Tra poco più di un mese Brexit compirà un anno. Lo scorso 31 gennaio, infatti, il Regno Unito è ufficialmente uscito dall’Unione europea (UE) dopo averne fatto parte per 47 anni; non è più parte dell’unione doganale né del mercato unico e non è più coinvolto negli accordi internazionali di cui fa parte l’UE.
Gli osservatori più pessimisti vedevano Brexit come l’inizio di una catastrofe economica per Londra, aggravata ulteriormente dallo scoppio dell’emergenza sanitaria da Covid-19 poche settimane dopo. In realtà, fino a oggi, il sistema economico britannico ha dimostrato di reggere e, grazie anche alla celere risposta all’epidemia del governo guidato da Boris Johnson, di poter fare a meno di Bruxelles.
Nonostante ciò, di problemi ce ne sono stati fin dall’inizio e continuano a esserci: le conseguenze della rottura si riflettono in alcuni settori chiave come la pesca e l’import-export, come pure sulla delicata questione dei migranti che attraversano la Manica e sui rapporti con alcuni Paesi europei, in particolare la Francia.
Il nodo del commercio, tra alti e bassi
Senza alcun dubbio, gli effetti sull’economia erano i più temuti e attesi da entrambe le parti. Fin dai tempi del referendum che ha innescato il processo di uscita del Regno Unito dall’UE, fautori e oppositori di Brexit hanno cercato di prevedere le conseguenze di qualcosa di mai sperimentato prima come l’uscita di uno Stato dall’Unione. Mentre prima Theresa May e poi Boris Johnson si impegnavano a rassicurare la popolazione sugli effetti positivi dell’uscita dal mercato unico, i leader europei evidenziavano l’avventatezza della loro decisione e di non voler assolutamente scendere a compromessi per assecondare le richieste di Londra.
Dopo mesi di supposizioni e pronostici è arrivato gennaio 2021 e l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea è diventata realtà. Nei mesi immediatamente successivi all’uscita ufficiale del Paese (e quindi dall’entrata in vigore del Trade and Cooperation Agreement – TCA) c’è stata un’evidente contrazione degli scambi bilaterali di merci: già nel mese di gennaio 2021, secondo i dati raccolti dall’Office for National Statistics britannico, il calo delle esportazioni verso l’UE era del 40,7% su base mensile.
Nonostante i più strenui oppositori dell’uscita del Regno Unito cercassero di sfruttare quei dati per sostenere la loro tesi, l’evidenza che il calo fosse congiunturale e causato principalmente dalla recrudescenza della pandemia da Covid-19 era evidente. Proprio nell’inverno 2021 infatti, un’impennata di casi ha riportato all’imposizione di lockdown diffusi e restrizioni agli spostamenti, che hanno a loro volta causato il calo di domanda e consumi interni e attenuato inaspettatamente gli effetti di Brexit sull’economia d’oltremanica.
A dimostrazione dell’infondatezza degli allarmismi sull’impatto negativo dell’entrata in vigore del TCA sono stati pubblicati i dati sul commercio tra i Paesi UE e il Regno Unito, che nella primavera scorsa si riprendeva già a ritmi sostenuti e costanti. Il più grande shock dei mercati a livello globale e lo scoppio di un’emergenza sanitaria hanno oscurato Brexit e le sue tanto temute conseguenze, anche perché la situazione emergenziale ha portato a ritardare l’introduzione di controlli doganali.
Scaffali vuoti e lunghe code alle dogane
Il primo ministro Johnson ha cercato di sfruttare a suo favore questi dati per sostenere Brexit, ma gli sviluppi più recenti hanno rivelato che la situazione è molto più complicata di come viene dipinta da Downing Street. Dopo un’iniziale fase di resilienza, infatti, il Regno Unito sta sperimentando la difficoltà nell’approvvigionamento di beni di consumo dovuta principalmente alla mancanza di autotrasportatori, conseguenza delle restrizioni sugli spostamenti dovuti alla pandemia, ma anche dell’uscita dall’UE e del conseguente aumento delle procedure doganali.
La mancanza di autisti di camion è evidente se si pensa alle immagini degli scaffali vuoti dei supermercati di tutto il Regno Unito. Tale situazione preoccupa in particolar modo in vista delle festività natalizie, il momento dell’anno in cui tradizionalmente le richieste di prodotti freschi aumentano. Il fatto è che, oltre alle difficili condizioni di trasporto e ingresso nel Regno Unito, si registra un calo nella domanda di beni britannici da parte dei consumatori europei, cosa che scoraggia gli autotrasportatori spaventati dal rischio di ritornare con i camion vuoti.
Infine, oltre al settore della logistica, anche altri settori iniziano a manifestare gli effetti della Brexit in modo diverso: la mancanza di manodopera poco intensiva e poco specializzata è una conseguenza del nuovo sistema di immigrazione a punti. L’obiettivo del governo di tutelare i lavoratori britannici si è rivelato un errore che lascia scoperti migliaia di posti di lavoro e centinaia di aziende sprovviste di forza lavoro.
Le nuove regole sulle migrazioni
Dal momento che la libera circolazione tra il Regno Unito e l’Unione europea si è conclusa ufficialmente, il Paese ha appunto implementato un nuovo sistema di immigrazione a punti (points-based immigration system) che, secondo il governo, privilegia “competenze e talento” rispetto all’origine delle persone. Il sistema è stato proposto dalla ministra dell’Interno britannica Priti Patel come una soluzione all’annoso problema delle migrazioni irregolari verso il Regno Unito e del numero elevato di richieste d’asilo e di protezione internazionale che le autorità nazionali non riescono più a gestire. Secondo la ministra, il sistema consentirebbe ai più vulnerabili di accedere alla tutela in tempi ragionevoli, favorendo chi entra attraverso vie legali e dimostra di possedere motivazione, competenze e una buona conoscenza dell’inglese e ostacolando chi invece sceglie vie illegali.
Quello che però è stato fortemente criticato è il fatto che tutti coloro che partono da un Paese di primo arrivo ritenuto sicuro o attraversano un Paese europeo verranno rimandati indietro: questo implica una serie di problemi tra cui il fatto che molti migranti irregolari giungono sulle coste inglesi passando dalla Francia. Calais, la cittadina francese diventata nota come “la giungla”, è ancora teatro di partenze che spesso diventano tragedia ed è una delle cause di scontro tra Londra e Parigi. I piani per rimandare le persone in Francia (non solo, ma soprattutto) incontrano, infatti, problemi nel mondo post-Brexit visto che il Regno Unito non può più ricorrere al Regolamento di Dublino, secondo il quale uno Stato membro è autorizzato a far tornare un richiedente asilo nello Stato di primo ingresso. Per ovviare a questo problema, Londra dovrebbe stipulare accordi bilaterali con ciascun Paese, ed è facile capire la difficoltà di un piano del genere, soprattutto se si pensa che i rapporti con Bruxelles, Parigi e Berlino sono ai minimi storici al momento.
Un fragile equilibrio politico
La crisi del settore della logistica e la nuova politica migratoria hanno scatenato l’opposizione al governo, che accusa Johnson di non tutelare i lavoratori e di aver millantato un’indipendenza del mercato interno da quello dell’Unione europea mettendo a repentaglio la tenuta dell’economia britannica in un momento delicato. Come se non bastasse, le tensioni in politica estera hanno ulteriormente aggravato la situazione, con la Germania che una volta entrato in funzione il TCA ha drasticamente ridotto l’importazione di beni dal Regno Unito, ma soprattutto con la Francia che si è dimostrato il Paese europeo più ostile alla politica di Johnson.
I rapporti tra Londra e Parigi, infatti, sono ai minimi storici. Secondo le dichiarazioni dell’ex ambasciatrice francese in Regno Unito, Sylvie Bermann, il presidente Emmanuel Macron non ha ben digerito le ultime mosse del governo britannico in diversi ambiti, dalle politiche migratorie alla questione dell’Irlanda del Nord, arrivando a definirlo come “un clown alla guida di una grande nazione”. La pazienza del presidente francese pare sia arrivata al limite lo scorso settembre, quando Johnson ha firmato l’accordo trilaterale con Stati Uniti e Australia (Aukus) per creare un fronte anti-cinese e dotare l’Australia di una flotta di 8 sottomarini a propulsione nucleare escludendo la Francia dai negoziati e dalla firma dell’accordo. Con un gesto clamoroso quanto atteso, Parigi ha convocato i suoi ambasciatori a Canberra e Washington e criticato Londra per la decisione di escluderla dall’accordo.
Insomma, il Regno Unito di Boris Johnson fatica a trovare la stabilità che pensava di ottenere grazie alla Brexit. La ricerca di un posto da protagonista nella comunità internazionale è messa a repentaglio all’interno dalle critiche dell’opposizione politica e dell’opinione pubblica, mentre all’esterno dallo scontro con la Francia e con le istituzioni europee.
Fonti e approfondimenti
Castellucci M., Inside Londra: La fragilità del governo Johnson e le tre conseguenze irrisolvibili di Brexit, Linkiesta, 3/12/2021.
Tentori D., Regno Unito, l’autunno caldo di BoJo, ISPI Commentary, 17/09/2021.
Bermingham P., Macron says Brexit rules matter of “war and peace” for Ireland amid UK spats, POLITICO, 3/12/2021.
Rizzo A., cinque anni, nel Regno Unito è tutto dominato dalla Brexit, Affari Internazionali, 23/06/2021.
McTague T., La Francia e il Regno Unito sono più simili di quanto si creda, Internazionale, 7/10/2021.
Editing a cura di Francesco Bertoldi
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