Il cesaricidio è una tradizione australiana?

Cesaricidio in Australia
@Apple and Pear Australia Ltd via Wikimedia Commons - CC BY 2.0

Le pugnalate alle spalle per eliminare il proprio leader di partito nella politica australiana non sono una novità anzi, potrebbero essere definite la norma. Negli ultimi vent’anni se ne sono viste almeno una decina e nessun partito sembra esente dal cesaricidio.

L’ultimo caso che ha coinvolto il National Party, storico alleato del partito liberale e membro dell’attuale coalizione, ha visto Barnaby Joyce sfidare e battere l’attuale leader, Michael McCormack, per la guida del partito. Di conseguenza il secondo si è dimesso dalla carica di Vice primo ministro, così da permettere al primo di prenderne il posto al fianco del leader liberale, Scott Morrison, al momento capo dell’esecutivo.

Cerchiamo di capire questa dinamica, diffusa in tutto il mondo ma da decenni marchio di fabbrica della politica a Canberra.

Una vecchia tradizione

La trama è sempre più o meno la stessa e caratterizza tutti i partiti australiani in quanto, in larga parte, tutte le compagini politiche condividono le stesse strutture e regole.

La dinamica ricalca solitamente lo stesso copione. Quando un leader, che stia al potere o all’opposizione, vede perdere un po’ il suo appeal nel grande pubblico, si assiste alla formazione di un’opposizione all’interno dello stesso partito guidata da un nuovo leader, che decide di sfidarlo internamente con una “conta” tra i vertici della formazione politica.

In questo clima di tensione e in uno scenario di grande frammentazione politica come quello dell’Australia, la nazione-continente, grande potere è demandato ai singoli parlamentari o membri di partito che, forti di un certo peso politico, si lasciano allettare dal leader di turno, finendo per “svendersi” al miglior offerente.

In breve, tutto si trasforma in un’australiana sfida all’O.K. Corral, dove i due antagonisti si contendono ogni singolo parlamentare o delegato sperando uno di sopravvivere e l’altro di prevalere, con alterne fortune. Di seguito indichiamo solo i più celebri accoltellamenti a cui Canberra ha assistito negli ultimi decenni.

Nel partito laburista è famosa la sfida tra Julia Gillard e Kevin Rudd, noto come il “Blair australiano”, finita con un primo successo per la leader, ma soltanto temporaneo vista la successiva vendetta di Rudd riportato al potere da una nuova congiura.

Il partito che forse più di tutti pratica l’eliminazione coatta di leader con lotta all’ultimo delegato è però il partito liberale dell’attuale Primo ministro, Scott Morrison. È interessante notare come negli ultimi due decenni ogni leader ne abbia eliminato un altro in un momento di relativa tranquillità e mai prima delle urne.

Partiamo da Malcolm Turnbull, il quale per molto tempo è state l’highlander del partito liberale. L’ex Primo ministro ha dato il via eliminando Brendan Nelson, per poi essere tolto di mezzo allo stesso modo da Tony Abbott, prima di riuscire a tornare ed eliminarlo a sua volta. Nonostante Malcolm Turnbull sia stato incredibilmente resiliente nella sua storia, si è dovuto arrendere all’attuale Primo ministro, Scott Morrison, capace di commettere un doppio omicidio politico ai danni di Turnbull e del suo sfidante iniziale, Peter Dutton. Ubi maior minor cessat.

La natura della politica australiana

Ripercorsa in fretta la tradizione cesaricida del Paese, è però necessario tornare all’attualità del National Party,  perché può aiutarci a chiarire il motivo dietro a questa tendenza.

Le ragioni che hanno spinto Barnaby Joyce, oltre a quelle meramente personali, vanno infatti ricercate nella natura stessa del National Party e nei poteri che rappresenta. Da sempre, infatti, la compagine nazionalista ha due grandi compiti nella politica australiana: rappresentare l’Australia più rurale e conservatrice, curando allo stesso tempo gli interessi dell’industria carbonifera, peso massimo dell’economia di Canberra e della parte interna del territorio rurale.

Il precedente leader del National Party, McCormack, nell’ultimo periodo è stato visto troppo morbido sui temi del cambiamento climatico. Ad esempio, aveva deciso di non porre il veto sulla proposta di Morrison, fortemente spinta dall’amministrazione americana di Biden, di implementare nuove azioni contro la lotta all’inquinamento e a favore della transizione ecologica.

Questa debolezza è costata a McCormack la leadership nel partito e il posto di Vice primo ministro.

Dietro ai ripetuti cesaricidi della politica australiana non vi è alcun profondo sentimento di libertà o bisogno di ricambio politico ma una politica fortemente infiltrata da interessi di parte, favoriti dalla bassa affluenza al voto e da una vistosa frammentazione territoriale ed elettorale in una nazione grande quanto un continente.

Inoltre, questa dinamica  è favorita dal fatto che  le compagini australiane restano legate al modello organizzativo partitico del XX secolo anglosassone – quello che, per semplificare, ha visto sostituire Margaret Thatcher con John Major e Tony Blair con Gordon Brown –  ma con un elettorato liquido tipico del XXI secolo.

Di conseguenza, queste conte interne finiscono tutte nelle mani di personaggi di partito legati ai territori a cui però non devono dare realmente conto. Di fatto non vi è partecipazione, in quanto gli elettori sono pochi e quelli realmente interessati ancora meno. Il tutto rende i delegati o i parlamentari dei viceré di porzioni di un territorio immenso come quello australiano, liberi di essere comprati dai poteri più diversi.

Non è un caso, infatti, che il partito che più di tutti ha visto i propri leader eliminati, quello liberale di Scott Morrison, sia portatore di interessi variegati, che non appena si sentono danneggiati sono pronti a spingere per un cambio di leadership.

Proprio l’attuale Primo ministro è l’emblema di questa tendenza, visto che la sua storia non è molto differente da quella di Boyle. Morrison non avrebbe mai vinto senza l’appoggio delle aziende contrarie alla lotta al cambiamento climatico, che invece voleva portare avanti il suo avversario Peter Dutton nel 2018.

Nel sangue metaforicamente versato dei leader australiani si riflette dunque una delle caratteristiche più complesse e centrali della politica del Paese. Il rischio più grande di questo meccanismo che ormai da decenni caratterizza il modo di fare politica a Canberra è quello del disincanto che serpeggia profondamente tra gli elettori.

Infine, per comprendere l’evoluzione della politica australiana, è sempre utile guardare al cambiamento climatico e in particolare al dibattito sul tema. Mentre abbiamo visto eliminare un possibile Primo ministro e un Vice primo ministro per la loro morbidezza verso le politiche contro il cambiamento climatico, cresce sempre di più la parte di elettorato che chiede queste scelte in modo deciso, visti anche i disastri naturali che si abbattono sull’Australia. Queste due tendenze portano inevitabilmente a uno scontro e non resta che chiedersi quale delle due segnerà la fine dei leader australiani.

 

Fonti e approfondimenti

Grant Wyeth, “A Leadership Spill in the National Party Will Reverberate in Australian Politics”, The Diplomat, 28 Giugno 2021.

Katharine Murphy, We’ve ridden Barnaby’s boom-bust cycle before. God knows what’s to come, The Guardian, 25 Giugno 2021.

Van Badham, “The Nationals is not a serious party for country people – just a collection of bogus stereotypes”, The Guardian, 9 Luglio 2021.

 

Editing a cura di Emanuele Monterotti

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