancora, nel 1931 la Costituzione della Seconda Repubblica spagnola garantiva un certo grado di autonomia alle regioni, a cui seguirono gli Statuti di Autonomia della Catalogna nel 1932 e quello dei Paesi Baschi nel 1936. Nonostante tutto, il colpo di Stato del Generale Francisco Franco e la successiva guerra civile posero nuovamente fine all’autonomia delle due regioni. La morte di Franco e la transizione democratica hanno posto le basi per un’autonomia territoriale permanente per la prima volta dopo secoli e la comunità catalana e basca, la propria storia e unicità nazionale, furono quelle più attive nel rivendicare l’implementazione di forme di autogoverno. Infatti, pur riconoscendo l’indissolubile unità dello Stato, la Costituzione del 1978 prevede una procedura per l’istituzione di “comunità autonome”, status garantito innanzitutto a Catalogna e Paesi Baschi e a seguire ad altre quindici comunità.
Il grande potenziale di asimmetria previsto dalla Costituzione spagnola ha generato grandi aspettative nelle comunità catalane e basche, che si andarono però a scontrare con la tendenza sistemica verso una simmetrizzazione. Ciò ebbe in particolare due effetti. Il primo fu un minore riconoscimento in termini di diversità nazionale nei confronti delle nazionalità catalane e basche, in quanto venivano trattate come le altre regioni spagnole. Dal punto di vista pratico, un altro effetto fu la difficoltà nel garantire a diciassette unità sub-statali un diverso grado di autogoverno, in quanto il potere centrale diventerebbe troppo debole. Anche nel caso spagnolo, quindi, si potrebbe richiamare l’immagine del pendolo tra asimmetria e simmetria, tra asimmetria potenziale e simmetria di fatto.
Fonti e approfondimenti
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Editing a cura di Carolina Venco